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Proponiamo una riflessione/dibattito nata dall’articolo di Alcuni Anarchici Udinesi

di cui allego il link :https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/05/02/udine-2-5-16-insurrezione-o-rivoluzione/ intorno alla dicotomia insurrezione o rivoluzione.

Questo è il contributo del compagno Michele Fabiani 

Non ci si può mai bagnare due volte nello stesso fiume

Eraclito

L’identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in quanto ha in se stessa una contraddizione.

Hegel

L’attività della distruzione è un’attività eminentemente creativa

Bakunin

 

Leggo sempre con molta attenzione gli scritti degli anarchici di Udine, mai banali e di cui condivido praticamente tutto. Questa volta invece il contributo pubblicato di recente da questo blog dal titolo “Insurrezione o rivoluzione”, a firma “Alcuni anarchici udinesi” mi trova in gran parte in disaccordo e mi piaceva discuterne pubblicamente. Lo scritto ripropone infatti la dicotomia fra rivolta e rivoluzione che a mio avviso non ha alcun senso. Non è una novità, il primo a parlarne fu Max Stirner. La novità è che da un po’ di tempo questa contrapposizione è tornata in auge nell’anarchismo d’azione, proporzionalmente all’attendismo infinito di un certo millenarismo rivoluzionario. Sull’argomento, immodestamente, mi sento preparato, essendomi esercitato in un anno e mezzo di discussioni al passeggio. Il passeggio non era proprio il peripatos della scuola di Aristotele, ma anche noi eravamo dei filosofi peripatetici che passeggiando discettavamo dei più alti (e dei più bassi) argomenti: non da ultimo il discorso su insurrezione e rivoluzione.

Per dirla in termini estremamente banali, io ritengo, come disse Ginetta Moriconi, che la rivoluzione è la guerra e le insurrezioni sono le battaglie. Per dirla in termini più profondi, è il grande mistero dell’Attimo e del Tempo. Un mistero insolubile secondo la vecchia filosofia greca (con poche eccezioni). La logica classica infatti non ci dà alcuna spiegazione di come il “qui” possa sparire, andarsene, e venire fuori qualcosa di altro. Si pensi ai paradossi di Zenone. In questo senso i “materialisti” erano i più reazionari fra tutti i filosofi. Un Aristotele per esempio sosteneva che gli schiavi erano degli “strumenti animati”. Non uno scivolone occasionale, ma una affermazione del tutto coerente per un pensatore che credeva che ormai tutto era stato scoperto e che l’uomo doveva solo sistematizzare le conoscenze. Insomma sé così vanno le cose, allora così devono andare. E’ naturale, è giusto, è immutabile. Invece il mondo muta, per fortuna. Tutto scorre. E muta soprattutto grazie alle insurrezioni di quelli che il mondo così com’è non gli sta bene; vero motore della storia. Le rivolte dei messeni schiavi degli spartani, l’insurrezione di Spartaco, la propaganda caritatevole ma anche armata dei cristiani, le invasioni barbariche. Quando il re barbaro Alarigo fece il primo sacco di Roma, liberò, o meglio si liberarono da sé con l’occasione, centinaia di migliaia di schiavi. Hai voglia a dire loro: ma tanto la società futura sarà anch’essa autoritaria, noi siamo antisociali.  E sti cazzi! Io se posso me ne vado da Roma porco Giove – avrebbero risposto loro. E come dargli torto.

Secoli di insurrezioni e fino ad una grande rivoluzione “mondiale” che seppellisce e letteralmente saccheggia il mondo antico. Poi i nuovi oppressori, fanno finta di non sapere le loro origini, o dopo un po’ se ne dimenticano d’avvero, e ricominciano con la storia dell’immutabilità: imperatori, re, duchi e conti; Papa, cardinali, vescovi e preti tutti stanno lì da sempre per volere di Dio, dicono loro; addirittura riscoprono Aristotele nel tredicesimo secolo per avere una ideologia che giustifichi la loro oppressione. In realtà prima il povero Tommaso d’Aquino lo perseguitano perché Aristotele era considerato un filosofo mussulmano (dato che erano stati gli arabi a riscoprirlo), poi capiscono che la sua filosofia era la più adeguata per i loro interessi di oppressione materiale e morale, la riscoprono e chi osò contestarla mal glie ne incolse.

Di nuovo rivolte e rivoluzioni, e di nuovo gli oppressori moderni che ricominciano con sta favoletta dell’immutabilità. Tutti i primi teorici del capitalismo – i cosiddetti economisti neoclassici – dicevano che il mercato ci sta da sempre, che questo è il solo mondo possibile. E anche di recente i filosofi leccapiedi dei potenti sono tornati alla carica con la favoletta della fine della storia. Ora mi auguro vivamente che anche gli anarchici non si mettano a dare man forte a questa ideologia da quattro soldi. Se questo discorso lo fa A-rivista (e lo sta facendo da un po’ di tempo: se avete le stesse posizioni, preoccupatevi) me ne infischio in quanto da tempo non li considero più in grado di dare alcun contributo rivoluzionario, ma se lo fanno dei compagni e delle compagne d’azione mi comincio a preoccupare per la piega teorica che l’anarchismo d’azione rischia di prendere. E siccome teoria e azione per gli anarchici stanno appiccicate – ed è per questo, prima di ogni altra cosa, che io sono anarchico – mi preoccupo ancora di più.

D’altronde la dicotomia fra Attimo e Tempo è superata anche in filosofia. Questa frattura così misteriosa per i filosofi greci è stata rotta già da due secoli dalla filosofia tedesca, la quale ci spiega come il superamento di questo momento e dei successivi, in eterno, nel tempo, avviene attraverso la forza della Negazione. E’ il nichilismo di Hegel. E’ il nichilismo del giovane Bakunin che dice che la distruzione è un’attività creatrice. Significa che questo momento di rivolta, così suggestivo per buona parte dell’anarchismo d’azione, non se ne sta lì da solo, ma cospira, nel senso proprio che con-spira, che “soffia-con” altri fatti insurrezionali, con altri attimi di ribellione, verso un vortice più grande: la rivoluzione mondiale. In questo si colloca, anche, la critica all’anonimato, che vorrebbe lasciare l’azione lì da sola, senza farla cospirare con altre azioni nel mondo (e nel tempo) verso la sovversione totale.

La critica all’attendismo di certi “rivoluzionari” è giustissima. Gli attendisti, oltre al fatto di essere spesso dei cagasotto sul piano personale, fanno lo stesso errore: separano l’Attimo dal Tempo, pongono la rivoluzione in un momento lontanissimo che da qui non si vede nemmeno. Però non è che allora anche noi rinunciamo alla rivoluzione! Che dispetto sarebbe?

I compagni di Udine poi citano la Spagna come esempio di rivoluzione che finisce per formare una nuova autorità, e fanno l’esempio della pena di morte nella catena di montaggio in fabbrica. Ebbene la Spagna è esempio non dei danni della rivoluzione, ma dei danni della rinuncia alla rivoluzione. La dirigenza della CNT-FAI si è lasciata ingabbiare dentro la logica frontista, sintetizzata dallo slogan: prima vincere la guerra e poi la rivoluzione; prima sconfiggere il fascismo e poi fare la rivoluzione. Il risultato è stato che la borghesia, per paura della rivoluzione, ha sabotato anche la guerra. Pensate che sono state privatizzate e restituite ai proprietari le fabbriche che gli operai in armi avevano espropriato nell’insurrezione del 19 luglio. Quell’insurrezione non la si è lasciata cospirare verso una rivoluzione, ma la si è fermata con la scusa dell’antifascismo. E’ la stessa porcheria fatta durante la Resistenza in Italia dal CLN: tutti uniti contro il fascismo, borghesi e proletari. In Italia ha vinto la democrazia borghese, in Spagna il fascismo borghese. Ma il risultato è stato lo stesso: con la scusa dell’antifascismo si ferma la rivoluzione. L’esempio della pena di morte in fabbrica è azzeccatismo, peccato che citato al contrario. La pena di morte non serviva mica a garantire l’ordine rivoluzionario, la pena di morte serviva a garantire l’ordine capitalista contro gli “incontrollados” che se ne fregavano della guerra a Franco e volevano continuare a distruggere le macchine, a fucilare i borghesi per strada, che volevano continuare verso la rivoluzione. Se c’è una cosa che ci insegna la Spagna, semmai, è che l’insurrezione (19 luglio) non basta, ma bisogna continuare fino a quando c’è un oppressore sulla terra.

Un’altra cosa la voglio dire sul sedicente programma rivoluzionario. Su questo bisogna evitare banalizzazioni. Persino un Marx – che non è sospettabile di anarchismo – nella prefazione del Capitale scriveva di non avere ricette per l’osteria dell’avvenire, ma di limitarsi ad analizzare la realtà presente. Quindi chi scrive programmini, tipo risiko, è un demente. Tra l’altro nemmeno a risiko il programma riesce mai come lo si immagina. Fare articoli contro chi scrive i programmi è come il pugile che si sceglie l’avversario scarso per vincere facile. Anche perché è evidente che nessuno ha mai realizzato i propri programmi nella storia. Non penso che i barbari che saccheggiavano Roma sapevano che sarebbe arrivato Carlo Magno e il feudalesimo. La verità è che chi è in catene cerca di romperle e questa azione è il solo motore della storia: gli oppressori, state tranquilli, non cambierebbero niente. In questa azione di distruzione, nasce sempre qualcosa, come un incendio lascia la cenere e le braci per un nuovo incendio. I programmi non li abbiamo, l’unica cosa che portiamo semmai è la benzina.

Per questo io ritengo che la dicotomia fra insurrezione e rivoluzione sia un errore gravissimo. Gli anarchici già ce ne hanno abbastanza di dicotomie: organizzatori-antiorganizzatori, comunisti-individualisti, ecc. Non c’è bisogno di inventarne un’altra! Semmai dovremmo superarle verso formule nuove di cospirazione. La questione non è: insurrezione o rivoluzione? Ma insurrezione. Punto. Perché chi è oppresso: o è servo, o insorge. Questo insorgere genera rivoluzioni. E’ un fatto.

Gli anarchici sono i primi nella storia che hanno capito che ogni nuovo potere sarà anch’esso autoritario e anch’esso da combattere. E’ la nostra dote. Che non diventi un limite. O peggio: un pretesto.

 

Michele Fabiani