LO SCIOPERO ARMATO di Errico Malatesta

Non ho mai amato particolarmente Malatesta, ma certo lo spirito di questo scritto è ben lontano dal catechismo di certi malatestiani.

L’Amanuense

[Londra, 1902]

La propaganda per lo sciopero generale ha fatto e sta facendo un bene immenso. Essa, indicando ai lavoratori un mezzo efficace per emanciparsi da loro stessi, distrugge la fede cieca e nefasta nei mezzi parlamentari e legislativi; scaccia dal movimento operaio gli ambiziosi che se ne fanno sgabello per salire al potere; dà mezzo ai rivoluzionari di impegnare nella lotta la grande massa operai, e mette questa lotta in tali termini che ne deve risultare naturalmente, in modo quasi automatico, una radicale trasformazione dei rapporti sociali. Però i grandi vantaggi di questa propaganda ed il successo che essa ha avuto han dato origine ad un pericolo grave per la causa stessa al cui trionfo essa è indirizzata

Si è andata formando l’illusione che la rivoluzione si possa fare quasi pacificamente, incrociando le braccia e riducendo i padroni a discrezione semplicemente col rifiutarsi di lavorare per loro. Ed ad forza di insistere sulla grande importanza della lotta economica, si è quasi dimenticato che a fianco ed in difesa del padrone che affama vi è il governo che affama ed uccide. A Barcellona, a Trieste, nel Belgio si è già pagato col sangue di popolo il fio di questa illusione. Si è fatto lo sciopero quasi assolutamente senz’armi e senza il proposito determinato di adoperare le pochissime che si avevano; – ed i governi con quattro fucilate han messo ordine a tutto.

Lo sciopero generale, quando si concepisce come uno sciopero legale e pacifico, è una concezione assurda. […] Che cosa si mangerebbe? Con quali mezzi si comprerebbe il necessario per vivere? I lavoratori sarebbero morti di fame assai prima che i borghesi dovessero rinunziare ad un poco del loro superfluo. Dunque se si vuol fare lo sciopero generale, bisogna essere disposti ad impossessarsi dei mezzi di vita in onta ai pretesi diritti di proprietà privata. Ma allora vengono i soldati, e bisogna scappare o battersi. Se dunque si sa che fatalmente lo sciopero dovrà portare al conflitto con la forza armata perché non dirlo e non prepararvici? Dovrà durare eternamente questo giuoco inetto di periodici conflitti in cui per centinaia di proletari uccisi, si ha a mala pena qualche soldato o poliziotto contuso di pietra? Facciamo sciopero ma facciamolo in condizioni da poterci difendere. Poiché dovunque si manifesta un conflitto tra padroni e lavoranti si presenta la polizia e la truppa, mettiamoci in grado di tenerle in rispetto.

I rivoluzionari si debbono armare per essere in grado a fare la rivoluzione quando l’occasione si presenta. Gli operai non rivoluzionari si debbono armare, almeno per non farsi bastonare come montoni. I proletari non potranno mai col risparmio raccogliere un capitale col quale lottare contro il capitale dei padroni; ma possono bene, con un po’ di buona volontà, procurarsi una rivoltella. Ed una massa di scioperanti munita di rivoltella o altre armi qualsiasi, impone ben maggiore rispetto di una che possegga una cassa di resistenza, sia anche pingue. Viva dunque lo sciopero generale, ma sia SCIOPERO ARMATO.

[Secondo articolo della serie L’Amanuense, raccolta di scritti copiati a mano e non reperibili sul web. Precedente articolo: “Contro lo Stato“. Comunicato anarchico sull’uccisione di Aldo Moro]

Trieste, 30.7.2016, Cimex lectularius e galera

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«Il mondo intero non è che una vasta prigione nella quale ogni giorno qualcuno viene estratto a sorte per essere giustiziato».

Walter Raleigh

Si apprende dai media – per usare un noioso quanto ricorrente incipit, ma altro in questo caso non mi veniva -, che a loro volta lo apprendono dall’avvocata di un detenuto del carcere di Trieste, che in quella gabbia ci sono cimici da letto (Cimex lectularius, 5-8 mm).
Pare ci sia l’intenzione di effettuare un’infestazione di tutti i materassi della prigione, che necessiterebbe di un intervento sanitario per debellare le cimici dal letto. Molti detenuti sono costretti a dormire sul pavimento, proprio per sottrarsi al fastidio recato da questi insetti, la cui puntura provoca delle macchie rosse e un fastidioso prurito, che impedisce di dormire. Un problema simile attanaglia anche la galera di Gorizia, i cui cessi vengono occlusi con utensili di fortuna, onde evitare la risalita dalla fogna di insetti e animali.
La società civile (ma neanche tutta) ora strilla e schiamazza invocando un carcere dignitoso.
La Cimex lectularius ha un corpo dalla forma ovale, una testa piccola, occhi sporgenti e si nutre del sangue.
Il Dominio invece ha un corpo tentacolare, non ha un centro, ha occhi e orecchie di metallo nelle strade delle città o nelle nostre tasche, che possiamo estrarre a piacimento per nobilitare il nostro intelletto con Pokémon Go e altre amenità, e si nutre dei coglioni che gli obbediscono.
Penso che quanto di meno dignitoso si possa immaginare sia il fatto che esista una società civile che invochi un carcere dignitoso, che esistano le gabbie, che il discorso sul carcere e contro il carcere si livelli sempre più in basso puntando sempre più verso assistenzialistiche mete o, al massimo, verso un “classismo” di ritorno, in cui alla fu classe operaia si spera di poter sostituire la classe detenuta.

Trieste, 23.7.16, iniziativa in solidarietà ad anarchico di Udine ai domiciliari a Trieste

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NOTE SULLA REPRESSIONE IN CITTÀ

Questa breve cronaca locale delle ultime vicende repressive non vuole essere né un’apologia né un piagnisteo vittimistico, ma un invito all’analisi e alla solidarietà attiva.

Dopo i fatti di Firenze del mese di aprile 2016 (tafferugli dopo provocazioni poliziesche a un concerto in uno spazio occupato), una compagna viene costretta, dopo i primi giorni di carcere, ai domiciliari in attesa di giudizio a Trieste, per poi essere rilasciata il 23 giugno, con obbligo di dimora nel comune.
Denunce (furto e danneggiamento aggravato) per due compagni di Trieste accusati di aver sabotato e rimosso otto telecamere in centro città.
Lunedì 13 giugno, il tribunale di Trieste stabilisce che un compagno friulano dovrà scontare ai domiciliari (iniziati sabato 18 giugno in questa città) una condanna di 8 mesi per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale per i fatti di novembre 2013 (un gruppo di sbirri e gendarmi riconosce il compagno in centro storico a Udine e dopo un dito medio alzato al loro indirizzo, si mette a malmenarlo, pistole alla mano, e a distribuire denunce fra i presenti, arrestando il compagno, denunciandone altri due per resistenza, poi assolti a giugno 2016, e denunciando per resistenza (assolto) e porto d’armi (condannato) ed espellendo dall’Italia un loro amico statunitense che stava filmando la scena).
Lunedì 20 giugno, viene perquisita l’abitazione di un’altra compagna di Trieste (indagine per imbrattamento), accusata di scritte anarchiche su muri della città, con conseguente sequestro di scritti personali. Seguirà interrogatorio della Digos giovedì 7 luglio.

Quante volte nella vita ognuno avrà provato la frustrante sensazione che genera l’immobilismo e la rassegnazione di fronte a tutto ciò che ci opprime? Quante volte abbiamo chinato la testa, credendo che non fosse possibile alcun orizzonte all’infuori del recinto della frustrazione e dell’obbedienza alle regole di questa galera a cielo aperto? Eppure alcuni hanno deciso di alzare la testa, di iniziare a leggere e interpretare questo mondo con occhi propri, comprendendo che non può esservi che umiliante servitù senza rivolta individuale, senza attaccare, scagliare una pietra contro tutto ciò che ci opprime.

Cogliamo l’occasione della costrizione ai domiciliari del compagno di Udine per riflettere sulla repressione.

SABATO 23 LUGLIO
ORE 17:00
PIAZZA ORTIS, TRIESTE

Cogliamo l’occasione anche per esprimere vicinanza al compagno di Venezia colpito da richiesta di sorveglianza speciale.

Solo continuare la lotta può dare un senso alla solidarietà verso i nostri compagni reclusi.

Alcuni anarchici di Udine e Trieste
alcuni-anarchici-ud-trst@inventati.org

Un contributo per l’occasione precedentemente pubblicato su questo blog:

http://info-action.net/index.php?option=com_content&view=article&id=2760:2016-07-21-18-30-35&catid=149:manifestazionigatto

Udine/Trieste, 16.7.16, Le mille facce della repressione

– Abbozzo di contributo su repressione, analisi e solidarietà per un ipotetico dibattito fra compagni –

Udine, domenica 16 luglio 2016

Questa breve cronaca locale delle ultime vicende repressive non vuole essere né un’apologia né un piagnisteo vittimistico, ma un invito all’analisi e alla solidarietà attiva.

Dopo i fatti di Firenze del mese di aprile 2016 (tafferugli dopo provocazioni poliziesche a un concerto in uno spazio occupato), una compagna viene costretta, dopo i primi giorni di carcere, ai domiciliari in attesa di giudizio a Trieste, per poi essere rilasciata il 23 giugno, con obbligo di dimora nel comune.
Denunce (furto e danneggiamento aggravato) per due compagni di Trieste accusati di aver sabotato e rimosso otto telecamere in centro città.
Lunedì 13 giugno, il tribunale di Trieste stabilisce che un compagno friulano dovrà scontare ai domiciliari (iniziati sabato 18 giugno in questa città) una condanna di 8 mesi per resistenza e lesioni a pubblico ufficiale per i fatti di novembre 2013 (un gruppo di sbirri e gendarmi riconosce il compagno in centro storico a Udine e, dopo un dito medio alzato al loro indirizzo, si mette a malmenarlo, pistole alla mano, e a distribuire denunce fra i presenti, arrestando il compagno, denunciandone altri due per resistenza, poi assolti a giugno 2016, e denunciando per resistenza (assolto) e porto d’armi (condannato) ed espellendo dall’Italia un loro amico statunitense che stava filmando la scena).
Lunedì 20 giugno, viene perquisita l’abitazione di un’altra compagna di Trieste (indagine per imbrattamento), accusata di scritte anarchiche su muri della città, con conseguente sequestro di scritti personali. Seguirà interrogatorio della Digos giovedì 7 luglio.

La repressione non si presenta solo in divisa o toga che sia, la repressione ha inizio dal primo momento in cui si mette piede in questa realtà, si realizza attraverso semplici imposizioni, che venendo accettando diventano sempre più soffocanti costrizioni, si realizza attraverso la nostra impossibilità di reazione davanti a queste ultime, si realizza ogni qual volta si venga allontanati da persone e situazioni proprio a causa della propria scelta di non piegarsi dinanzi a ciò che ci viene imposto. Non vi è solo l’evidente repressione delle istituzioni predette al contenimento della devianza dai loro diktat e dal loro mondo interiore ed esteriore: non è repressione solo un foglio di via, un obbligo di dimora, una condanna, un arresto, ecc.. È repressione, assai più subdola e meno palese, anche quella che non viene direttamente calata dall’alto ma si manifesta da parte dei nostri pari stessi, altri esclusi, che sono contenti di vivere un’esistenza di domesticazione, dentro gabbie fisiche e mentali, altri che ti ricordano in ogni momento che te la sei cercata, che devi rientrare nella società se non vuoi problemi, che in fondo questo mondo funziona così e va tutto bene, quando non ti allontanano, giudicano o prendono le distanze da te apertamente in caso di repressione statale.
Inoltre auspichiamo una riflessione, una lettura dei fatti, quanto meno di quelli che ci riguardano da vicino. Tanto presi dalla quotidianità della militanza può capitare che lo spazio per una discussione, un’idea, la proposta per un dibattito che non finisca abortito in un attimo, manchi o scarseggi. Al di là del dirsi solidali, ben più interessante sarebbe per esempio osservare il reprimere di fatti a volte irrilevanti, e questo non per svilire nel linguaggio, nel suo senso, un’azione o per un tentativo auto-apologetico o di dissociazione da se stessi dinanzi allo sguardo dei tribunali. L’abbassarsi del livello della conflittualità determina un acuirsi della repressione anche per inezie, oltre che per reali azioni di lotta. Certamente queste idee sparse nere su bianco in questo foglio vogliono essere un tentativo di stimolo, un tornare a parlare di cose che potrebbero sembrare ovvie e quindi, a nostro avviso, erroneamente considerate da sorvolarsi. Abbiamo colto l’occasione della costrizione ai domiciliari del nostro compagno di Udine per parlare di queste tematiche, dei recenti avvenimenti, ma questo non deve essere che un punto di inizio, o meglio forse una continuazione, non un arrivo, una solidarietà a parole, simbolica, convenzionale, un tornare a parlare, conoscersi, riflettere e quindi rispondere attivamente. Ogni altra dimensione sarebbe vana, fittizia, fine a se stessa: sarebbe una parola rituale per voltare pagina e ripartire come se nulla fosse punto e a capo con la prossima data sul calendario.

Cogliamo l’occasione anche per esprimere vicinanza al compagno di Venezia colpito da richiesta di sorveglianza speciale.

Solo continuare la lotta può dare un senso alla solidarietà verso i nostri compagni reclusi.

Due anarchici
alcuni-anarchici-ud-trst@inventati.org
alcunianarchiciudinesi.noblogs.org

Il nemico e i suoi dintorni di PierLeone Porcu

Non è compito facile, né è comodo il perseverare, quando tutto implica il sapere con se stessi di dover resistere quotidianamente alle piccole soddisfazioni allettatrici del vivere comodo e spensierato. È difficile lottare con costanza mantenendo intatta e incorrotta la propria volontà di non cedere ai compromessi.

La lotta è aspra, dura, aperta, violenta, procura dolore e indurisce i cuori. Molte volte non vi è nulla di piacevole né di soddisfacente, salvo il sapere con noi stessi, che su questa strada passa la nostra autoliberazione individuale e sociale.

Non dobbiamo mai dimenticare che ogni qualvolta si cerca il compromesso, la mediazione in cambio di un po’ di tregua, ci si confonde, ci si accosta al nemico che combattiamo, fino a divenire un suo utile supporto, simili in tutto e per tutto a quelle forze che giornalmente lo sostengono.

Come rivoluzionari anarchici, ad ogni momento sosteniamo che non sappiamo concepire soluzioni della questione sociale che non passino per la strada della diretta e radicale distruzione di tutte le istituzioni presenti, ma al di là dei limiti di vaghe promesse teoriche, sono ben pochi i compagni che vanno a verificarle nell’azione.

Si concorda tutti che non si vive di sole chiacchiere, né di bonarie e ben predisposte affettività ideologiche che ci fanno sentire “tutti fratelli”, ma in concreto quello che si fa è poco o nulla.

E i più mirano ad allontanare da sé i rischi e i pericoli che la lotta sempre comporta quando è tale e non ridotta a spettacoli simbolici recitati in piazza.

Esiste, nelle situazioni sociali, una vocazione a collaborare, a partecipare per non sentirsi tagliati fuori, con tutte quelle rappresentanze democratiche che sappiamo benissimo quanto concorrano, con la loro azione cloroformizzante, a disarmare e frenare gli impeti della rivolta, a smorzare ogni bisogno della vendetta, a mantener nell’apatia, nella sonnolenza le masse proletarizzate. Così, più che radicalizzare il conflitto sociale tra padroni e schiavi, finiamo per ritrovarci in quel calderone di forze politiche e democratiche che tendono a sanarlo sul terreno della partecipativa e alienante dimensione della collaborazione di classe. Tutto questo è dannoso e letale alla causa sociale rivoluzionaria, che a ogni piè sospinto diciamo sostenere.

Quel che muove a sdegno e fa rabbia in questo momento, è che alla trista genìa dei ruffiani e sensali e mercanti della carne proletaria, agli impudichi giullari del potere, ai castratori di ogni tensione rivoluzionaria, ai miopi della questione sociale, ai coccodrilli religiosi o laici della non violenza, non si riesca a dare una chiara e precisa risposta.

Anche perché si continua a vivere di bugiarde promesse fatte a se stessi, rattoppando a destra e a manca le proprie manchevolezze, sfuggendo alle proprie contraddizioni, fino ad aderire ad iniziative che non disturbano l’ordine costituito e la terrificante pace sociale che contribuisce a conservarlo.

Quando ogni cosa che si fa appare un igienico raggio volto a sterilizzare preventivamente ogni germe di rivolta, tutto diventa accettabile, anche la merda. Il tutto in cambio di una meschina e miserabile tranquillità socio-domestica.

In una società dove tutti corrono verso il giustificare le proprie debolezze, dove a prevalere sono i livellamenti verso il basso, dove a dominare sono la mediocrità e la miseria, le coscienze sono flessibili e plasmabili per ogni esigenza, e tutto ciò è espressione di quanto va producendo il sistema democratico.

Nel nostro movimento, molti di coloro che si dicono anarchici, non sono animati da un bisogno intimo di rivolta, ma di essere costantemente afflitti da un mal celato desiderio di voler emergere e possedere una “attraente immagine” come parvenza alternativa ai modelli dominanti nei circuiti sociali della massamarea dei dormienti che ci circonda.

Costoro deviano sul terreno delle piccole felicità, accettano supinamente tutti i compromessi per salvaguardarsi da ogni rischio di conflitto, portano con sé il suicidio di ogni radicale tensione alla rivolta, indossano una umana “maschera” fatta di ipocrite convenzioni e miserevoli giustificazioni, che cela l’aver fatto propria nella tirannia della debolezza, l’abiezione, inconfessabile persino a se stessi nella loro fragilità.

Afflitti dalla paranoia repressiva, sostengono, dietro un contorto e fumoso giro di parole, la tesi che non si deve far nulla in sostanza, al di fuori di quanto legalmente consentito dal sistema, facendosi così apertamente fautori della pacificazione sociale contro la rivolta.

Ma perché non dicono apertamente che hanno paura della lotta, che non sanno dire di no alle proprie debolezze, che il rischio di volersi liberare da ogni tutela li spaventa. Evidentemente preferiscono vivere come animali addomesticati, piuttosto che giocarsi la vita per conquistarsi la libertà. Certo, io li capirei se dicessero chiaramente di amare la comodità, la via dolce e tappezzata di velluto, di non avere il coraggio di rispondere alle angherie ed ai soprusi cui quotidianamente siamo sottoposti.

Tutto ciò è umano; e sappiamo benissimo che “il coraggio uno non se lo può dare”. A che serve nascondersi dietro tanta ipocrisia?

Molti di costoro vivono aggrappati tenacemente ai tanti piccoli miserabili privilegi dati dalla propria condizione sociale, che li vede svolgere diligentemente ruoli dirigenti sui rispettivi posti di lavoro. E così” giocano” a tacere tutto ciò che rovina l’estetica del loro dorato e ovattato mondo in cui se ne stanno ben rintanati, e danno un’immagine addomesticata della realtà del tutto funzionale agli attuali progetti di dominio del capitale e dello Stato.

Non è un caso, che il contrapporsi con durezza di chi si rivolta contro questo stato di cose, si scontri all’interno del Movimento proprio con costoro, che cercano in tutti i modi di dissuaderlo dall’intraprendere la strada dell’insorgenza, volendolo ricondurre all’adozione dei loro innocui e disarmanti metodi di lotta, come l’uso della piazza a mo’ di teatro, dove si rappresentano spettacoli simbolici, utili soltanto a dare di se stessi un’immagine perbenista, gratificante e compatibile con quello che è l’andazzo del più generale spettacolo offerto dai network televisivi.

Per altri versi, c’è chi da tempo immemorabile si è lasciato andare al muoversi come uno zombie per forza d’inerzia dentro il circolo chiuso della “militanza-testimonianza”, che, alla stregua di un dopolavoro consiste nell’aprire la sede e star lì in attesa di qualche mitico evento, tipo “il risveglio dell’iniziativa di massa” o, nel migliore dei casi, nel diffondere la stampa nei “centri sociali”, nelle case occupate e nelle manifestazioni, per poi finire la giornata al cinema o in qualche locale “alternativo”, gestito da ex compagni, reduci del ’68 o del ’77 e dintorni. È in questo modo che si esaurisce, nell’ambito dell’amministrazione-gestione dell’esistente, la dimensione del loro agire, come vuota ripetizione ritualizzata di ciò che è stato e che in quella veste non tornerà mai più. L’accentuarsi della precarietà sociale, l’aggravarsi generalizzato dello stato di cose esistenti, sempre più invivibile, spinge iniziative di lotta per la difesa del proprio status quo e relegate nella mera sopravvivenza. Sempre più chiusi in questi luoghi della resistenza e della conservazione della propria misera quotidiana, il luogo fisico, è una dimensione-divisa mentale.

Non si criticano le cose che si fanno a partire dal voler dar corso ad una radicalizzazione dello scontro sociale, dal voler dare una maggiore incisività all’azione rivoluzionaria, ma tutto viene criticato a partire da quei tratti caratteriali espressione delle proprie paure e attaccamento alle proprie inveterate abitudini. Si mira soprattutto a non mettere in discussione l’attuale essenza di iniziative, in quanto il farlo comporta il rischio di perdere il piccolo spazio ritagliatosi all’interno del Movimento.

L’illegalismo o meglio il muoversi fuori dalla legge, viene esorcizzato e represso, prima ancora che dagli organi polizieschi e giuridici dello Stato, dai fantasmi che assediano la mente di certi compagni.

Il destino del progetto insurrezionale anarchico, sembra oggi giocarsi attraverso una compiacente adesione data al succedersi di fatti serviti come spettacolo altamente repressivo del potere, che può in questo contare su quella parte di compagni che vogliono con tutte le loro forze che vengano allontanati da sé simili e così pericolosi fantasmi inerenti la possibile guerra sociale.

Oggi tutto l’interesse dei compagni viene puntualmente deviato in modo sempre più totalizzante, sui soli aspetti spettacolari e commerciabili, come lo spettacolo di una solidarietà evirata dai conflitti sociali, con la collaborazione anche da parte dei compagni che non condividono questo modo di operare. In questo tipo di iniziative non vi è nulla di inerente a quel che più di ogni altra cosa dovrebbe interessarci: le modalità di una propaganda anarchica rivoluzionaria tesa a sviluppare un’azione insurrezionalista.

Se siamo rimasti noi stessi, testardi più di prima, a lottare e sostenere, al di là di ogni repressione e criminalizzazione quello che contro ogni compromesso abbiamo portato avanti sul piano rivoluzionario, con chiarezza e consapevolezza, perché dovremmo abbandonare questa strada proprio ora. Se esiste una teoria e una pratica rivoluzionaria ancora degna di questo nome, questo è l’anarchismo rivoluzionario. Se esiste uno spirito di rivolta dell’individuo, un desiderio di insorgenza per dar corso alla totale autoliberazione individuale e sociale, questo è quanto abbiamo e sosteniamo e portiamo avanti da sempre.

Noi non abbiamo bisogno di rifarci il “maquillage”, né abbiamo da rinnegare nulla del nostro passato, se c’è qualcosa che ci rimproveriamo, è la nostra insufficienza mostrata quando ci siamo adagiati.

Oggi noi dobbiamo approfondire tutto, ma per poter far meglio di quanto fin qui c’è riuscito di fare è sempre sulla strada aperta e violenta della rivolta “esplosiva” e dello scontro sociale armato contro lo Stato, il capitale, la Chiesa e tutti i loro innumerevoli rappresentanti e servitori.

No, noi non chiudiamo gli occhi sulla realtà, né ci stordiamo e ci lasciamo incantare dalle prefiche di “Liber asinorum” a tal punto, da non riuscire a più a distinguere chi è il nemico (e i suoi dintorni), ciò che va facendo per rendersi più attraente, partecipativo e accettabile.

Non ci interessano le “minestre” riscaldate della critica-critica, nè i bigotti ripetitori delle formule sonanti, quanto vaghe e fors’anco vane, sia tra gli spaccamonti funesti e superflui, quanto per i contemplativi e i salmodianti della teoria “insurrezionalista”. Noi non abbiamo fiducia nelle chiacchiere, né ci interessano le battaglie cartacee, noi ci vogliamo confrontare unicamente sul terreno dell’agire e su quello ragioniamo perchè lì stanno sempre i nostri problemi veri, in quanto ineriscono il qui e ora dell’azione rivoluzionaria anarchica all’interno dei conflitti sociali in corso.

Noi non agiamo solo per distruggere il presente sistema sociale, ma anche contro chi all’interno delle lotte intraprese mira a creare nuove autorità e nuovi istituti di coercizione sociale al posto di quelli annientati.

Noi agiamo per risvegliare la rivolta contro i capi che comandano, contro il gregge che ubbidisce, per affermare la libera autonomia individuale, responsabile solo di fronte alla propria coscienza, il rispetto della sovranità del singolo di fronte alla stupida ed eunuca concordia pecorile delle masse, sempre prone agli ordini di vecchi e nuovi capi.

L’anarchia che incendia i nostri cervelli e infiamma i nostri cuori è inestinguibile fonte di entusiastico palpito

rivoluzionario, che ci porta a voler abbattere iconoclasticamente tutte le divinità del cielo e della terra che albergano nella conservatrice e statica mentalità umana.

Siamo dei perfetti nichilisti e individualisti perché anarchici, e siamo anarchici perché amiamo la libertà e la solidale acrazia tra gli uomini. Saremo e resteremo ancora, forse, degli incompresi e saremo forse maledetti, calunniati, derisi; ma avremo l’orgoglio e la gioia serena, ragionata, convinta, cosciente, così facendo di aver dato sempre tutto per ciò che fa di un uomo un uomo , ossia vivere nell’orizzontalità della vita sulla strada degli uomini liberi.

PierLeone Porcu

Un punto di vista. Contributo di Alfredo Cospito al dibattito aperto da CCF-Cellula guerriglia urbana-Fai

Questo contributo di Alfredo Cospito, prigioniero nel carcere di Ferrara, risponde al testo delle CCF-Cellula guerriglia urbana-Fai tradotto e pubblicato anche su questo blog lo scorso marzo (https://thehole.noblogs.org/post/2016/03/10/grecia-testo-della-cospirazione-delle-cellule-di-fuoco-cellula-di-guerriglia-urbana/).

Lo scritto di Alfredo risale ad oltre un mese fa. Nonostante non sia più sottoposto a formale censura della posta, le comunicazioni dal carcere di Ferrara continuano ad essere intermittenti e con forti ritardi a causa dei soliti spioni in divisa.

Fonte: www.autistici.org/cna

Un punto di vista

Un contributo individuale al dibattito aperto dai fratelli e sorelle delle CCF-Cellula guerriglia urbana-Fai

Ho avuto il piacere di leggere, tradotto da “Sin Banderas.Ni fronteras” il vostro scritto in cinque punti e mi è venuta una gran voglia di contribuire al dibattito. Le notizie qui in prigione in Italia sono limitate e sperando che la traduzione dello scritto in spagnolo sia affidabile, cercherò nei limiti del possibile di dire la mia. Premetto quindi che per la posizione in cui mi trovo e per la mia poca conoscenza della situazione in Grecia il mio contributo sarà limitato. Sorvolerò velocemente sull’interessante analisi che fate della situazione del movimento anarchico greco e sulla sua evoluzione storica negli ultimi dieci anni che mi ricorda da vicino(fatte le dovute differenze storiche) la situazione italiana della “ritirata” dopo l’esperienza di lotta armata degli anni 70 (senza, fortunatamente per voi, lo schifoso strascico di pentiti e dissociati) che qui in Italia, tanto per essere ottimisti, fece nascere dalle ceneri del lottarmatismo un anarchismo più vitale ed originale. Sono d’accordo con voi che le parole degli anarchici-e prigionieri non devono essere santificate e prese per verità assolute, sono semplicemente dei contributi teorici alla lotta. Come sono d’accordissimo quando sostenete che bisognerebbe: ”Ricordare le nostre esperienze passate non per imitarle ma per superarle”. Proprio per questo la creazione di un “movimento anarchico autonomo”, di un “polo anarchico autonomo per l’organizzazione della guerriglia urbana anarchica”, di una “federazione anarchica internazionale “ mi sembra un passo indietro. Un ritorno al passato, ai vecchi schemi che rischiano di ricondurre alla classica organizzazione specifica di sintesi, uno strumento vecchio, un bisturi spuntato. Dopo il “Dicembre nero”, splendida campagna d’azione a cui molti gruppi Fai-Fri hanno partecipato, avete sentito il bisogno di proporre un salto di qualità, avete sentito la necessità di un “polo anarchico autonomo” strutturato con i “propri meccanismi politici, senza burocrazia, nostre proprie assemblee senza ficcanaso, nostre proprie organizzazioni senza rango” e lo avete fatto a nome delle CCF-Cellula guerriglia urbana-Fai.
Capisco perfettamente l’entusiasmo ed il bisogno che sentite di rafforzarvi, di diventare sempre più incisivi, di unire le varie correnti anarchiche rivoluzionarie, individualisti, nichilisti, insurrezionalisti, ribelli ma non credo sia quella la strada. E soprattutto che una proposta di questo tipo non dovrebbe provenire da una cellula Fai/Fri. Mi spiego, darsi un’organizzazione strutturata attraverso la creazione di assemblee inesorabilmente porterebbe alla nascita di organizzazioni specifiche snaturando l’informalità dello strumento Fai-Fri, deviando dagli obiettivi che la federazione informale si è data, facendola venir meno alla sua semplice natura di strumento di comunicazione. Una proposta come la vostra rappresenta sicuramente un tentativo generoso, ma in nome della Fai-Fri spingere alla nascita di un polo anarchico autonomo, fare un discorso quantitativo, ideologico di aggregazione di settori del movimento trasformerebbe la federazione informale in un’organizzazione che per sua natura con questi presupposti non potrà che farsi egemonica, impoverendola, rallentandola, alla lunga uccidendola.
Una proposta come la vostra fatta a nome della Fai-Fri dividerebbe piuttosto che unire, indebolirebbe piuttosto che rafforzare. Non mi stancherò mai di ripeterlo, secondo me la federazione informale deve “limitarsi” ad essere semplice strumento di cui anche compagni-e come me, totalmente alieni da qualunque organizzazione, possano far uso, regalandosi la possibilità di rapportarsi con altri singoli o nuclei sparsi per il mondo. La Fai-Fri è un’arma da guerra, più semplice è la sua struttura, più elementari sono le sue dinamiche di funzionamento, più sarà efficiente. Diminuirne la complessità ne aumenta l’efficacia. Come un coltello ben affilato, come una Tokaref ben oliata. Secondo me sono il coordinamento e l’assemblea le due metodologie che bisognerebbe evitare per non trasformare la Fai in una pachidermica, lenta organizzazione strutturata. Due metodologie che rischierebbero di farla diventare un’organizzazione specifica anarchica, nient’altro infondo della solita federazione anarchica impregnata di ideologia, che spiana qualunque dissenso intorno a sé fino a sparire sotto i colpi della repressione. Sia il coordinamento che le assemblee hanno bisogno della conoscenza diretta tra i gruppi ed i singoli. Per coordinarsi i rappresentanti dei vari gruppi devono incontrarsi e darsi delle scadenze temporali o altro per le azioni. Nelle assemblee i singoli individui si conoscono e dicono la loro, creando inevitabilmente leaderismi: chi sa parlare o muoversi meglio, chi ha più tempo da dedicare all’assemblea detta la linea, generando gerarchie e delega. Sia il coordinamento che l’assemblea espongono alla repressione, tutti si conoscono, è come un castello di carte, se cade una cadono tutte. La Fai in maniera molto semplice e naturale attraverso l’esperienza collettiva di decine di gruppi sparsi per il mondo ha sostituito, senza neanche accorgersene, queste due vecchie metodologie con le campagne rivoluzionarie, che non hanno bisogno di scadenze o conoscenza reciproca, parlano solo le azioni. Non c’è bisogno di coordinamento quando basta comunicare l’inizio di una campagna attraverso le rivendicazioni, scritti che seguono le azioni e che aprono dibattiti tra le differenti tensioni (insurrezionalisti ,individualisti, nichilisti, anarchici sociali e antisociali) creando percorsi nuovi mai caratterizzati dall’uniformità, dall’ideologia, dalla politica. Per quanto riguarda l’assemblea, questa è un modo di politicizzare , ideologizzare dei rapporti semplici e naturali di affinità, amicizia, amore , sorellanza, fratellanza che ogni gruppo Fai-fri tiene di per sé e che riguardano solo la propria vita più intima e che solo nel momento dell’azione si intrecciano con l’esistenza della federazione informale.
Rapporti che riguardano solo il singolo ed il suo gruppo e che non possono esser imprigionati in uno strumento politico come l’assemblea.
Non essendoci contatti diretti tra i gruppi, se si venissero comunque a creare dei meccanismi autoritari rimarrebbero per forza maggiore limitati a quel singolo gruppo, non impestando tutto l’organismo.
Detto questo so bene che chi vuol fare la rivoluzione deve necessariamente rapportarsi con assemblee e coordinamenti, anche perché la rivoluzione si fa con gli sfruttati, con gli esclusi ,con il cosiddetto “movimento reale” .
L’informalità della Fai-fri per un obiettivo” politico” di tale portata è inadeguata. La federazione informale segue un suo percorso di guerra che nei limiti delle sue forze vuole solo distruggere e niente costruire. Un percorso imprevedibile, mai ideologico, mai politico, mai costruttivo che a volte si interseca con quello del “movimento reale”. Due percorsi con obiettivi ben distinti il primo il movimento anarchico ,combattivo, violento, rivoluzionario con le sue assemblee ed organizzazioni specifiche e non il secondo la Fai-fri uno strumento semplice, elementare, basico, informale per fare la guerra, colpire per poi sparire, comunicare senza mai apparire. Bisogna tenere ben distinti i tuoi percorsi che insieme si annullerebbero a vicenda.
Soprattutto una cosa deve essere chiara , si fa parte della Fai -fri solo nel momento dell’azione, poi ognuno ritorna alla propria vita di anarchico, nichilista, individualista, ai propri progetti alla propria prospettiva di ribelle o rivoluzionario con tutto il suo corollario di assemblee, coordinamenti, nuclei di affinità, occupazioni, comuni ,lotte sul territorio , e chi più ne ha più ne metta.
La Fai-fri(così almeno la intendo io) non è un partito, né un movimento né tanto meno un’organizzazione, ma un mezzo per rafforzare e potenziare i singoli gruppi di affinità o singoli individui d’azione attraverso campagne internazionali che uniscono le nostre forze senza coordinamenti, senza cedere preziosa libertà. Un mezzo di cui può avvalersi qualunque anarchico che aspiri alla distruzione qui ed ora. Non è uno strumento perfetto, molte cose si possono migliorare ad iniziare dalle campagne internazionali che, secondo me, non sono mai state sfruttate a pieno. Immaginate di concentrare le forze su obiettivi di uno stesso genere , di portata internazionale. Cosa c’è di più internazionale e nocivo delle multinazionali, dell’industria tecnologica, della scienza…se le campagne sono generiche vanno secondo me a perdere forza e significato se ci si limita ad un fatto di mera testimonianza di generica solidarietà non si sfruttano a pieno le reali capacità di uno strumento che potrebbe (in quel caso sì ) far fare un enorme salto di qualità.
La prima generazione delle CCF ha avuto un gran merito, certi discorsi che prima erano stati fatti solo teoricamente, attraverso la loro forza e coerenza si sono concretizzati, hanno preso vita nelle campagne internazionali. Un discorso antico, che agli inizi degli anni 60 le federazioni giovanili anarchiche europee avevano messo in pratica e che sembrava appartenere ad un passato ormai lontano, oggi ha ripreso vita grazie al coraggio ed alla fantasia di fratelli e sorelle rinchiusi da anni nelle carceri greche ma, mai arresi .Un discorso attualissimo che, attraverso l’informalità, è rinato ed è più forte che mai.
Alfredo Cospito