DOPO TANTO TEMPO (breve riflessione)

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Sono tanti anni che non scrivo in maniera pubblica, anni che credo abbiano maturato il mio pensiero e la mia persona.

Ho scelto il silenzio non per paura della repressione e delle sue minacce, ma lo ho scelto perché credo che chi parla di individuo e di superamento dei limiti dello stesso un giorno deve venire a patti con ciò che teorizza e scrive. Ho abbracciato l’individualismo e il nichilismo, poi, con tutta me stessa, riconoscendo la profonda forza  che potenzialmente risiede in ognuno di noi, potenziale che non sempre nella vita, per i più svariati motivi,  viene fuori. E allora mi sono accorta che è molto più semplice sedersi sul famoso “vertice” a sputare sentenze dimenticandosi quanto sia stato faticoso e doloroso scalarlo, che rimanere ben ancorati alla realtà.

La realtà, è questa la parola chiave per me oggi, la realtà che mi circonda. La realtà che non è quella di duecento anni fa, quella dei filosofi, dei padri e delle madri dell’anarchia, ma non è neppure quella di sessant’anni fa: gli anni che dovrebbero assomigliarci di più, gli anni che avrebbero  aperto la strada a quello che è stata la nostra storia di oggi. Ed invece nulla è come allora, neppure un’ombra di quella fierezza, della contestazione, delle lotte sia nelle piazze che nelle carceri, mi ritrovo di fronte ad una realtà che è diventata piatta, chiusa nei particolarismi ideologici e nelle beghe di movimento.

Mi chiedo a chi potremmo fare paura? Come potremmo sperare che “ la paura cambi di campo”?

Partendo dal presupposto che lo Stato che combattiamo, le istituzioni borghesi che osteggiamo e vorremmo vedere finalmente rase al suolo, sono strategicamente  e militarmente più organizzate, come pensiamo che la disgregazione e i particolarismi interni ad un movimento possano giovare alla rivolta?

E se pure l’azione, intesa come prassi, che guida ognuno di noi non è la stessa, a chi giova questo continua critica filosofica sulla “prassi rivoluzionaria”?

Credo che ci sia una seria mancanza di concretezza, non in tutti certo, e per questo  ricordo con piacere tutte le azioni che ancora ogni giorno vengono portate avanti dai compagni in ogni parte del mondo, e i compagni rinchiusi nelle galere che di lotta hanno vissuto e chi ci sprona ad andare avanti. Ma credo che ci meritiamo tutti di più: la costruzione di una seria alternativa a questa società fondata sul denaro e sullo sfruttamento dell’uomo su ogni vivente. Ci meritiamo di più, ma per fare questo dobbiamo lottare ogni giorno per riprendere in mano le nostre vite in maniera concreta : fino alla liberazione.

S.Z

 

In supporto alla chiamata del BLACKDECEMBER#15

Arte e Anarchia. Una conversazione con Enrico Baj di Cristiano Gilardi

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L’intervista che vi proponiamo, a cura di Cristiano Gilardi, non è stata mai pubblicata prima e risale al 1999.

Enrico Baj è stato un pittore, scultore e anarchico italiano.

 

C.G.: Dalla grande tela I funerali dell’anarchico Pinelli al libro dedicato a Maria Soledad Rosas, passando per il monumento a Bakunin, il tema dell’anarchia è stato affrontato da te in maniera anche esplicita. Ma cosa significa, per te, “arte anarchica”?

E.B.: Io penso che l’arte moderna in se stessa nasca da una pulsione anarchica, da quella famosa frase di Dante: “libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta”, Purgatorio, primo Canto, quando Virgilio incontra Catone che si era tolto la vita per non sottostare all’imperatore Cesare. Io ho fatto un grande monumento a Bakunin, di cui è stato realizzato un piccolo multiplo di quaranta esemplari il basamento reca questa frase.

L’arte moderna nasce col Die Brucke nel 1905 in unità anarchica perché, svincolata l’arte, grazie ai suoi precedenti impressionisti e post-impressionisti francesi che hanno sollecitato il sorgere di movimenti di avanguardia oggi detti “storici”, si è sviluppata tremendamente questa pulsione di libertà dalla rappresentazione del potere. Il pittore rappresentava quel che voleva, in genere con gli Impressionisti faceva riferimento alla natura e al verde, quindi erano dei Verdi Antelitteram, e la cosa si è sviluppata con tutti questi movimenti di avanguardia, anche in senso negativo, perché le avanguardie hanno molti aspetti  distruttivi e non tanto propositivi, come quando Marinetti diceva: distruggiamo le accademie!, poi non proponeva nulla perché, in effetti, lui stesso è diventato accademico d’Italia. E Dada era anch’esso molto negativo nei suoi proclami: negazione dell’arte, dei sentimenti, dei luoghi comuni della retorica borghese, senza però proporre qualcosa di sostitutivo. Dada ha avuto però la fortuna che le sue ceneri sono state, per così dire, raccolte da Breton e dal Surrealismo, diventando il movimento più germinante e ricco di proposte, anche a livello politico, dato che i surrealisti sono sempre stati  prima antistalinisti e trotzkisti, e poi molto legati al movimento anarchico.

Quindi da Die Brucke del 1905 alla morte di Breton nel 1966, c’è una linea continua,  quella di dire che la politica,  la critica, la morale etc, riguardano  tutte l’arte. Breton questo lo ha perseguito fino all’ultimo, e di questo gli sono grato.

Molte avanguardie si sono perse, invece, in giochi formali. E tutta l’arte moderna è quasi sempre avulsa da un pensiero rappresentativo di tipo socio-antrolopogico. Le grandi opere, tipo il mio Pinelli, si contano sulle dita di una mano. Perché l’altra  grande opera a cui il Pinelli si rifà completamente è Guernica di Picasso: la luce della finestra o le figure del Pinelli, della moglie e delle figlie, sono tratte da quell’opera. Ma tanti hanno fatto opere pretestuosamente o date con titoli di tipo politico-sociale, ma che non hanno nulla a che vedere con questo. Beuys, per esempio, ha fatto una performance raccogliendo dei volantini durante una manifestazione. Ma sono tutti gesti formali di accumulazione di detriti in cui largamente consiste l’arte moderna. Andare a raccogliere dei volantini di un corteo che inneggia, metti, alla sinistra, non vuol dire fare opera diffusionista, vuol dire che lui, nella sua posizione di artista concettuale elitario, approfitta per smerciare questo come opera d’arte. Fa l’opera dello spazzino, solo che lui può proporre di esporla a un museo. Così succede spesso. Come quando ho letto un articolo sulla rivista Libertaria diretta da Luciano Lanza in cui un anarchico parlava alla Biennale di Harald Szeemann. Io ho subito protestato: Harald Szeemann anarchico? Ma questo ha diretto cento comitati delle mostre più ufficiali del mondo; fa parte del sistema nel modo più assoluto, e non basta che lui mi racconti che è anarchico, perché questo può confondersi con una pulsione casinista; con un certo esser liberi, che poi piace anche ai borghesi avere l’artistoide matto che si ubriaca, vocia un pò e osa dire delle cose non troppo per bene. Però, anche un suo predecessore, Pontus Hulten,  si dichiarava anarchico, ed era un anarchico che a Stoccolma aveva accesso  permanente in Casa reale. E’ vero che le Case reali svedesi sono molto meno noiose di quelle che noi conosciamo, cioè hanno una non pretesa di esibizione continua dei loro privilegi (è già qualcosa), ma lui si dichiarava anarchico di Casa reale, e ha me ha fatto un bello scherzo, quando nel ’72 il mio Pinelli è stato censurato, mi ha detto di volerlo esporre al museo di Stoccolma, come di fatti è stato. Ma quando vado all’inaugurazione trovo, nella stanza vicina, una banda che suona Jazz in modo fragorosissimo,  e lui, vedendomi molto sgomento, si avvicina e mi dice che era una manifestazione già prevista e che non poteva evitarla, ma secondo me l’aveva fatto apposta, per distrarre il pubblico dall’opera. La cosa è stata poi confermata perché alla mostra si è presentato un italiano che era fuggito in Svezia per i fatti di Piazza Fontana: magro, vestito appena nonostante il freddo di quel luogo,… aveva l’aria del vecchio libertario, e il direttore si avvicina e mi dice: ma adesso non verranno anche gli anarchici a questa mostra?! Io sono rimasto talmente di merda, ma lasciam perdere.

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C.G: Tu nasci in Italia ma consideri la Francia la tua seconda patria. Essendo la prima più tradizionalista e la seconda più incline alle trasformazioni, di riflesso: quanto ha contato nei tuoi lavori la tradizione e quanto l’innovazione?

E.B.   Beh, diciamo che c’è stato un certo equilibrio, perché io ad esempio nel ’53 per dare uno spessore anche culturale al Movimento Nucleare ho risuscitato il primo poeta atomico nucleare del mondo che è Lucrezio, e ho realizzato 36 incisioni per il De Rerum Natura in modo abbastanza classico, che ricorda Picasso o tutti i vasi greci da cui lui ha preso spunto. E poi nel ’86 ho realizzato, quasi compiendo un ciclo tradizionale, il Paradiso Perduto del poeta inglese Milton. Poi mi è venuta fuori una certa classicità di rappresentazione con i periodi del Kitsch e del Giardino delle Delizie, dove ho sviluppato una mitomania del Kitsch realizzata anche in ceramica. Io ritengo che il Kitsch sia il vero stile della nostra epoca, nell’accozzaglia di tutte queste correnti, il kitsch che è sì il cattivo gusto, ma è anche qualcosa di più a livello psicologico perché contiene valenze e attrattive di tipo memoriale: la ricerca del tempo perduto di Proust; sentimentale: le cose dolci a cui siamo attaccati: ad un bel mazzo di fiori, a dei nudini non offensivi, quasi soffusi di veli, paesaggi svizzeri o napoletani, tutto quello che nella memoria costituisce il tòpos di attrazione naturalistico-sentimentale con una base di rappresentazione realistica o quasi della narrazione dell’oggetto.

E quindi le due cose si sono molto alternate: cultura classica e cultura moderna: “l’esprit delle temps moderns” seguito in Francia dai grandi poeti: da Lautréamont, a Breton per ultimo.

Lo spirito dei tempi moderni deve essere una pulsione a cambiare se è possibile, ma non a cambiare prodotto che è tutta un’altra cosa. Se si vuole, per evocare una frase <<a cambiare la qualità della vita, della pittura, dell’immaginario, a sollecitare la creatività dell’uomo>> e per questo non basta far scandalo perché, come ha scritto anche Benjamin, tutta la cultura moderna sembra attratta dal lato scandalistico: novità scandalistica che impressiona, che viene captata dai giornali, ma che attira la gente come una calamita. Invece le novità interiori esercitano una attrattiva di lunga portata, più profonda ma meno immediata.

C.G: I multipli d’arte e le stampe d’incisione rappresentano, al di là della loro matrice, dei cloni. I tuoi multipli e le tue stampe non credi siano un po’ in contrasto con l’idea di innovazione appena descritta?

E.B.   Si, infatti questi multipli e queste stampe si sono fatte, almeno per quel che mi riguarda, fino ad una ventina d’anni fa, principalmente perché non hanno più avuto tanta fortuna sul mercato, ma per fortuna! In effetti quando l’arte non era diciamo “sputtanata” al punto come è oggi, vigeva un altra teoria quella di cercare di produrre alcuni multipli e stampe le quali si sarebbero fatte portatrici d’arte a livello un pò più allargato, perché avevano costi di realizzo e di vendita molto bassi, quindi c’era ancora la teoria di poter allargare un pò la cerchia della fruizione, dopo la cosa non ha più funzionato perché vi è stata una strana risorgenza, piuttosto per difendere l’arte anche da un punto di vista commerciale, della teoria dell’unicum di Benjamin, in cui l’unicum comunicherebbe una sensazione che l’opera moltiplicata non comunicherebbe, e si è fatto leva a sollecitare un certo collezionismo sull’unicum e sulla teoria dell’altissimo prezzo, in genere miliardi, cinquanta miliardi per un quadro…

C.G: Nel tuo libro “Impariamo la pittura” Guido Ballo scrive: <Le opere più alte di poesia e di arte sorgono nelle civiltà in cui la libertà di espressione è costretta dentro un margine minimo…>. In una ipotetica società libertaria sarà ancora possibile, secondo te, produrre opere di un certo livello qualitativo?

E.B. Penso di si, penso che nulla osta. Dobbiamo però liberarci un po’ dalle categorie della cosiddetta “qualità”, perché a una conferenza a Parigi su Tadeusz Kantor, considerato dal regista inglese Peter Brooks: <un uomo che porta una certa qualità>, io sono insorto subito dopo, dicendo: “Che cos’è la qualità?” Io conosco solo il marchio di qualità! No, bisogna intendersi bene sulle parole, perché la parola qualità è usata ormai per la moda, per la purezza di un materiale. La qualità in senso etico-estetico è molto difficile da definire, per fortuna non abbiamo più canoni di bellezza  o di altro, per cui questa qualità deve sfociare semmai, da un equilibrio di valori, dalle valenze che può trasmettere l’opera, valenze, io penso, sempre di tipo “antropologiche”, legate all’uomo, perché nell’arte contemporanea c’è un dramma che una francese in un libro ha rilevato molto bene, a mio avviso: <l’arte oggi non riguarda l’uomo, cioè non è umana, ma riguarda i prodotti dell’uomo>. Allora un’opera Minimale, Costruttivista ecc. è fatta di begli acciai laccati, come una struttura di fabbrica più o meno, ma l’uomo non entra mai in gioco.

C.G: Tu fai il paragone con la vita che non è mai liscia…

E.B. Appunto! Io credo che la più grande rivoluzione degli Impressionisti sia stata cominciare a fare le pitture come carta vetrata, con colpi di pennello, piuttosto che laccate come erano le pitture verniciate prima della mostra, sembravano degli specchi… Questo grattato degli Impressionisti attrae tremendamente il tatto e poi vien voglia quasi di masticarlo come un torrone, per esempio i quadri di Van Gogh qualche volta avrei voluto masticarli, con tutti quei colpi di spatola…

C.G: Nel ’53 avviene la tua adesione in cofondazione al Bauhaus Immaginista, componente fondamentale del Situazionismo, che tu abbandoni perché divenuto troppo retorico. Quali differenze e analogie ci sono tra un situazionista ed Enrico Baj?

E.B.   Tutte e nessuna, perché alla fine ho rivalutato molto l’opera di Debord, in quanto la sua intuizione c’era già in Platone che condannava la società di spettacolo facile fatta per commuovere il pubblico. Anche i poeti od Omero lui li metteva in discussione. La definizione di “Società di spettacolo” è come il trionfo estremo del capitalismo condizionante a tutti i livelli, e la gente non si rende conto che questa è una colonizzazione mentale, esercitata attraverso la continua propagazione di spettacoli. La pittura rischia  di essere soppressa e superata perché è arte del silenzio, si fa in silenzio e si guarda in contemplazione, è questo non è coerente con il rumorismo dove tutto viene esaltato pazzescamente dalla luce.

C.G: Per tornare alla terza domanda, potremmo dire che il potere è uno strano elemento non completamente assimilabile dall’uomo: rompe gli equilibri interni. Chi ha potere deve scagliarlo contro qualcosa o qualcuno per ritornare ad esserne libero, e magari per ritornare a ridesiderarlo.

Cosa pensi del potere intellettuale?

E.B.   Innanzi tutto trovo molto giusta la premessa. Riandrò a una frase di Gregory Bateson: << La teoria economica e l’attrazione speculativa sono del tutto inumani, eppure si riesce ad insegnarli a perfezione all’uomo, che viene molto attratto>>. Il potere è una parola in sé autosignificante, cioè dire: <<Io posso>>, e l’uomo è attratto da questa cosa, e quel famoso vostro proverbio: <<Cumannari è megliu ca futtiri>> la riassume in toto. I grandi potenti non hanno neppure tempo di fare l’amore o di concepire la vita in modo erotico-passionale, al di là del loro spazio mentale.

Il potere intellettuale è in fase di totale trasformazione, forse anche annullamento, attraverso l’uso dei Media… Si dicono intellettuali e creativi in genere: i creatori di moda, i designer… Anche nella Borsa, in tutto il mondo, gli italiani passano per dei titoli mediatici. E’ la realtà di Berlusconi che trova terreno fertile nella pochezza attuale della sinistra, praticando da pari a pari con gli altri potenti del mondo, come Bill Gates. Volere allargare la cultura a tutti ha prodotto un ulteriore fattore cogente e difettivo, cioè, oggi è di moda andare ai musei, ci vanno i borghesi, i funzionari, i conformisti. Un esempio sono i Bronzi di Riace che messi in piazza hanno creato una coda di 3 km, messi al museo di Reggio Calabria nessuno va a vederli, ci va lo studioso, e beh, che vada…

C.G:Nel ’59 dipingi il quadro “Generalessa” versione femminile della tua serie famosa. Ella può rappresentare una previsione di ciò che sta accadendo oggi nell’esercito italiano?

E.B.   Molti miei generali hanno un aspetto ferocissimo ma anche abbastanza femminino, hanno delle parrucche con dei boccoli che possono dargli quest’aspetto. Io ho avuto una madre straordinaria ma era anche pò una generalessa, è forse lei che mi ha anche ispirato i Generali. Non so poi se sotto sotto ci fosse anche una ironia al femminismo dilagante mettendo in difficoltà i poveri maschietti. Metti che ci fosse tutto, nel senso che i Generali, nelle loro perversioni affettano anche modi effeminati per meglio torturar la gente. Queste sono valenze plurime che le opere contengono, la valenza principale era la dissacrazione del potere militare, la denuncia della loro brutalità e grossolanità. Però i grossolani e i brutali si mascherano talvolta di qualche piccola ricercatezza.

CG: Per concludere vorrei ricordare una affermazione fatta da Marcel Duchamp ad Arturo Schwarz,  in uno dei loro ultimi incontri: <il vero artista, da questo momento, sarà clandestino>. Sei d’accordo con lui?

E.B.   Penso che abbia abbastanza ragione. Clandestinità nel senso che, in fondo, la comunicazione e anche lo stesso espressionismo avvengono direttamente, io ti guardo in faccia e ti dico: “ ah, come stai?” E questa forma di comunicazione, che è la più antica forma d’arte, non potendo essere catturata e smerciata, finisce per essere clandestina.  E’ una comunicazione o un’opera che si esaurisce in sé, in un certo senso, comunicando al fruitore delle sensazioni che speriamo gli rimangano dentro.

Ma credo che tutto, anche la politica ormai sia clandestina. La politica che noi sentiamo pubblicamente che cos’è? Uno smaneggio inutile! Purtroppo bisognerebbe ritornare al concetto di cospirazione, non solo da intendersi come cospirazione dinamitarda o terroristica, ma anche come cospirazione del pensiero.

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“Per l’attuazione delle idee c’è bisogno degli uomini”

Continuano gli interventi di compagni e fratelli che attraverso i loro scritti ci propongono spunti di riflessione e di approfondimento su tematiche che ci interessano e ci coinvolgono da vicino.

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“Le idee non possono mai portare oltre la vecchia situazione del mondo. In generale le idee non possono attuare niente. Per l’attuazione delle idee c’è bisogno degli uomini i quali impiegano una forza pratica”

 

 

Approfitto dello spazio di discussione concesso da questo blog per suggerire alcuni possibili spunti di riflessione in ottica rivoluzionaria, muovendo da una considerazione di fondo la quale rappresenterà in futuro la traccia per i miei ulteriori interventi:

La sovversione politica e sociale e la rivoluzione sono – contrariamente a quanto possa apparire alle nostre teste occidentali abbrutite da una visione localistica ed eurocentrica – questioni più che mai all’ordine del giorno in una società globale dominata dal Capitale e dalle contraddizioni che esso genera. Contraddizioni le quali producono automaticamente le condizioni oggettive per un rilancio dell’iniziativa rivoluzionaria, ma che ovviamente nulla possono contro l’inerzia delle soggettività sclerotizzate intorno a schemi novecenteschi ed in non rari casi residualmente ancorate ad infelici esperienze di governo “socialista” (di un socialismo che non si occupava della questione relativa alla proprietà dei mezzi di produzione e che dunque socialismo non era, per quanto in buona fede e con onorevole coraggio milioni di uomini e donne siano morti nel suo nome).

Se da un lato appare chiaro a chi intenda ragionare con la propria testa che il passato non ritorna (vivaddio! Potremmo sarcasticamente commentare), dall’altro lato è pur vero che l’accumulo di esperienze antagoniste espresso contraddittoriamente e non linearmente negli ultimi cinquant’anni non dev’essere il bambino che si butta assieme all’acqua sporca nel famoso detto popolare. Il dogmatismo dominante nel campo marxista (con pericolose incursioni nel campo anarchico) ha spesso letto la concezione della rivoluzione come “necessità storica” in un’ottica messianica e determinista. Nulla di più sbagliato: se la rivoluzione è un fiore che non muore, l’acqua che la fa germogliare non cade dal cielo, ma è dosata e raccolta dall’uomo, dalla soggettività, dalla prassi cosciente. Senza la quale, in barba a vecchi e nuovi profeti armati (ma soprattutto disarmati) il fiore rinsecchisce, perde di colore ed intensità, viene calpestato e dimenticato.

Non c’è dunque la rivoluzione come prospettiva inevitabile, di fronte al futuro di chi verrà dopo di noi. Ma, come ben possiamo constatare nel grigiore delle metropoli che popoliamo, un baratro entro il quale sguazzano pulsioni xenofobe, particolaristiche, borghesi. La cosiddetta “mobilitazione reazionaria delle masse” è nei fatti. E se i fatti contano molto più che i detti, non ci sono parole possibili che smentiscano quanto si palesa con evidenza inconfutabile sotto i nostri occhi e sopra i nostri piedi.

Primato della prassi, dunque,  intesa come prassi rivoluzionaria, autonoma (da ogni influenza del campo avverso, sul piano culturale oltreché su quello politico e – vien da sé – economico), irriducibile. Irriducibile ad una visione machiettistica dello scontro. Scontro che vive e si alimenta, come detto, della propria dimensione reale, fattuale. Nell’era dei social network e della trasmissione di forme epidermiche di “conoscenza”, la lotta rivoluzionaria trova nei morbidi cuscini della virtualità un agile refugium di fraseologie e ridondanze, di onanismi intellettuali, di solidarietà passive.

Lo scontro è carne e sangue, è nel riconoscimento dell’esistenza di un nemico che permea di sé i rapporti sociali che noi stessi talvolta inconsapevolmente consolidiamo. Lo scontro è nel riconoscimento dell’esistenza della controrivoluzione preventiva come caratteristica strutturale della borghesia imperialista. Lo scontro è nella predisposizione alla sconfitta, da pagarsi in termini anche penali. E’ nel riconoscimento della rottura rivoluzionaria come sola prospettiva di liberazione.

Rompere gli schermi della virtualità, riconoscere la necessità dell’organizzazione degli sfruttati sul terreno della prassi, contro ogni dogmatismo e rigidità. Verso una società libera e comunista.

 

Roberto, militante rivoluzionario senza partito.

 

THE DIRT- ISSUE 3#

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This is how they present the issue : “Read it and weep, suckers. This marks the beginning of a frenzied publishing spree. Enjoy your Black December!”

Enjoy it!

ISSUE #3 HAS ARRIVED.

Prospettive insurrezionali nella fase attuale del Capitalismo di Michele Fabiani

Da un intervento di Michele Fabiani a Terni – 18 DICEMBRE 2015

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Il declino del Capitalismo di Stato. Un’occasione in gran parte mancata per gli anarchici.

Per dare un senso alla definizione, volutamente generica, di “fase attuale” del Capitalismo io partirei da circa 25 anni fa. Col crollo dei regimi a Capitalismo di Stato e in generale col declino della componente a Capitalismo di Stato anche nei paesi occidentali (capitalisti “classici”): privatizzazioni, tagli al welfare, ecc.

Da quel momento la parte fino ad allora, e da 60 anni, egemone del movimento rivoluzionario è entrata in una crisi irrisolvibile. Invece l’anarchismo non doveva avere alcun problema teorico ad affrontare la nuova realtà: quelli che andavano crollando erano governi che niente avevano a che fare col comunismo; le vie nazionali e autoritarie al socialismo dimostravano, come avevamo sempre sostenuto, la riproduzione di quei rapporti di sfruttamento che si proponevano di abbattere e addirittura il loro sviluppo (si pensi all’industria sovietica e cinese, si pensi al nucleare, erano tra l’altro gli anni di Chernobyl).

 

Avevano ragione a Saint Imer!

La Storia finalmente ci stava dando ragione.

Per quanto io sia allergico ad ogni dogmatismo e sempre pronto a cercare nuove strade persino la “dogmatica” in quel momento ci stava venendo incontro. Prendiamo i tre punti dell’Internazionale Antiautoritaria di Saint Imier (1872):

1)   la distruzione di ogni potere politico è il primo dovere del proletariato;

2)   l’organizzazione d’un potere politico provvisorio sedicente rivoluzionario e capace d’accelerare la distruzione dello Stato, non può essere che un inganno di più e sarebbe tanto pericolosa come i governi esistenti;

3)   respingendo ogni compromesso al fine di attuare la rivoluzione sociale, i proletari d’ogni paese devono stabilire, al di fuori di ogni politica borghese, la solidarietà dell’azione rivoluzionaria.

 

Cazzo è andata proprio così: nella rinuncia alla distruzione di ogni potere politico (punto 1), il nuovo potere rivoluzionario si era trasformato in un inganno di più (punto 2), mentre i partiti di sinistra andavano in tutto il mondo in alleanza con la politica borghese (punto 3).

Gli anarchici avevano, dal 1872, la bussola per orientarsi nei caotici e disastrosi anni successivi al 1990. Dovevano essere gli unici con una proposta rivoluzionaria credibile.

Non a caso, quei pochi tentativi di fare un’analisi insurrezionale delle “Nuove svolte del capitalismo” venivano presto repressi e inseriti nelle inchieste della magistratura.

 

Diffusione (insufficiente) del nuovo anarchismo

Ho detto che la nostra è stata un’occasione in gran parte mancata. Non del tutto quindi. Il movimento anarchico è cresciuto molto negli ultimi venti anni. Quanto meno è cresciuto in termini relativi all’interno del movimento rivoluzionario. Nel senso che sono scomparsi gli altri.

L’anarchismo è il solo progetto che può dire qualcosa agli oppressi in questo periodo storico. Ed è il solo movimento che può ambire ad una progettualità internazionalista. Il comunismo (autoritario) oggi troverebbe molta difficoltà a radicarsi fra gli oppressi nei paesi che le hanno conosciute sulla loro pelle le dittature rosse. Non l’anarchia, invece, che è un’idea che divampa (è il caso di dirlo) con maggiore forza proprio in America Latina e nell’est Europa.

Ma anche da noi, siamo quasi la sola vera soggettività rivoluzionaria esistente. Si pensi, in piccolo, anche agli episodi di piazza. Il primo maggio del 1977 si sarebbe parlato dei “soliti autonomi”, il primo maggio del 2015 (e così da 15 anni) si parla dei “soliti anarchici” che hanno devastato Milano.

Sono ovviamente molto contento che l’anarchismo sia un problema di ordine pubblico. Un movimento che si dice rivoluzionario e non rappresenta un problema per l’ordine pubblico mi chiedo che cosa sia.

Ma questo ci può bastare?

Io credo che la diffusione del nuovo anarchismo sia ancora molto insufficiente, che le mie ambizioni di rovesciamento dell’ordine politico ed economico siano ancora frustrate, che essere una nicchia nelle sottoculture occidentali (del tipo un adolescente può essere buddista, metallaro, punk, vegan, anarchico, ecc., o più di una di queste) sia decisamente troppo poco.

 

Appresso ai movimenti sociali

Nonostante il movimento anarchico abbia molto da dire, anzi sia oggi il solo movimento che abbia davvero qualcosa da dire a livello rivoluzionario, ci siamo troppo spesso ritrovati appresso a movimenti che nulla hanno di rivoluzionario, ma sono semplicemente la parte antagonista dell’universo borghese.

Probabilmente questo è accaduto per una nostra abitudine minoritaria, per cui dopo decenni di presenza nei movimenti rivoluzionari, ai margini, ci siamo messi, sempre ai margini, anche dentro i movimenti contemporanei.

Noi che potevamo essere i soldi con la chiave di lettura che spiegasse il declino del Capitalismo di Stato, ci siamo ritrovati nei cortei che andavano a difendere qualche pezzetto di Capitalismo di Stato: contro le privatizzazioni, in difesa della scuola pubblica, ecc. E l’esempio più importante è stato il movimento no global. Quello che era sostanzialmente un movimento contro il neoliberismo, quindi non contro tutto il capitalismo, ma contro una sua tendenza, e in difesa di un capitalismo pubblico, cooperativo, equo e solidale (???), delle “banche etiche”. E’ vero che in questi contesti, quando c’è stato conflitto duro, sono stati soprattutto gli anarchici e le anarchiche a farlo, e a pagarne le conseguenze. Ma se oggi siamo il principale movimento rivoluzionario esistente le nostre ambizioni e anche le nostre responsabilità devono essere molto maggiori

 

Contro la guerra, contro la pace. Per la rivoluzione.

Perché nel frattempo le tensioni rivoluzionarie sono messe sempre più ai margini della narrazione pubblica. Il dominio del capitale, delle religioni, degli eserciti genera sempre più guerra, morte e povertà.

Mentre qualche colpo di cannone comincia a colpire anche le metropoli europee, con grande sgomento per i benpensanti, gli anarchici sono i soli che possono dirsi contro tutti i padroni e contro tutti i loro stati. Contro ogni Stato. Che esso sia liberale o popolare, islamico o ebraico, o di qualunque altra forma.

Contro l’internazionale della guerra. Contro l’internazionale della pace. Per una internazionale degli oppressi che si organizzano per farla pagare ai loro padroni.

Citando Luigi Galleani: Contro la guerra, contro la pace. Per la rivoluzione.

IL PRIMO MAGGIO C’ERAVAMO TUTTI

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SABATO 19 DICEMBRE dalle ore 12

PRESIDIO ITINERANTE ATTORNO ALLE MURA DI SAN VITTORE
IN SOLIDARIETÀ CON I COMPAGNI ARRESTATI
PER LA MANIFESTAZIONE NO EXPO DEL PRIMO MAGGIO A MILANO
E CON TUTTI I DETENUTI/E CHE LOTTANO NEL CARCERE DI SAN VITTORE

(appuntamento in via Olivetani angolo v. le Papiniano)

SIAMO CON GLI ARRESTATI PER LA MANIFESTAZIONE NO EXPO DEL 1° MAGGIO A MILANO
Giovedì 12 novembre vengono arrestati 4 compagni italiani e 5 compagni greci per aver
partecipato alla manifestazione no Expo del primo maggio a Milano, due di loro sono ancora in
carcere a San Vittore, gli altri da giovedì 10 dicembre sono agli arresti domiciliari e per i cinque
studenti greci, ora con l’obbligo di firma, è stata chiesta l’estradizione in Italia che, se dovesse
essere accettata, li consegnerebbe al carcere preventivo in Italia.
L’accusa per tutti è di “devastazione e saccheggio”, reato che negli ultimi anni è stato più volte
utilizzato per reprimere manifestazioni di piazza, il quale prevede dagli 8 ai 15 anni di carcere.

SOLIDARIETÀ A CHI È COLPITO DALL’ACCUSA DI “DEVASTAZIONE E SACCHEGGIO”
Per aver preso parte alla manifestazione antifascista a Cremona il 24 gennaio scorso a seguito del
grave ferimento di un compagno di Cremona per mano fascista, alla manifestazione contro le
politiche “anticrisi” dell’UE del 15 ottobre 2011 a Roma, senza dimenticare chi è ancora in galera o
latitante per le giornate di Genova 2001 contro il vertice G8.

CONTRO LEGGI SPECIALI E STATO DI EMERGENZA
Con il pretesto del “terrorismo islamico” (conseguenza diretta delle guerre di aggressione della
NATO in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia…) vengono disposte leggi speciali dai governi di tutta Europa,
dirette a impedire ogni manifestazione che possa intralciare le loro ricette “anticrisi” condite da
precarietà e sfruttamento.
Emergenza significa militarizzazione delle città, applicazione di “misure preventive” nei confronti
di chi scende in piazza (fogli di via, sorveglianza speciale, obbligo di dimora…), criminalizzazione
delle lotte, aggravamento delle condanne e carcere preventivo. Tutto ciò col passare del tempo
diventa normalità, come la realtà conferma.

SIAMO CON CHI IN CARCERE LOTTA

Contro i sempre più frequenti casi di morte che avvengono all’interno delle carceri, causate dai
pestaggi delle guardie, dalla privazione delle cure sanitarie e dall’isolamento.
Contro il sistema punitivo-premiale fondato su ricatti e rappresaglie che, sia dentro come fuori,
cerca di rompere i legami di solidarietà necessari per resistere e lottare. Un meccanismo che,
tanto noto quanto purtroppo taciuto, grava anche sui familiari delle persone detenute.
Per la lotta comune contro lo stato di emergenza in ogni ambito della società, carcere compreso.
Libertà per tutti e tutte!

Dicembre 2015

Complici e solidali con gli arrestati del primo maggio
Per contatti: olga2005@autistici.org

INTERVENTO DEI COMPAGNI DI ROMA DI AREA COMUNISTA LIBERTARIA ALL’ASSEMBLEA CONTRO LA REPRESSIONE TENUTASI A ROMA IL 27 GIUGNO 2015

 

repressione

 

 

 

 

 

Vogliamo porre sul tavolo della discussione uno spunto di approfondimento relativo alla repressione, al suo agire ed al suo aspetto più raffinato e subdolo nel capitalismo maturo, che in realtà va annoverato tra le tecniche di governance e non come repressione tout court: la controrivoluzione preventiva.

Come agisce la repressione nella fase moderna dei paesi a capitalismo maturo? Non possiamo fare la solita

giaculatoria contro la repressione come se ci trovassimo di fronte i regi carabinieri di fine ‘800 che con leggerezza sparavano indiscriminatamente sulle folle che chiedevano pane. Pena una mistificazione della realtà che serve più a confermare arretrati schemi ideologici che ad analizzarla con obiettività come presupposto ad una giusta teoria e pratica.

La linea guida del moderno agire della repressione è quella della mediazione-annientamento .

Questo concetto viene attuato in forme e livelli differenti ma ha come criterio base la mediazione del conflitto di classe –tramite istanze di dialogo, cooptazione o compatibilizzazione.

Annientamento consiste nell’isolamento politico e sociale funzionale all’individuazione ed alla repressione delle istanze più radicali e meno disponibili o refrattarie rispetto al dialogo ed alla compatibilizzazione.

Tutto questo passa attraverso la gestione dell’ordine pubblico e della piazza fino a giungere al controllo di qualunque dinamica conflittuale espressa nel tessuto sociale nelle sue varie forme, non da ultimo l’ambito carcerario.

In riferimento a ciò, non si pone la giusta attenzione in ambito di movimento sui percorsi di reinserimento sociale e di sconto della pena di cui la legge Gozzini ed il concetto di “carcere della speranza” rappresentano il fulcro. Il detenuto viene indotto attraverso una serie di meccanismi di carattere psicologico e materiale alla riduzione di sé ad una dimensione individuale e di riconoscimento dell’autorità carceraria e dei suoi meccanismi non solo punitivi, utilizzando una pedagogia premiale.

L’annientamento delle organizzazioni rivoluzionarie dagli anni Ottanta è passato da una parte attraverso questo subdolo meccanismo – mediazione – e dall’altra attraverso forme di repressione più palesi e violente come la tortura – annientamento -.

Leggi sulla dissociazione, istituzione delle aree omogenee, caratterizzate appunto da omogeneità di visione politica e di conseguenza di trattamento infra-murario. Sezioni che raggruppavano militanti di organizzazioni rivoluzionarie che riconoscevano la fine dell’utilità della lotta armata, pur non dissociandosi dal proprio percorso precedente, ove i carcerati subivano una differenziazione nel trattamento, più morbido ed attenuato: il cosiddetto “carcere aperto”. Di converso, i militanti irriducibili ed indisposti a gettare la spugna in nome di una presunta resa vedevano e vedono tutt’oggi un inasprimento del trattamento ed un accanimento funzionali al logoramento fisico e psicologico degli stessi.

L’individualizzazione, la pedagogia premiale, il “carcere della speranza” di cui la legge Gozzini rappresenta solo la più evoluta espressione normativa, sono presenti sin dalla riforma dell’O.P. del 1975: in questa, veniva introdotto uno strumento pernicioso di disgregazione delle lotte carcerarie, che pochi anni prima si erano caratterizzate in maniera radicale determinando il coinvolgimento di vasti strati del proletariato prigioniero in appoggio alle avanguardie politiche; tale strumento consiste nella liberazione anticipata per buona condotta: i cosiddetti “ giorni” che appaiono ormai nell’immaginario collettivo –o meglio, strumentalmente fatti passare da alcuni per tali- come qualcosa di dovuto e di scontato. Ricordiamo che la “buona condotta” è condizione necessaria per la concessione di tale strumento. Ribadiamo il termine “concessione”, e non “ diritto” del carcerato.

Non ci dilunghiamo ulteriormente su un argomento che richiederebbe discussioni più approfondite.

Passiamo ad analizzare quello che rappresenta forse l’argomento principale di questa assemblea, ossia la repressione di piazza.

Cos’è l’ordine pubblico? Una delle definizioni più illuminanti la fornì un alto funzionario dell’apparato poliziesco francese, il quale definì l’ordine pubblico come “il punto di equilibrio fra il disordine sopportabile e l’ordine  indispensabile”. A completare questa definizione intervengono le parole di un altro funzionario degli sbirri quando dice che “il mantenimento dell’ordine più che una funzione di polizia è un’idea della politica”. Tali definizioni chiariscono con evidenza che la repressione non è altro che l’aspetto più palese e più cruento della più generale politica di controrivoluzione preventiva espressa dalle classi dominanti.

Senza analizzare tutte le politiche di ordine pubblico dall’unità d’Italia agli anni settanta, ci concentriamo sulla svolta intervenuta a partire dagli anni Ottanta nelle strategie di mantenimento dell’ordine in piazza.

In questa fase, viene istituito il concetto di “soft power”, attraverso il quale le forze dell’ordine sviluppano un atteggiamento empatico nei confronti dei dimostranti pacifici, riconoscendone il punto di vista e mostrandosi interessati ad esso, studiandone al contempo comportamenti e reazioni al fine di adottare le soluzioni più efficaci in merito alla mediazione del conflitto. Per far ciò, occorre da parte di costoro una profonda conoscenza del contesto culturale ed ideologico nonché del territorio entro il quale opera la controparte.

Strategie impostate sulla crescente ricerca del consenso tramite il dialogo; graduale abbandono della strategia di intimidazione e di “repressione preventiva” che avevano segnato gli anni precedenti. Viene ricercato un modello cooperativo di controllo con gli organizzatori delle manifestazioni, visti quali mediatori del comune obiettivo del pacifico andamento dell’evento. Collaborazione tra organizzatori e forze di polizia al fine di scongiurare il rischio che gruppi più determinati e radicali possano realizzare azioni violente, all’interno dei cortei autorizzati. La polizia si limita pertanto a presidiare gli obiettivi sensibili anziché predisporre rigidi cordoni di scorta al corteo.

La fase della negoziazione avviene già prima del corteo, al momento della comunicazione in questura, ove si contrattano percorso e durata del corteo. La polizia stessa si offre per contattare leader politici e rappresentanti dei media in cambio di garanzie per il pacifico svolgimento della manifestazione.

Tutto il ciclo dei duemila, a partire dalla fine dei novanta è caratterizzato da un processo di mediazione, scontro ritualistico (non ci dimentichiamo le simulazioni di scontri praticate dalle tute bianche in collaborazione con reparti della celere all’idroscalo di milano, ma anche tutte le pantomime espresse dall’utilizzo di gommoni, scudi in plexiglas, o, più recentemente, i cosiddetti book block) e contrattazione.

Se da una parte c’era questa simulazione concordata, funzionale all’egemonizzazione dei movimenti e al

riconoscimento mediatico ed istituzionale dei disobbedienti quali unici dirigenti delle proteste, avveniva, contestualmente da parte degli stessi, in collaborazione con gli apparati dello Stato, l’isolamento, l’intimidazione e la consegna spesso fisica alle forze dell’ordine dei soggetti indisponibili alla trattativa ed alla simulazione del conflitto.

Indisponibilità pagata caramente dai compagni arrestati nelle radiose giornate del dicembre 2010 e dell’ottobre 2011, nelle quali si sono espresse istanze di genuina conflittualità e di radicale contrapposizione al riformismo delle burocrazie di movimento. In questi casi, la magistratura e la repressione poliziesca sono soltanto gli ultimi attori di un processo di controllo e repressione che passa per linee interne ai movimenti. Non dimentichiamo un certo sindacalismo anche di base, alla cui testa si esprimono vecchie cariatidi, che nonostante le nefandezze espresse negli ultimi trent’anni, vediamo sedere indisturbati nelle assemblee di movimento.

Senza dilungarci ulteriormente per la limitatezza di tempo a disposizione, sottolineiamo come appaia evidente che per parlare di carcere e repressione è ineludibile analizzare le politiche di controrivoluzione preventiva che pervadono ogni ambito dello scontro di classe, a tutti i livelli.

La borghesia, in oltre duecento anni di gestione della lotta di classe, ha compreso che essa è fenomeno fisiologico espresso dalle contraddizioni interne alla società divisa in classi. Pertanto, essa opera strutturalmente al fine di compatibilizzare, incanalare, inglobare, anticipare e vanificare le spinte proletarie in contraddizione col sistema, per impedirne la convergenza sul piano rivoluzionario. Nei paesi a capitalismo maturo la controrivoluzione preventiva è una politica costante, non pura e semplice repressione giudiziaria e poliziesca, ma una teoria politico-ideologica e militare da sperimentare nel divenire, in maniera scientifica e sempre sottoposta a rimaneggiamenti e revisioni generali nei rispettivi campi di applicazione.

Essa parte fin dalle prime fasi dell’istruzione scolastica; ad esempio, con la propaganda della metodologia pacifista e l’esercizio della mediazione del conflitto. Sul piano del lavoro opera attraverso la disgregazione dell’unità di classe  con la contrattazione per categorie e con la gestione sindacale del conflitto; la quale inculca nell’ambito operaio la concezione della mediazione come strumento di risoluzione delle contraddizioni di classe, spesso confinandole nell’ambito vertenziale ossia nell’alveo giuridico borghese. In alcuni casi, lotte operaie che in un determinato momento di conflitto ripiegano su metodologie di lotta compatibili vengono premiate con la risoluzione in positivo delle loro vertenze, affinché la loro forma di lotta si dimostri vincente ed efficace e sia di esempio (cattivo) alle lotte successive: in tal senso è eclatante il caso dell’INSE di Milano che ha fatto da apripista ad una stagione di lotte esauritesi nell’isolamento e nella sconfitta sui carri-ponte, le torri ed i tetti delle fabbriche. Nei fatti, viene alimentata sistematicamente la contrapposizione e l’esaltazione di questi micro-interessi a discapito dell’interesse generale del proletariato. Questa è la chiara dimostrazione di quanto diceva Lenin, e cioè che l’interesse economico di un gruppo di operai e lavoratori, per quanto esteso esso sia, è in contraddizione con l’interesse generale della classe operaia.

Persino in ambito carcerario, apposite circolari interne prodotte dal Ministero indicano ai direttori degli istituti di pena di non reprimere forme di lotta pacifiche dei detenuti, quale lo sciopero della fame.

L’apparato mediatico opera congiuntamente, al fine di riconoscere, dare spazio e garantire visibilità alle istanze che operano entro questi margini di compatibilità, demonizzando al contempo, attraverso massicce campagne di criminalizzazione, qualunque opzione che si ponga al di fuori di tali limiti.

Brevemente, per concludere: E’ chiaro che per combattere la repressione sul piano pratico, al giorno d’oggi, occorre non limitarsi alla sola solidarietà o a strumenti mutualistici –che anche nella loro limitatezza politica sono utili e che appoggiamo- ma operare nell’ambito quotidiano contro tutte quelle forme più e meno evidenti di mediazione e compatibilizzazione del conflitto, ponendo forza ed attenzione alla loro radicalizzazione ,al fine di scardinare questo complesso e pervasivo meccanismo d’ingabbiamento del conflitto che è, appunto, la controrivoluzione preventiva.