repressione

 

 

 

 

 

Vogliamo porre sul tavolo della discussione uno spunto di approfondimento relativo alla repressione, al suo agire ed al suo aspetto più raffinato e subdolo nel capitalismo maturo, che in realtà va annoverato tra le tecniche di governance e non come repressione tout court: la controrivoluzione preventiva.

Come agisce la repressione nella fase moderna dei paesi a capitalismo maturo? Non possiamo fare la solita

giaculatoria contro la repressione come se ci trovassimo di fronte i regi carabinieri di fine ‘800 che con leggerezza sparavano indiscriminatamente sulle folle che chiedevano pane. Pena una mistificazione della realtà che serve più a confermare arretrati schemi ideologici che ad analizzarla con obiettività come presupposto ad una giusta teoria e pratica.

La linea guida del moderno agire della repressione è quella della mediazione-annientamento .

Questo concetto viene attuato in forme e livelli differenti ma ha come criterio base la mediazione del conflitto di classe –tramite istanze di dialogo, cooptazione o compatibilizzazione.

Annientamento consiste nell’isolamento politico e sociale funzionale all’individuazione ed alla repressione delle istanze più radicali e meno disponibili o refrattarie rispetto al dialogo ed alla compatibilizzazione.

Tutto questo passa attraverso la gestione dell’ordine pubblico e della piazza fino a giungere al controllo di qualunque dinamica conflittuale espressa nel tessuto sociale nelle sue varie forme, non da ultimo l’ambito carcerario.

In riferimento a ciò, non si pone la giusta attenzione in ambito di movimento sui percorsi di reinserimento sociale e di sconto della pena di cui la legge Gozzini ed il concetto di “carcere della speranza” rappresentano il fulcro. Il detenuto viene indotto attraverso una serie di meccanismi di carattere psicologico e materiale alla riduzione di sé ad una dimensione individuale e di riconoscimento dell’autorità carceraria e dei suoi meccanismi non solo punitivi, utilizzando una pedagogia premiale.

L’annientamento delle organizzazioni rivoluzionarie dagli anni Ottanta è passato da una parte attraverso questo subdolo meccanismo – mediazione – e dall’altra attraverso forme di repressione più palesi e violente come la tortura – annientamento -.

Leggi sulla dissociazione, istituzione delle aree omogenee, caratterizzate appunto da omogeneità di visione politica e di conseguenza di trattamento infra-murario. Sezioni che raggruppavano militanti di organizzazioni rivoluzionarie che riconoscevano la fine dell’utilità della lotta armata, pur non dissociandosi dal proprio percorso precedente, ove i carcerati subivano una differenziazione nel trattamento, più morbido ed attenuato: il cosiddetto “carcere aperto”. Di converso, i militanti irriducibili ed indisposti a gettare la spugna in nome di una presunta resa vedevano e vedono tutt’oggi un inasprimento del trattamento ed un accanimento funzionali al logoramento fisico e psicologico degli stessi.

L’individualizzazione, la pedagogia premiale, il “carcere della speranza” di cui la legge Gozzini rappresenta solo la più evoluta espressione normativa, sono presenti sin dalla riforma dell’O.P. del 1975: in questa, veniva introdotto uno strumento pernicioso di disgregazione delle lotte carcerarie, che pochi anni prima si erano caratterizzate in maniera radicale determinando il coinvolgimento di vasti strati del proletariato prigioniero in appoggio alle avanguardie politiche; tale strumento consiste nella liberazione anticipata per buona condotta: i cosiddetti “ giorni” che appaiono ormai nell’immaginario collettivo –o meglio, strumentalmente fatti passare da alcuni per tali- come qualcosa di dovuto e di scontato. Ricordiamo che la “buona condotta” è condizione necessaria per la concessione di tale strumento. Ribadiamo il termine “concessione”, e non “ diritto” del carcerato.

Non ci dilunghiamo ulteriormente su un argomento che richiederebbe discussioni più approfondite.

Passiamo ad analizzare quello che rappresenta forse l’argomento principale di questa assemblea, ossia la repressione di piazza.

Cos’è l’ordine pubblico? Una delle definizioni più illuminanti la fornì un alto funzionario dell’apparato poliziesco francese, il quale definì l’ordine pubblico come “il punto di equilibrio fra il disordine sopportabile e l’ordine  indispensabile”. A completare questa definizione intervengono le parole di un altro funzionario degli sbirri quando dice che “il mantenimento dell’ordine più che una funzione di polizia è un’idea della politica”. Tali definizioni chiariscono con evidenza che la repressione non è altro che l’aspetto più palese e più cruento della più generale politica di controrivoluzione preventiva espressa dalle classi dominanti.

Senza analizzare tutte le politiche di ordine pubblico dall’unità d’Italia agli anni settanta, ci concentriamo sulla svolta intervenuta a partire dagli anni Ottanta nelle strategie di mantenimento dell’ordine in piazza.

In questa fase, viene istituito il concetto di “soft power”, attraverso il quale le forze dell’ordine sviluppano un atteggiamento empatico nei confronti dei dimostranti pacifici, riconoscendone il punto di vista e mostrandosi interessati ad esso, studiandone al contempo comportamenti e reazioni al fine di adottare le soluzioni più efficaci in merito alla mediazione del conflitto. Per far ciò, occorre da parte di costoro una profonda conoscenza del contesto culturale ed ideologico nonché del territorio entro il quale opera la controparte.

Strategie impostate sulla crescente ricerca del consenso tramite il dialogo; graduale abbandono della strategia di intimidazione e di “repressione preventiva” che avevano segnato gli anni precedenti. Viene ricercato un modello cooperativo di controllo con gli organizzatori delle manifestazioni, visti quali mediatori del comune obiettivo del pacifico andamento dell’evento. Collaborazione tra organizzatori e forze di polizia al fine di scongiurare il rischio che gruppi più determinati e radicali possano realizzare azioni violente, all’interno dei cortei autorizzati. La polizia si limita pertanto a presidiare gli obiettivi sensibili anziché predisporre rigidi cordoni di scorta al corteo.

La fase della negoziazione avviene già prima del corteo, al momento della comunicazione in questura, ove si contrattano percorso e durata del corteo. La polizia stessa si offre per contattare leader politici e rappresentanti dei media in cambio di garanzie per il pacifico svolgimento della manifestazione.

Tutto il ciclo dei duemila, a partire dalla fine dei novanta è caratterizzato da un processo di mediazione, scontro ritualistico (non ci dimentichiamo le simulazioni di scontri praticate dalle tute bianche in collaborazione con reparti della celere all’idroscalo di milano, ma anche tutte le pantomime espresse dall’utilizzo di gommoni, scudi in plexiglas, o, più recentemente, i cosiddetti book block) e contrattazione.

Se da una parte c’era questa simulazione concordata, funzionale all’egemonizzazione dei movimenti e al

riconoscimento mediatico ed istituzionale dei disobbedienti quali unici dirigenti delle proteste, avveniva, contestualmente da parte degli stessi, in collaborazione con gli apparati dello Stato, l’isolamento, l’intimidazione e la consegna spesso fisica alle forze dell’ordine dei soggetti indisponibili alla trattativa ed alla simulazione del conflitto.

Indisponibilità pagata caramente dai compagni arrestati nelle radiose giornate del dicembre 2010 e dell’ottobre 2011, nelle quali si sono espresse istanze di genuina conflittualità e di radicale contrapposizione al riformismo delle burocrazie di movimento. In questi casi, la magistratura e la repressione poliziesca sono soltanto gli ultimi attori di un processo di controllo e repressione che passa per linee interne ai movimenti. Non dimentichiamo un certo sindacalismo anche di base, alla cui testa si esprimono vecchie cariatidi, che nonostante le nefandezze espresse negli ultimi trent’anni, vediamo sedere indisturbati nelle assemblee di movimento.

Senza dilungarci ulteriormente per la limitatezza di tempo a disposizione, sottolineiamo come appaia evidente che per parlare di carcere e repressione è ineludibile analizzare le politiche di controrivoluzione preventiva che pervadono ogni ambito dello scontro di classe, a tutti i livelli.

La borghesia, in oltre duecento anni di gestione della lotta di classe, ha compreso che essa è fenomeno fisiologico espresso dalle contraddizioni interne alla società divisa in classi. Pertanto, essa opera strutturalmente al fine di compatibilizzare, incanalare, inglobare, anticipare e vanificare le spinte proletarie in contraddizione col sistema, per impedirne la convergenza sul piano rivoluzionario. Nei paesi a capitalismo maturo la controrivoluzione preventiva è una politica costante, non pura e semplice repressione giudiziaria e poliziesca, ma una teoria politico-ideologica e militare da sperimentare nel divenire, in maniera scientifica e sempre sottoposta a rimaneggiamenti e revisioni generali nei rispettivi campi di applicazione.

Essa parte fin dalle prime fasi dell’istruzione scolastica; ad esempio, con la propaganda della metodologia pacifista e l’esercizio della mediazione del conflitto. Sul piano del lavoro opera attraverso la disgregazione dell’unità di classe  con la contrattazione per categorie e con la gestione sindacale del conflitto; la quale inculca nell’ambito operaio la concezione della mediazione come strumento di risoluzione delle contraddizioni di classe, spesso confinandole nell’ambito vertenziale ossia nell’alveo giuridico borghese. In alcuni casi, lotte operaie che in un determinato momento di conflitto ripiegano su metodologie di lotta compatibili vengono premiate con la risoluzione in positivo delle loro vertenze, affinché la loro forma di lotta si dimostri vincente ed efficace e sia di esempio (cattivo) alle lotte successive: in tal senso è eclatante il caso dell’INSE di Milano che ha fatto da apripista ad una stagione di lotte esauritesi nell’isolamento e nella sconfitta sui carri-ponte, le torri ed i tetti delle fabbriche. Nei fatti, viene alimentata sistematicamente la contrapposizione e l’esaltazione di questi micro-interessi a discapito dell’interesse generale del proletariato. Questa è la chiara dimostrazione di quanto diceva Lenin, e cioè che l’interesse economico di un gruppo di operai e lavoratori, per quanto esteso esso sia, è in contraddizione con l’interesse generale della classe operaia.

Persino in ambito carcerario, apposite circolari interne prodotte dal Ministero indicano ai direttori degli istituti di pena di non reprimere forme di lotta pacifiche dei detenuti, quale lo sciopero della fame.

L’apparato mediatico opera congiuntamente, al fine di riconoscere, dare spazio e garantire visibilità alle istanze che operano entro questi margini di compatibilità, demonizzando al contempo, attraverso massicce campagne di criminalizzazione, qualunque opzione che si ponga al di fuori di tali limiti.

Brevemente, per concludere: E’ chiaro che per combattere la repressione sul piano pratico, al giorno d’oggi, occorre non limitarsi alla sola solidarietà o a strumenti mutualistici –che anche nella loro limitatezza politica sono utili e che appoggiamo- ma operare nell’ambito quotidiano contro tutte quelle forme più e meno evidenti di mediazione e compatibilizzazione del conflitto, ponendo forza ed attenzione alla loro radicalizzazione ,al fine di scardinare questo complesso e pervasivo meccanismo d’ingabbiamento del conflitto che è, appunto, la controrivoluzione preventiva.