L’ATTIMO E IL TEMPO. A proposito di insurrezione e rivoluzione di Michele Fabiani

 

 

luce

 

 

 

 

 

 

Proponiamo una riflessione/dibattito nata dall’articolo di Alcuni Anarchici Udinesi

di cui allego il link :https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/05/02/udine-2-5-16-insurrezione-o-rivoluzione/ intorno alla dicotomia insurrezione o rivoluzione.

Questo è il contributo del compagno Michele Fabiani 

Non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume

Eraclito

L’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stessa una contraddizione.

Hegel

L’attività della distruzione è un’attività eminentemente creativa

Bakunin

 

Leggo sempre con molta attenzione gli scritti degli anarchici di Udine, mai banali e di cui condivido praticamente tutto. Questa volta invece il contributo pubblicato di recente da questo blog dal titolo “Insurrezione o rivoluzione”, a firma “Alcuni anarchici udinesi” mi trova in gran parte in disaccordo e mi piaceva discuterne pubblicamente. Lo scritto ripropone infatti la dicotomia fra rivolta e rivoluzione che a mio avviso non ha alcun senso. Non è una novità, il primo a parlarne fu Max Stirner. La novità è che da un po’ di tempo questa contrapposizione è tornata in auge nell’anarchismo d’azione, proporzionalmente all’attendismo infinito di un certo millenarismo rivoluzionario. Sull’argomento, immodestamente, mi sento preparato, essendomi esercitato in un anno e mezzo di discussioni al passeggio. Il passeggio non era proprio il peripatos della scuola di Aristotele, ma anche noi eravamo dei filosofi peripatetici che passeggiando discettavamo dei più alti (e dei più bassi) argomenti: non da ultimo il discorso su insurrezione e rivoluzione.

Per dirla in termini estremamente banali, io ritengo, come disse Ginetta Moriconi, che la rivoluzione è la guerra e le insurrezioni sono le battaglie. Per dirla in termini più profondi, è il grande mistero dell’Attimo e del Tempo. Un mistero insolubile secondo la vecchia filosofia greca (con poche eccezioni). La logica classica infatti non ci dà alcuna spiegazione di come il “qui” possa sparire, andarsene, e venire fuori qualcosa di altro. Si pensi ai paradossi di Zenone. In questo senso i “materialisti” erano i più reazionari fra tutti i filosofi. Un Aristotele per esempio sosteneva che gli schiavi erano degli “strumenti animati”. Non uno scivolone occasionale, ma una affermazione del tutto coerente per un pensatore che credeva che ormai tutto era stato scoperto e che l’uomo doveva solo sistematizzare le conoscenze. Insomma sé così vanno le cose, allora così devono andare. E’ naturale, è giusto, è immutabile. Invece il mondo muta, per fortuna. Tutto scorre. E muta soprattutto grazie alle insurrezioni di quelli che il mondo così com’è non gli sta bene; vero motore della storia. Le rivolte dei messeni schiavi degli spartani, l’insurrezione di Spartaco, la propaganda caritatevole ma anche armata dei cristiani, le invasioni barbariche. Quando il re barbaro Alarigo fece il primo sacco di Roma, liberò, o meglio si liberarono da sé con l’occasione, centinaia di migliaia di schiavi. Hai voglia a dire loro: ma tanto la società futura sarà anch’essa autoritaria, noi siamo antisociali.  E sti cazzi! Io se posso me ne vado da Roma porco Giove – avrebbero risposto loro. E come dargli torto.

Secoli di insurrezioni e fino ad una grande rivoluzione “mondiale” che seppellisce e letteralmente saccheggia il mondo antico. Poi i nuovi oppressori, fanno finta di non sapere le loro origini, o dopo un po’ se ne dimenticano d’avvero, e ricominciano con la storia dell’immutabilità: imperatori, re, duchi e conti; Papa, cardinali, vescovi e preti tutti stanno lì da sempre per volere di Dio, dicono loro; addirittura riscoprono Aristotele nel tredicesimo secolo per avere una ideologia che giustifichi la loro oppressione. In realtà prima il povero Tommaso d’Aquino lo perseguitano perché Aristotele era considerato un filosofo mussulmano (dato che erano stati gli arabi a riscoprirlo), poi capiscono che la sua filosofia era la più adeguata per i loro interessi di oppressione materiale e morale, la riscoprono e chi osò contestarla mal glie ne incolse.

Di nuovo rivolte e rivoluzioni, e di nuovo gli oppressori moderni che ricominciano con sta favoletta dell’immutabilità. Tutti i primi teorici del capitalismo – i cosiddetti economisti neoclassici – dicevano che il mercato ci sta da sempre, che questo è il solo mondo possibile. E anche di recente i filosofi leccapiedi dei potenti sono tornati alla carica con la favoletta della fine della storia. Ora mi auguro vivamente che anche gli anarchici non si mettano a dare man forte a questa ideologia da quattro soldi. Se questo discorso lo fa A-rivista (e lo sta facendo da un po’ di tempo: se avete le stesse posizioni, preoccupatevi) me ne infischio in quanto da tempo non li considero più in grado di dare alcun contributo rivoluzionario, ma se lo fanno dei compagni e delle compagne d’azione mi comincio a preoccupare per la piega teorica che l’anarchismo d’azione rischia di prendere. E siccome teoria e azione per gli anarchici stanno appiccicate – ed è per questo, prima di ogni altra cosa, che io sono anarchico – mi preoccupo ancora di più.

D’altronde la dicotomia fra Attimo e Tempo è superata anche in filosofia. Questa frattura così misteriosa per i filosofi greci è stata rotta già da due secoli dalla filosofia tedesca, la quale ci spiega come il superamento di questo momento e dei successivi, in eterno, nel tempo, avviene attraverso la forza della Negazione. E’ il nichilismo di Hegel. E’ il nichilismo del giovane Bakunin che dice che la distruzione è un’attività creatrice. Significa che questo momento di rivolta, così suggestivo per buona parte dell’anarchismo d’azione, non se ne sta lì da solo, ma cospira, nel senso proprio che con-spira, che “soffia-con” altri fatti insurrezionali, con altri attimi di ribellione, verso un vortice più grande: la rivoluzione mondiale. In questo si colloca, anche, la critica all’anonimato, che vorrebbe lasciare l’azione lì da sola, senza farla cospirare con altre azioni nel mondo (e nel tempo) verso la sovversione totale.

La critica all’attendismo di certi “rivoluzionari” è giustissima. Gli attendisti, oltre al fatto di essere spesso dei cagasotto sul piano personale, fanno lo stesso errore: separano l’Attimo dal Tempo, pongono la rivoluzione in un momento lontanissimo che da qui non si vede nemmeno. Però non è che allora anche noi rinunciamo alla rivoluzione! Che dispetto sarebbe?

I compagni di Udine poi citano la Spagna come esempio di rivoluzione che finisce per formare una nuova autorità, e fanno l’esempio della pena di morte nella catena di montaggio in fabbrica. Ebbene la Spagna è esempio non dei danni della rivoluzione, ma dei danni della rinuncia alla rivoluzione. La dirigenza della CNT-FAI si è lasciata ingabbiare dentro la logica frontista, sintetizzata dallo slogan: prima vincere la guerra e poi la rivoluzione; prima sconfiggere il fascismo e poi fare la rivoluzione. Il risultato è stato che la borghesia, per paura della rivoluzione, ha sabotato anche la guerra. Pensate che sono state privatizzate e restituite ai proprietari le fabbriche che gli operai in armi avevano espropriato nell’insurrezione del 19 luglio. Quell’insurrezione non la si è lasciata cospirare verso una rivoluzione, ma la si è fermata con la scusa dell’antifascismo. E’ la stessa porcheria fatta durante la Resistenza in Italia dal CLN: tutti uniti contro il fascismo, borghesi e proletari. In Italia ha vinto la democrazia borghese, in Spagna il fascismo borghese. Ma il risultato è stato lo stesso: con la scusa dell’antifascismo si ferma la rivoluzione. L’esempio della pena di morte in fabbrica è azzeccatismo, peccato che citato al contrario. La pena di morte non serviva mica a garantire l’ordine rivoluzionario, la pena di morte serviva a garantire l’ordine capitalista contro gli “incontrollados” che se ne fregavano della guerra a Franco e volevano continuare a distruggere le macchine, a fucilare i borghesi per strada, che volevano continuare verso la rivoluzione. Se c’è una cosa che ci insegna la Spagna, semmai, è che l’insurrezione (19 luglio) non basta, ma bisogna continuare fino a quando c’è un oppressore sulla terra.

Un’altra cosa la voglio dire sul sedicente programma rivoluzionario. Su questo bisogna evitare banalizzazioni. Persino un Marx – che non è sospettabile di anarchismo – nella prefazione del Capitale scriveva di non avere ricette per l’osteria dell’avvenire, ma di limitarsi ad analizzare la realtà presente. Quindi chi scrive programmini, tipo risiko, è un demente. Tra l’altro nemmeno a risiko il programma riesce mai come lo si immagina. Fare articoli contro chi scrive i programmi è come il pugile che si sceglie l’avversario scarso per vincere facile. Anche perché è evidente che nessuno ha mai realizzato i propri programmi nella storia. Non penso che i barbari che saccheggiavano Roma sapevano che sarebbe arrivato Carlo Magno e il feudalesimo. La verità è che chi è in catene cerca di romperle e questa azione è il solo motore della storia: gli oppressori, state tranquilli, non cambierebbero niente. In questa azione di distruzione, nasce sempre qualcosa, come un incendio lascia la cenere e le braci per un nuovo incendio. I programmi non li abbiamo, l’unica cosa che portiamo semmai è la benzina.

Per questo io ritengo che la dicotomia fra insurrezione e rivoluzione sia un errore gravissimo. Gli anarchici già ce ne hanno abbastanza di dicotomie: organizzatori-antiorganizzatori, comunisti-individualisti, ecc. Non c’è bisogno di inventarne un’altra! Semmai dovremmo superarle verso formule nuove di cospirazione. La questione non è: insurrezione o rivoluzione? Ma insurrezione. Punto. Perché chi è oppresso: o è servo, o insorge. Questo insorgere genera rivoluzioni. E’ un fatto.

Gli anarchici sono i primi nella storia che hanno capito che ogni nuovo potere sarà anch’esso autoritario e anch’esso da combattere. E’ la nostra dote. Che non diventi un limite. O peggio: un pretesto.

 

Michele Fabiani

GRAMMATICA E ANTOLOGIA DEL LUOGOCOMUNISMO

risataSe anche a voi, in una serata di pioggia, vi trovate soli a casa e vi capita di vedere Diego Fusaro che fa il marxista il televisione esaltando Putin, gli imprenditori, il Muro di Berlino, e vi assale una voglia matta di andare sotto casa sua a rompergli ogni giuntura del corpo…state tranquilli, non siete soli. Fate un respiro profondo…

Il medico dice che fa male al fegato arrabbiarmi e contro l’ira e il rancore che mi corrodono mi consiglia di prendere la vita con ironia. Dote che in effetti non mi manca, come mi riconoscono anche gli acerrimi nemici. Se c’è una cosa su cui gli antichi romani si sbagliavano è il proverbio secondo il quale il riso abbonda sul volto degli stolti. D’altronde quella romana era una società schiavista e imperialista, pragmatica e utilitarista, non c’era tempo per ridere (poveracci). E’ vero, invece, il contrario: solo gli individui, che più che intelligenti definirei “acuti”, hanno il senso del comico, sanno fare i collegamenti e sanno per di più pervertirli con l’arte del grottesco e il demone dell’equivoco. Sono invece gli “ottusi”, non tanto gli stupidi dato che alcuni di loro si reputano e forse sono anche grandi menti dogmatiche, che non capiscono il comico, che ritengono che “in un momento come questo” non ci sia niente da ridere. Un momento infinito.

Contro la psichiatria, i farmaci e le porcherie della medicina capitalista, sempre più utili si dimostrano vie alternative. Fra queste la clown terapia. E di pagliacci in giro di questi tempi ce ne sono parecchi!

Ridiamoci insieme.

Si è fatto un gran parlare del ragazzino che ha “inventato” la parola “petaloso”. Ma la vera parola del nuovo secolo è un’altra, e l’hanno scoperta quelli della rivista N+1: LUOGOCOMUNISMO.

“Luogocomunista” è forse l’aggettivo più azzeccato del millennio. L’espressione è precisa e vasta allo stesso tempo, nonché immediatamente efficace dal punto di vista del senso.

Chi sono i luogocomunisti? Sono una massa di babbei che fanno dei luoghi comuni della peggiore sinistra la più bizzarra ed ogni volta originale delle sintesi. Del tipo “ah quando c’era Berlinguer” eppure “oggi con certi politici ci vorrebbero le Brigate Rosse” e quindi “è per questo che ho votato Grillo”. Notate bene: i luogocomunisti non fanno parte di un bizzarro movimento di nicchia rinchiuso nelle riserve indiane, tipo i neo-borbonici. Il luogocomunismo è un movimento di massa: il sillogismo costruito con le tre proposizioni di cui sopra (una sola delle quali è corretta) è stato espresso ad alta voce almeno una volta credo da cinque milioni di persone nell’ultimo anno. Più o meno.

Il lugocomunismo, per dirlo con una famosissima canzone di Jovanotti, è quella “grande chiesa che va da Che Guevara e Madre Teresa”. Un verso tutt’altro che ironico e che è stato il manifesto per una generazione di sinistri giovanili.

Come si fa ad essere definiti luogocomunisti? Possiamo abbozzare una definizione “scientifica”. Per essere luogocomunisti si deve condividere circa la metà delle seguenti affermazioni (non si possono condividere tutte dato che alcune sono auto-contraddittorie, ma ci sono dei veri geni del teatro dell’assurdo che ci riescono):

Un generico complottismo secondo il quale dietro tutti i problemi dell’umanità (dal terrorismo islamico ai maremoti) ci sta la CIA; una generica nostalgia per la Russia di Stalin e/o per la Jugoslavia di Tito e/o per la Cina di Mao (talvolta rimpiante tutte insieme nonostante fossero in guerra quasi aperta tra loro); il tifare tutt’ora per la Russia di Putin, per la Cina del “maledetto Deng” (come cantavano i CCCP) e vabbe’ la Jugoslavia non c’è più…ma votare un partito come quello di Rizzo che era al governo quando veniva bombardata; una generica simpatia verso i Fronti Popolari, le coalizioni interclassiste, il CLN…e però contestare, ogni benedetto 25 di aprile con la stessa costanza di un pellegrino di Fatima, i partigiani ebrei che del carrozzone CLN facevano parte; lo scendere in piazza col tricolore e la bandiera rossa; una generica simpatia per tutti ma proprio tutti i governi mediorientali che stanno in conflitto con gli USA e/o Israele, che essi siano fascisti o sinistri, laicisti o islamisti, arabi o persiani e portare tutte le loro bandiere in piazza nonostante quelle nazioni stiano in guerra tra loro; un generico pacifismo e/o (scrivo “e/o” perché talvolta troviamo entrambi) un generico estremismo parolaio, salvo poi prendere le distanza ogni qual volta succede un’azione violenta; il cagarsi sotto per ogni episodio che possa portare ad una denuncia, ad un arresto, a delle conseguenze penali (vedi sopra alla voce complottismo: black bloc, insurrezionalisti, ecc., tutti pagati dalla CIA); una a volte generica a volte lucida stima verso la magistratura italiana che quanto meno avrebbe salvato il paese dalle derive autoritarie prima di Craxi, poi di Berlusconi, in questi giorni pure di Renzi; il voto “tattico” a Grillo, alla Le Pen, per far crollare tutto e così fare la rivoluzione (???); …

E l’elenco potrebbe continuare. Facciamo un gioco: ognuno aggiunga il luogo comune che gli viene in mente! Quello che nessuno può negare è che il luogocomunismo sia un movimento reale: a chi non è capitato di vedere la bandiera kurda, quella irachena e quella iraniana vicine in una manifestazione contro la guerra (senza che finisse a coltellate)? a chi non è mai capitato di vedere insieme la bandiera della Russia di Putin vicino a quella dell’URSS? e chi si ricorda più dei 100 mila comunisti imprigionati e uccisi dalla repubblica islamica iraniana? Per citare solo alcuni degli esempi fatti sopra. E come dimenticare le masse belanti che ai tempi di Berlusconi scendevano in piazza coi cartelli “intercettateci tutti”, col tricolore e le bandiere rosse!

La loro concezione di internazionalismo è una bislacca alleanza delle nazioni “rivoluzionarie”, una federazione di nemici e un arcobaleno di colori: dalle bandiere del Venezuela a quelle del Partito del (porco) Dio libanese, da quelle curde a quelle irachene (che, ricordiamolo, i curdi li hanno gasati), dal tricolore italiano a quello francese e chi più ne ha più ne metta. Un fatto poco serio ma assolutamente serioso e severo. Mentre l’internazionalismo – quello vero – è il fraternizzare dei soldati al fronte e il fucilare i generali, è la gioia di vedere il proprio padrone impiccato, è il rogo della bandiera e il crollo della frontiera, è un’orgia anticlericale, è prendere per la barba gli imam e toccare il culo alle suore (per le femministe: rileggere sopra la parte sull’ironia).

Sull’ Unione Europea i luogocomunisti raggiungono il loro apice artistico, con un orgasmo di colori e posizioni diverse, quasi da attacco epilettico. Ci sono: A) i luogocomunisti che sono contro l’Europa, per tornare agli Stati nazionali; B) i luogocomunisti che sono per l’Europa, perché solo un’Europa forte può impensierire gli USA, quindi la crisi del 2011 di Grecia, Spagna, Italia sarebbe anche quella un complotto americano (e gli anarchici a tirare molotov tutti agenti CIA, ovviamente); C) i luogocomunisti che sono per l’Eurasia, ciò per l’unione di Europa e paesi del vecchio blocco sovietico, solo questa e non l’Europa, troppo piccola da sola, potrebbe impensierire gli odiati americani.

Vi è poi un altro fenomeno. Lo abbiamo accennato, ma va affrontato con più precisione. Per continuare con i neologismi, lo potremmo definire metacomplottismo. Ovvero il vedere complotti ovunque fino al punto di aderire, davvero, ad una sorta di progetto per sminuire ogni fenomeno sovversivo.

I metacomplottisti hanno un certo fiuto, aprono siti internet sempre qualche mese prima dal riaccendersi di fenomeni di fermento (anti)sociale. Guadagnano visitatori con articoli intelligenti, ma anche con cazzate epiche che però ti incuriosiscono i ti fanno cadere nel fatidico “clic”, si appoggiano con intelligenza su social e hanno amici nella stampa ufficiale che talvolta li citano.

Poi quando finalmente succede “qualcosa”, degli scontri di piazza, un’azione diretta, un’azione armata vera e propria, si scatenano. Cominciano a pubblicare le “prove” della mano dello Stato dietro a queste vicende. I giornali li citano, gaudienti, i tg parlano dei bravi cittadini che postano le foto dei violenti per dimostrare che questi siano in realtà sbirri.

Poi se ne fregano se delle persone reali vengono arrestate, spesso grazie a loro, se magari rivendicano addirittura in aula le azioni imputate, c’è sempre un altro complotto da inseguire, quello vecchio, una volta infangata l’azione rivoluzionaria, ha raggiunto il suo scopo e perde di interesse.

Li chiamo metacomplottisti perché loro sì che finiscono per aderire, consapevoli o meno, ad un progetto controrivoluzionario. Non può essere un caso la falsa notizia dell’anarchica col rolex agli scontri del primo maggio 2015 a Milano, finisca contemporaneamente su tutti i siti online e su tutti i tg. Qualcuno deve averla suggerita. Questa non è paranoia ma realismo.

L’ultima della serie delle dietrologie vuole gli anarchici e no border che hanno attaccato la frontiera del Brennero pagati (o comunque servi sciocchi) dell’Europa. Secondo la teoria nazi-maoista per cui l’immigrazione produrrà l’annacquamento dei popoli e favorirà la creazione dello stato imperialista europeo. Devo ammettere che di fronte a certe affermazioni mi vengono dei dubbi sull’antipsichiatria.

Ebbene il luogocomunismo, con i suoi milioni di aderenti, è la principale massa di manovra dove arruolare dei complottisti al servizio della pacificazione sociale. Chiunque ha più di 25 anni, senza andare troppo lontani, ricorderà che all’alba del nuovo millennio i leader del giovane movimento no global invitavano a portare in piazza le telecamere digitali, che in quegli anni si stavano diffondendo, per denunciare gli abusi della polizia. Il gioco allora era quello di superare immaginarie linee che la forza pubblica voleva presidiare, fino ad arrivare ad un contatto fisico. I manifestanti si limitavano a spingere, spesso proprio con le mani in alto, quindi le conseguenze penali erano minime. La polizia invece a volte legnava un po’ più forte del dovuto e le telecamere diventavano lo strumento per un’efficace propaganda di denuncia delle violenze degli sbirri.

Tutti quei giovani, video muniti, erano dei luogocomunisti in vitro. Tornavano in piazza dopo due decenni di pace sociale, e dopo un decennio dal crollo dell’URSS, e lo facevano mischiando i simboli di quel passato “glorioso”: la maglietta del Che, la kefia davanti al naso, la bandiera sovietica con la falce e martello, la bandiera di rifondazione e spesso quella del vecchio PCI regalata dal nonno (talvolta persino quella del PDS o della sinistra giovanile, ma solo quando non governavano loro), il tricolore a volte con la stella rossa al centro delle repubbliche partigiane; ma anche al di dentro delle contraddizioni della contemporaneità, ad esempio rivendicando il no agli ogm, il cibo biologico, il no ai diritti d’autore, l’internet libero, la lotta alla precarietà, ecc. Insomma cercavano la nuova teoria e pratica anticapitalista, ma finivano per fare un brodo con quelle vecchie e nuove, spesso in contraddizione. Fai bollire a fuoco lento per 10 anni e nasce il luogocomunismo.

Alla fine quelle cazzo di telecamere sono diventate lo strumento della repressione e del complottismo. Quando in quelle piazze si è finalmente espressa una rivolta vera, soprattutto grazie a l’unico movimento rivoluzionario emergente negli ultimi decenni, quello anarchico insurrezionalista (termini che rischiano anche loro ormai di diventare dei luoghi comuni, ma che in realtà sono serissimi), quelle cazzo di telecamere dei no global sono diventati lo strumento per la caccia all’infiltrato e quindi per la pubblica delazione.

Oggi quei giovani hanno 40 anni e in buona parte, se votano, votano Movimento 5 stelle. Insieme ai fratelli maggiori che 10 anni prima tiravano le monetine a Craxi.

Il luogocomunismo si diffonderà con tanta più forza col passare degli anni e quindi con la confusione di ideologie in passato in lotta tra loro. E fra questa massa di luogocomunisti si pescano i nuovi infami. Il 15 ottobre 2011 a Roma, il 1 maggio 2015 a Milano, ecc. Per non parlare del 14 dicembre del 2010 quando un “pacifista” mandò in coma con un colpo alla testa un ribelle che stava tirando sassi alla polizia.

D’altronde chiunque ha vissuto un minimo di tensione ribelle nella propria vita, sa quanto i leaderini di movimento siano i primi censori della rivolta. Oggi se un ragazzino vuole fare una scritta sul muro, prima trova il capoccia del suo circolino che cerca di fermarlo, e solo dopo arriva la digos. Per non parlare degli scontri di piazza o delle azioni dirette. Il movimento come avanguardia dello Stato.

Possiamo individuare 3 caratteristiche in questo caso proprie di tutti i luogocomunisti:

In primis, il luogocomunismo è uno strano “comunismo senza lotta di classe”. Le battaglie sono, qualche volta condivisibili, a favore di un popolo oppresso, contro l’Europa, oppure di studenti, oppure di antifascismo, ma i rapporti tra sfruttati e sfruttatori gli sono estranei. E’ Diego Fusaro che qualche sera fa su La7 affermava che il capitalismo sta affamando lavoratori e imprenditori (???). Inoltre e più in generale, il luogocomunisti sono degli strani “comunisti senza alcuna conoscenza di economia”. Vale a dire è un comunismo più gramsciano che marxiano, dove il capitalismo è qualcosa di cattivo, moralmente disprezzabile, ma non si è capaci di fare un minimo di analisi e anzi le si evita con orrore. Infine, il luogocomunismo è un “comunismo senza rivoluzione”. Di solito i più folkloristici sono appassionati delle sfilate con le bandiere rosse, apologeti della battaglia di Stalingrado, ma il momento dell’insurrezione, i decenni di azioni nichiliste che l’hanno preceduta, sono qualcosa che non gli interessa ricordare. Sono nostalgici di quegli stati totalitari sfavillanti nel rosso e nel verde dei carri armati, ma il momento della sollevazione violenta se lo dimenticano. Se c’è malafede (non vogliono parlare degli anarchici, del terrorismo dei nichilisti, dell’insubordinazione dei militari, ma nemmeno di Trotsky) o se è più che altro una naturale tendenza legalitaria magari dipende da caso a caso.

In conclusione, abbiamo riso ma possiamo tentare delle riflessioni serie.

La prima. Il comunismo è ormai un malato grave. Per ogni marxista rivoluzionario vero, competente nella teoria e conseguente nella pratica, troviamo mille luogocomunisti. La malattia è così grave che non si può dire, al momento, neppure se il malato riuscirà a sopravvivere. Non me ne rallegro. Ci tengo a precisarlo, visto che sono stato sarcastico fino ad ora.

La seconda. Il solo movimento che fa lotta rivoluzionaria nel mondo è l’anarchismo. Quantomeno nel mondo industrializzato, e quasi tutto il mondo ormai lo è. Alla faccia di Marx che vedeva l’anarchismo come qualcosa di legato al mondo sottoproletario e quindi forte, ai suoi tempi, in Italia, Spagna e Russia e non nelle metropoli industriali come l’Inghilterra e la Germania, oggi se qualcuno tira una molotov contro una banca nella City di Londra potete mettere la mano sul fuoco è stato un anarchico. E così dal Cile all’Ucraina, dalla Grecia alla Spagna, e qualcosa si sta vedendo anche in Egitto, in Cina ed in India. E questo perché le contraddizioni generate dal capitalismo – la disoccupazione, la precarietà, le migrazioni, le guerre, le macchine, lo smog, la violenza sempre più organizzata sugli animali, le vetrine luccicanti e vicino la miseria – vanno in una direzione che solo la rivolta anarchica sa affrontare ed alimentare.

Con tutti i nostri limiti. Ma per questa volta non ne parliamo.

 

Emmeffe

 

Firenze:indirizzo Michele in carcere dal 20 aprile per scontri con le guardie all’uscita di un concerto

 

 

 

lunga vita ai ribelliA Firenze il  23 aprile 2016 è stato convalidato l’arresto di tre anarchici fermati nella  serata  del 20 aprile, durante scontri con le guardie all’uscita di un concerto, in due hanno già ottenuto gli arresti domiciliari, con tutte le restrizioni.Michele invece resta in carcere,con la possibilità che gli vengano concessi i domiciliari.

Per chi volesse comunicare con Michele:
Michele Lai

Casa Circondriale Sollicciano

v. Minervini 2/r Firenze

Firenze – Sullo sgombero annunciato di Villa Panico

Manifesto Web

SULLO SGOMBERO ANNUNCIATO DI VILLA PANICO

I recenti arresti di tre persone molto vicine a Villa Panico, un partecipato presidio in solidarietà conclusosi con un corteo selvaggio per le vie dell’Oltrarno e tutti i fatti attribuiti agli anarchici ultimamente hanno scatenato, com’era prevedibile,  le ire e le condanne trasversali a ogni fazione politica. In primis il PD e il suo sindaco Nardella: pronti a difendere l’operato dell’Arma (curioso per una città che ha visto, solo per citarne una, l’omicidio di una persona per le vie dell’Oltrarno proprio per mano di quattro carabinieri) e il decoro dei muri, a detta loro “oltraggiati” da scritte. Finendo poi con le classiche merdine fascistoidi tipo Torselli, ben contente di cavalcare qualsiasi crociata anti-degrado e anti-anarchica per dare a se stessi e ai propri agonizzanti fratelli d’italia un minimo di visibilità.

“Villa Panico dev’essere sgomberata” tuonano i giornali in questi giorni, Corriere Fiorentino e La Nazione in testa, dando ampio spazio alle dichiarazioni del tale Assessore alla Polizia Municipale Gianassi, che avrebbe assicurato che all’ultima riunione del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica il comune abbia dato piena disponibilità per finanziare l’impresa, ritenuta più che mai urgente. Apprendiamo, sempre dai giornali di regime, che la patata bollente è stata consegnata alla Prefettura, trattandosi lo sgombero di una questione di ordine pubblico, che ha risposto, per la delusione di tutti, prendendo tempo, per via di una situazione cittadina che ora sarebbe “troppo calda” per uno sgombero.
Villa Panico, nella sua attuale sede di San Salvi, è un’occupazione anarchica che esiste dal 2007: ha subìto uno sgombero, è stata occupata nuovamente, ha resistito sui tetti a un nuovo tentativo di sgombero nel 2009, è sopravvissuta a incendi, crolli e uragani. Ci hanno definito teppisti, punkabbestia e soprattutto violenti. Noi siamo innanzitutto individui che lottano contro ogni autorità, che sperimentano forme di vita collettiva in direzione ostinata e contraria al destino impostoci di docili produttori-consumatori atomizzati e segregati ognuno nei propri cubicoli. Siamo individui che rovinano i piani di chi vorrebbe una città completamente rassegnata al ruolo di cartolina per turisti, linda e decorosa, riqualificata ed esclusiva, ovvero un lucroso luna park per ricchi. Non ci facciamo abbindolare dai climi terroristici sempre utilizzati (se non creati) dai media di regime, che ci vogliono presentare i militari in città come un indispensabile incremento della sicurezza pubblica, consapevoli del fatto che altro non sono che una delle massime espressioni della volontà dello stato di conservare il proprio potere tramite la violenza delle armi. Sappiamo riconoscere il ruolo degli sbirri nella dittatura della maggioranza e le responsabilità di politici, banchieri e dirigenti che hanno reso questa città invivibile e ci batteremo sempre contro questi e contro ogni forma di repressione\oppressione e sorveglianza, perché abbiamo la nostra vita da difendere. In un mondo in cui lo Stato, nell’ottica di preservare la propria autorità detiene il sedicente “legittimo” monopolio della violenza, che chiama legge, mentre invece l’azione o reazione violenta dell’individuo contro tutti i loro organi e ingranaggi lo definisce crimine, ci rivendichiamo fieramente sia l’illegalità che la violenza, chiarendo che quest’ultima non è mai fine a se stessa o indiscriminata, ma impiegata quando necessario in un percorso che mira alla nostra liberazione individuale e collettiva.

A chi stiamo a cuore chiediamo di tenersi pronti a qualsiasi eventualità.
A chi crede che uno sgombero basterà per eliminarci da questa città vogliamo ricordare che siamo determinati a resistere e a lottare.

Con rabbia e con amore per Ale e Fra ai domiciliari e per Michele ancora in carcere.

I Panici

Udine, 2.5.16, Insurrezione o rivoluzione?

Spunti di riflessione.

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https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/05/02/udine-2-5-16-insurrezione-o-rivoluzione/

Udine, 2 maggio 2016

Si è generalmente abituati a considerare le parole “insurrezione” e “rivoluzione” come sinonimi. Ma hanno proprio lo stesso significato?
Una rivoluzione è un cambiamento radicale dell’ordine esistente. È come il riformismo, vuole cambiare l’ordine esistente, solo che il riformismo è gradualista, da che il suo cambiamento sarà graduale, anziché radicale. Teoricamente questi tre metodi, la riforma, la rivoluzione e l’insurrezione, potrebbero, o meglio dovrebbero, presupporre la stessa pulsione di base di negazione dell’esistente, dal momento che, logica vuole, se si desidera qualcosa di altro, se lo si afferma, si nega il presente. Il futuro, oltre a non esistere, è come teorizzazione la negazione del presente. L’orizzonte rivoluzionario, nel contesto storico attuale – altro discorso sarebbe da porre nel dibattito abortito fra insurrezione e rivoluzione nella configurazione di prospettive rivoluzionarie del passato –, è un’astrazione del presente altro, cioè del futuro, il non luogo per assoluto, essendo un tempo assolutamente altro, assolutamente altro anche rispetto al piano dell’esistenza in atto, per impiegare una categoria aristotelica. In ogni caso, distinguo a parte, riguardo cui si tornerà in seguito, riforma, rivoluzione e insurrezione non ci dicono nulla sull’altro che vorrebbero, ma soltanto che a un altro si aspira e il metodo con il quale si vuole tentare il suo conseguimento.
Tutto quanto sopra e quanto si dirà ancora concerne uno dei due elementi che si tratteranno qui, e cioè il perché preferire l’insurrezione alla rivoluzione. Ma vi è un altro aspetto che è quello contestuale e porta alle medesime conclusioni, volenti o nolenti. Si sta qui parlando dell’impossibilità storica di una rivoluzione.
Perché lottare, dunque?, sarà l’interrogativo del militante, del rivoluzionario. Ma questo interrogativo resterà sospeso ancora per un po’.
Piuttosto, vi è da premettere che – di rivoluzione o di insurrezione si tratti – la teorizzazione rivoluzionaria della società futura, cioè dell’utopia (senza connotazione di sorta) a nulla vale senza l’azione del presente o se toglie energie all’azione nel presente. Raoul Vaneigem scriveva negli anni Settanta, quando la possibilità rivoluzionaria aveva un minimo di credibilità in più (sebbene forse solo nella possibilità schiacciata nel bipolarismo geopolitico): «D’altro canto, non c’è nulla di più urgente per chi prepara […] l’autogestione generalizzata, di intervenire senza esitazioni né riserve contro un sistema che non si distrugge da solo se non distruggendoci allo stesso tempo»1.
L’unica prospettiva rivoluzionaria credibile oggi, cioè l’unica prospettiva di cambiamento radicale credibile oggi, è quella di un sistema che se si distruggerà sarà «da solo» e «distruggendoci allo stesso tempo». Con «da solo» intendo per mezzo di fenomeni, elementi e/o reazioni che gli sono propri in quanto prodotti da esso stesso o costituenti reazioni auspicate o almeno prevedibili dallo stesso. Si pensa per esempio a una distruzione del sistema o a un suo mutamento radicale causato da una guerra mondiale, dall’I.S.I.S., dall’impatto di un meteorite, da un’epidemia, da un disastro ecologico, da un disastro nucleare o a una presa del potere politico da gruppi neo-fascisti (Salvini, CasaPound, Le Pen, Trump, Alba Dorata, i nazionalisti britannici, i neo-nazisti tedeschi, ecc.). In ogni caso il cosiddetto Movimento, le forze che lavorano per una rivoluzione nel senso socialista, sebbene il termine oggi non vada più di moda o non venga impiegato nel suo significato storico, non avrebbero alcuna voce in capito, dal momento che sono incomparabilmente esigue rispetto a uno qualsiasi degli elementi citati dello scenario attuale. Illudersi del contrario è una delle cause maggiori della cristallizzazione dell’impossibilità.
Anche Alfredo Maria Bonanno sembra indicare qualcosa di simile, parlando a questo proposito delle «illusioni di un tempo, le quali, una volta scomparse, si sono portate con sé anche le disponibilità coraggiose, gli impegni (engagements) al di là di ogni limite, l’odore del sangue e perfino le lacrime di pietà»2.
Quanto affermava Vaneigem però, al di là del carattere illusorio dell’ipotesi rivoluzionaria in senso tradizionale, era chiaro: se si vuole mettere in pratica un mondo altro (di autogestione) bisogna prima distruggere questo.
Per di più, la morte di fatto, sebbene non nei sogni e nelle utopie dei militanti rivoluzionari, dell’ipotesi rivoluzionaria tradizionale non deve per questo portarsi nella tomba anche il coraggio, un coraggio che non sarebbe più rivoluzionario bensì semplicemente insurrezionale.
A questo punto il dato di fatto storico e l’orizzonte preferibile cui si accennava più in alto si congiungono. Non possiamo fare la rivoluzione, se anche avessimo voluto, e l’unico cambiamento radicale possibile verrebbe da cause altre da noi, sebbene sarebbe comunque preferibile all’esistente. Una catastrofe per esempio potrebbe porre fine al sistema tecno-industriale. In ogni caso, anche se potessimo fare la rivoluzione, gli sarebbe preferibile l’insurrezione.
La rivoluzione è un cambiamento radicale, si diceva. Al di là della sua radicalità, è prima di tutto un cambiamento. Si tratta di un cambiamento politico. Un cambiamento non implica solo una distruzione dell’ordine esistente, come l’insurrezione, ma anche una sostituzione di questo ordine con un altro ordine, una società con un’altra società. Ma poiché ogni società sarà per sua natura autoritaria, una rivoluzione anarchica non è possibile. Una rivoluzione marxista, leninista, stalinista, maoista, in altri periodi storici era perfettamente possibile e coerente: è l’imposizione, armi in pugno, quindi in maniera radicale, di un ordine, quello del capitalismo di Stato, a un altro ordine precedente, il capitalismo del libero mercato. Una rivoluzione anarchica porterà invece sempre a risultati autoritari, quindi, a differenza del caso della rivoluzione marxista, a una contraddizione di termini.
Alfredo Cospito rifiuta così l’idea di rivoluzione: «Non aspiro ad alcuna futura “paradisiaca” alchimia socialista, non ripongo fiducia in nessuna classe sociale; la mia rivolta senza rivoluzione è individuale, esistenziale, totalizzante, assoluta, armata»3. Un chiaro distinguo fra rivoluzione e rivolta/insurrezione viene posto come sempre molto bene anche da Max Stirner.
Una società futura, per essere altra da quella presente dovrà fondarsi su dei principi che i rivoluzionari le daranno. Nel momento in cui la rivoluzione sarà finita, gli ex rivoluzionari dovranno assicurarsi l’applicazione di quei valori. Ovviamente tali valori e tale società avranno dei nemici, poiché fortunatamente ci sono e – spero – ci saranno sempre (questa è la vittoria del qui e ora contro il totalitarismo di ogni autorità!) nemici di qualsiasi ordine esistente, come sosteneva Renzo Novatore, annoverandosi tra questi. Ci saranno sempre amanti appassionati del chaos. Così gli ex rivoluzionari fonderanno una polizia ex rivoluzionaria. E dal momento che vi saranno anche dei nemici esterni finché la rivoluzione non sarà divenuta globale verrà istituito un esercito ex rivoluzionario. Ma una volta individuati questi nemici della rivoluzione, che farne? Ecco sorgere le carceri ex rivoluzionarie. E se qualche nemico della rivoluzione non fosse ritenuto consapevole di esserne nemico? Perché lasciarsi sfuggire la possibilità di edificare – macché, riaprire! – anche i manicomi ex rivoluzionari?
In breve la società rivoluzionaria, per quanto anarchica nei proclami iniziali, diverrebbe esattamente uguale a quella esistente oggi. Quando dico uguale non mi riferisco a una misurazione con il termometro libertario. Il grado di libertarismo di una rivoluzione è una truffa. Se esiste ancora il germe dell’autorità, sebbene non configurabile a parole come autoritarismo, assolutismo, ecc., l’autorità c’è e la libertà no. La libertà o è totale o non esiste. Non si può ritenersi liberi perché si è un po’ meno schiavi. La tigre o è libera nella giungla oppure è prigioniera in un circo o in un giardino zoologico. Il fatto che nella gabbia abbia o non abbia anche le catene alle zampe è una caratteristica che può esserci o non esserci nella tortura inflitta dall’autorità, ma non c’entra con l’essere o non essere libera. Se sei in una gabbia non sei libero. E se nella gabbia prima aveva pure le catene e poi te le tolgono, cioè non fa della tua gabbia una gabbia anarchica.
Esempi di ciò sono l’Ucraina makhnovista e la Spagna della Guerra Civil. Nel primo caso, giusto per citare qualche orrore del passato, i makhnovisti avversarono Maria Grigor’evna Nikiforova che continuava a praticare l’azione diretta contro l’autorità anche dopo la rivoluzione dei bolscevichi, alleati di Makhno e Aršinov (nonostante qualche litigata sulle catene della tigre dentro la gabbia). In Spagna invece, sotto il dominio della Federazione Anarchica Iberica (F.A.I.) e della Confederazione Nazione del Lavoro-Associazione Internazionale dei Lavoratori (C.N.T.-A.I.T.), fra anarchici-ministri e altre perle della Storia, venne applicata addirittura la pena di morte alla catena di montaggio4.
L’impossibilità storica di una rivoluzione socialista e il disgusto di un nemico di ogni forma di autorità verso l’ipotesi rivoluzionaria e l’idea di una società rivoluzionaria, non implicano in alcun modo che con la rivoluzione debba morire anche il coraggio di attaccare il nemico, l’autorità. Con la morte della rivoluzione dovrebbe morire invece la politica, la tecnica di elemosinare consenso per gestire la polis. Ma, se non c’è nessuna polis e nessuna società da gestire, la politica non avrebbe ragion d’essere. Scongiurata una rimodulazione volontaria dell’autorità (rivoluzione), perché cessare di combattere?
La lotta è qui e ora. La vittoria è qui e ora. Perché la nostra vittoria è la sconfitta della volontà di pace sociale del nemico. È il gesto di ribellione, è il fuoco, la distruzione, l’annichilimento, la ferita inferta alla moralità di questo mondo, l’iconoclastia, le fiamme che dipartono da un punto qualsiasi del mostro tecnologico. Perché la ragion d’essere di ogni autorità è il poter garantire se stessa, il poter esercitare l’autorità. L’esistenza stessa del grido negatore di ogni autorità, del nichilismo attivo armato contro questa galera a cielo aperto, pertanto è la più grande vittoria, qui e ora, che si possa desiderare. Perché l’esistenza della sovversione implica la sconfitta della volontà di essere totale del dominio.
Perché l’ordine non è ordine se qualcuno, fosse anche solo uno, unico, gioisce, folle, della Guerra Totale, nella notte del chaos!

1. R. VANEIGEM, Terrorismo o rivoluzione, Edizioni Anarchismo, Trieste 2015, p. 11.
2. A.M. BONANNO, Nota introduttiva, in R. VANEIGEM, op. cit., p. 5.
3. A. COSPITO, in «Croce Nera Anarchica», n. 0, 2014.
4. H.M. ENZENSBERGER, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Feltrinelli.

Udine, 1.5.16, Contro il I maggio

 

 

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Udine, 1° maggio 2016

«Il massimo compito dell’uomo non è il lavoro, ma la libera creatività».
Max Stirner

Rintanato in casa per non sentirli, li immagino, quasi li odo, gli schiamazzi della folla festante. Evviva il lavoro! Schiavi moriremo, e felici! Evviva la schiavitù salariata! Folle informi, dove l’uno si confonde con l’altro, gli è speculare, gli si sovrappone, dove l’unico è molti perché ha scelto di morire, così nella morte meccanizzata, del corpo come dello spirito, della fabbrica, così nel passeggiare beati sotto stendardi di corporazioni vigliacche, idolatranti il lavoro e, come se non bastasse, collaborazioniste di professione con il nemico, con lo Stato e il suo Capitale, fagocitanti sezione apposite per aguzzini in divisa, di dentro e di fuori le mura delle galere, come se si trattasse di un qualunque lavoro.
È il lavoro, la schiavitù salariata il perno per l’ingranaggio chiamato Società. Ma forse fa più comodo urlare “A more il padrone!”, e costruirne, produrne scientificamente, il ruolo sociale giorno dopo giorno, legittimandone l’esistenza, facendola, permettendola, determinandola, con il proprio sacrosanto lavoro. In questo come in mille altre cose la democrazia del regime italiano e le folle, ormai nemmeno così tanto folle, elemosinanti diritti e croccantini, vanno a braccetto: la Repubblica Italiana è una repubblica fondata sul lavoro.
Che miseria, che tristezza, vedere la tigre odiare, solo nei proclami peraltro, l’addestratore del circo, ma amare – che dico, identificarsi! – con le sbarre della sua gabbie. La classe operaia, il proletariato…, di cui oggi probabilmente l’immagine più fedele sono gli operai leghisti che imprecano contro i migranti che “ci rubano il lavoro”. Ma di che stiamo parlando? Ma quale classe operaia! Ma quale classe!
Forse che la povertà è una virtù? Forse che l’essere sfruttati è una virtù? Forse che essere dei servi volontari ‘sì ben tratteggiati da La Boétie è una virtù? Forse che costruire questo necromondo, l’incubo tecno-industriale del presente e del futuro, in quelle fucine di nocività chiamate fabbriche è una virtù? Forse che il lavoro è una virtù?
Il lavoro è una merda, è solo questo e come tale va considerato. Oggi è un giorno di lutto, di lutto per tutto il tempo e tutta la creatività di cui parlava Stirner uccisi dai lavoratori.
In odio al I maggio, al lavoro, ai sindacati (più o meno di base, rivoluzionari o finanche “anarco”) e alla società tecno-industriale, qualche parola di disprezzo non si può fermare, al cospetto dell’ennesima festa ridicola, dell’ennesima farsa.

prova

un bacio a sara