Non è compito facile, né è comodo il perseverare, quando tutto implica il sapere con se stessi di dover resistere quotidianamente alle piccole soddisfazioni allettatrici del vivere comodo e spensierato. È difficile lottare con costanza mantenendo intatta e incorrotta la propria volontà di non cedere ai compromessi.
La lotta è aspra, dura, aperta, violenta, procura dolore e indurisce i cuori. Molte volte non vi è nulla di piacevole né di soddisfacente, salvo il sapere con noi stessi, che su questa strada passa la nostra autoliberazione individuale e sociale.
Non dobbiamo mai dimenticare che ogni qualvolta si cerca il compromesso, la mediazione in cambio di un po’ di tregua, ci si confonde, ci si accosta al nemico che combattiamo, fino a divenire un suo utile supporto, simili in tutto e per tutto a quelle forze che giornalmente lo sostengono.
Come rivoluzionari anarchici, ad ogni momento sosteniamo che non sappiamo concepire soluzioni della questione sociale che non passino per la strada della diretta e radicale distruzione di tutte le istituzioni presenti, ma al di là dei limiti di vaghe promesse teoriche, sono ben pochi i compagni che vanno a verificarle nell’azione.
Si concorda tutti che non si vive di sole chiacchiere, né di bonarie e ben predisposte affettività ideologiche che ci fanno sentire “tutti fratelli”, ma in concreto quello che si fa è poco o nulla.
E i più mirano ad allontanare da sé i rischi e i pericoli che la lotta sempre comporta quando è tale e non ridotta a spettacoli simbolici recitati in piazza.
Esiste, nelle situazioni sociali, una vocazione a collaborare, a partecipare per non sentirsi tagliati fuori, con tutte quelle rappresentanze democratiche che sappiamo benissimo quanto concorrano, con la loro azione cloroformizzante, a disarmare e frenare gli impeti della rivolta, a smorzare ogni bisogno della vendetta, a mantener nell’apatia, nella sonnolenza le masse proletarizzate. Così, più che radicalizzare il conflitto sociale tra padroni e schiavi, finiamo per ritrovarci in quel calderone di forze politiche e democratiche che tendono a sanarlo sul terreno della partecipativa e alienante dimensione della collaborazione di classe. Tutto questo è dannoso e letale alla causa sociale rivoluzionaria, che a ogni piè sospinto diciamo sostenere.
Quel che muove a sdegno e fa rabbia in questo momento, è che alla trista genìa dei ruffiani e sensali e mercanti della carne proletaria, agli impudichi giullari del potere, ai castratori di ogni tensione rivoluzionaria, ai miopi della questione sociale, ai coccodrilli religiosi o laici della non violenza, non si riesca a dare una chiara e precisa risposta.
Anche perché si continua a vivere di bugiarde promesse fatte a se stessi, rattoppando a destra e a manca le proprie manchevolezze, sfuggendo alle proprie contraddizioni, fino ad aderire ad iniziative che non disturbano l’ordine costituito e la terrificante pace sociale che contribuisce a conservarlo.
Quando ogni cosa che si fa appare un igienico raggio volto a sterilizzare preventivamente ogni germe di rivolta, tutto diventa accettabile, anche la merda. Il tutto in cambio di una meschina e miserabile tranquillità socio-domestica.
In una società dove tutti corrono verso il giustificare le proprie debolezze, dove a prevalere sono i livellamenti verso il basso, dove a dominare sono la mediocrità e la miseria, le coscienze sono flessibili e plasmabili per ogni esigenza, e tutto ciò è espressione di quanto va producendo il sistema democratico.
Nel nostro movimento, molti di coloro che si dicono anarchici, non sono animati da un bisogno intimo di rivolta, ma di essere costantemente afflitti da un mal celato desiderio di voler emergere e possedere una “attraente immagine” come parvenza alternativa ai modelli dominanti nei circuiti sociali della massamarea dei dormienti che ci circonda.
Costoro deviano sul terreno delle piccole felicità, accettano supinamente tutti i compromessi per salvaguardarsi da ogni rischio di conflitto, portano con sé il suicidio di ogni radicale tensione alla rivolta, indossano una umana “maschera” fatta di ipocrite convenzioni e miserevoli giustificazioni, che cela l’aver fatto propria nella tirannia della debolezza, l’abiezione, inconfessabile persino a se stessi nella loro fragilità.
Afflitti dalla paranoia repressiva, sostengono, dietro un contorto e fumoso giro di parole, la tesi che non si deve far nulla in sostanza, al di fuori di quanto legalmente consentito dal sistema, facendosi così apertamente fautori della pacificazione sociale contro la rivolta.
Ma perché non dicono apertamente che hanno paura della lotta, che non sanno dire di no alle proprie debolezze, che il rischio di volersi liberare da ogni tutela li spaventa. Evidentemente preferiscono vivere come animali addomesticati, piuttosto che giocarsi la vita per conquistarsi la libertà. Certo, io li capirei se dicessero chiaramente di amare la comodità, la via dolce e tappezzata di velluto, di non avere il coraggio di rispondere alle angherie ed ai soprusi cui quotidianamente siamo sottoposti.
Tutto ciò è umano; e sappiamo benissimo che “il coraggio uno non se lo può dare”. A che serve nascondersi dietro tanta ipocrisia?
Molti di costoro vivono aggrappati tenacemente ai tanti piccoli miserabili privilegi dati dalla propria condizione sociale, che li vede svolgere diligentemente ruoli dirigenti sui rispettivi posti di lavoro. E così” giocano” a tacere tutto ciò che rovina l’estetica del loro dorato e ovattato mondo in cui se ne stanno ben rintanati, e danno un’immagine addomesticata della realtà del tutto funzionale agli attuali progetti di dominio del capitale e dello Stato.
Non è un caso, che il contrapporsi con durezza di chi si rivolta contro questo stato di cose, si scontri all’interno del Movimento proprio con costoro, che cercano in tutti i modi di dissuaderlo dall’intraprendere la strada dell’insorgenza, volendolo ricondurre all’adozione dei loro innocui e disarmanti metodi di lotta, come l’uso della piazza a mo’ di teatro, dove si rappresentano spettacoli simbolici, utili soltanto a dare di se stessi un’immagine perbenista, gratificante e compatibile con quello che è l’andazzo del più generale spettacolo offerto dai network televisivi.
Per altri versi, c’è chi da tempo immemorabile si è lasciato andare al muoversi come uno zombie per forza d’inerzia dentro il circolo chiuso della “militanza-testimonianza”, che, alla stregua di un dopolavoro consiste nell’aprire la sede e star lì in attesa di qualche mitico evento, tipo “il risveglio dell’iniziativa di massa” o, nel migliore dei casi, nel diffondere la stampa nei “centri sociali”, nelle case occupate e nelle manifestazioni, per poi finire la giornata al cinema o in qualche locale “alternativo”, gestito da ex compagni, reduci del ’68 o del ’77 e dintorni. È in questo modo che si esaurisce, nell’ambito dell’amministrazione-gestione dell’esistente, la dimensione del loro agire, come vuota ripetizione ritualizzata di ciò che è stato e che in quella veste non tornerà mai più. L’accentuarsi della precarietà sociale, l’aggravarsi generalizzato dello stato di cose esistenti, sempre più invivibile, spinge iniziative di lotta per la difesa del proprio status quo e relegate nella mera sopravvivenza. Sempre più chiusi in questi luoghi della resistenza e della conservazione della propria misera quotidiana, il luogo fisico, è una dimensione-divisa mentale.
Non si criticano le cose che si fanno a partire dal voler dar corso ad una radicalizzazione dello scontro sociale, dal voler dare una maggiore incisività all’azione rivoluzionaria, ma tutto viene criticato a partire da quei tratti caratteriali espressione delle proprie paure e attaccamento alle proprie inveterate abitudini. Si mira soprattutto a non mettere in discussione l’attuale essenza di iniziative, in quanto il farlo comporta il rischio di perdere il piccolo spazio ritagliatosi all’interno del Movimento.
L’illegalismo o meglio il muoversi fuori dalla legge, viene esorcizzato e represso, prima ancora che dagli organi polizieschi e giuridici dello Stato, dai fantasmi che assediano la mente di certi compagni.
Il destino del progetto insurrezionale anarchico, sembra oggi giocarsi attraverso una compiacente adesione data al succedersi di fatti serviti come spettacolo altamente repressivo del potere, che può in questo contare su quella parte di compagni che vogliono con tutte le loro forze che vengano allontanati da sé simili e così pericolosi fantasmi inerenti la possibile guerra sociale.
Oggi tutto l’interesse dei compagni viene puntualmente deviato in modo sempre più totalizzante, sui soli aspetti spettacolari e commerciabili, come lo spettacolo di una solidarietà evirata dai conflitti sociali, con la collaborazione anche da parte dei compagni che non condividono questo modo di operare. In questo tipo di iniziative non vi è nulla di inerente a quel che più di ogni altra cosa dovrebbe interessarci: le modalità di una propaganda anarchica rivoluzionaria tesa a sviluppare un’azione insurrezionalista.
Se siamo rimasti noi stessi, testardi più di prima, a lottare e sostenere, al di là di ogni repressione e criminalizzazione quello che contro ogni compromesso abbiamo portato avanti sul piano rivoluzionario, con chiarezza e consapevolezza, perché dovremmo abbandonare questa strada proprio ora. Se esiste una teoria e una pratica rivoluzionaria ancora degna di questo nome, questo è l’anarchismo rivoluzionario. Se esiste uno spirito di rivolta dell’individuo, un desiderio di insorgenza per dar corso alla totale autoliberazione individuale e sociale, questo è quanto abbiamo e sosteniamo e portiamo avanti da sempre.
Noi non abbiamo bisogno di rifarci il “maquillage”, né abbiamo da rinnegare nulla del nostro passato, se c’è qualcosa che ci rimproveriamo, è la nostra insufficienza mostrata quando ci siamo adagiati.
Oggi noi dobbiamo approfondire tutto, ma per poter far meglio di quanto fin qui c’è riuscito di fare è sempre sulla strada aperta e violenta della rivolta “esplosiva” e dello scontro sociale armato contro lo Stato, il capitale, la Chiesa e tutti i loro innumerevoli rappresentanti e servitori.
No, noi non chiudiamo gli occhi sulla realtà, né ci stordiamo e ci lasciamo incantare dalle prefiche di “Liber asinorum” a tal punto, da non riuscire a più a distinguere chi è il nemico (e i suoi dintorni), ciò che va facendo per rendersi più attraente, partecipativo e accettabile.
Non ci interessano le “minestre” riscaldate della critica-critica, nè i bigotti ripetitori delle formule sonanti, quanto vaghe e fors’anco vane, sia tra gli spaccamonti funesti e superflui, quanto per i contemplativi e i salmodianti della teoria “insurrezionalista”. Noi non abbiamo fiducia nelle chiacchiere, né ci interessano le battaglie cartacee, noi ci vogliamo confrontare unicamente sul terreno dell’agire e su quello ragioniamo perchè lì stanno sempre i nostri problemi veri, in quanto ineriscono il qui e ora dell’azione rivoluzionaria anarchica all’interno dei conflitti sociali in corso.
Noi non agiamo solo per distruggere il presente sistema sociale, ma anche contro chi all’interno delle lotte intraprese mira a creare nuove autorità e nuovi istituti di coercizione sociale al posto di quelli annientati.
Noi agiamo per risvegliare la rivolta contro i capi che comandano, contro il gregge che ubbidisce, per affermare la libera autonomia individuale, responsabile solo di fronte alla propria coscienza, il rispetto della sovranità del singolo di fronte alla stupida ed eunuca concordia pecorile delle masse, sempre prone agli ordini di vecchi e nuovi capi.
L’anarchia che incendia i nostri cervelli e infiamma i nostri cuori è inestinguibile fonte di entusiastico palpito
rivoluzionario, che ci porta a voler abbattere iconoclasticamente tutte le divinità del cielo e della terra che albergano nella conservatrice e statica mentalità umana.
Siamo dei perfetti nichilisti e individualisti perché anarchici, e siamo anarchici perché amiamo la libertà e la solidale acrazia tra gli uomini. Saremo e resteremo ancora, forse, degli incompresi e saremo forse maledetti, calunniati, derisi; ma avremo l’orgoglio e la gioia serena, ragionata, convinta, cosciente, così facendo di aver dato sempre tutto per ciò che fa di un uomo un uomo , ossia vivere nell’orizzontalità della vita sulla strada degli uomini liberi.
PierLeone Porcu