LO STAGNO MORTO E L’ACQUA FRESCA di Michele Fabiani

benzina

 

Sono convinto da tempo che il cosiddetto “movimento “, definizione di cui ho sempre poco compreso il significato, sia ridotto ormai ad uno stagno morto. Penso che non sarà dal “mondo dei compagni” politicizzati che potrà mai scaturire quel terremoto auspicabile per impensierire seriamente il sonno dei padroni.

Molti pesci nello stagno sono già stecchiti, altri sono emigrati o si sono rintanati. I più attivi passano il tempo a “beccarsi” a vicenda, puntualizzando, rispondendo e criticando gli altri. Il dibattito ruota su tematiche che capiscono solo gli addetti ai lavori. Sociale/anti-sociale; anonimato/rivendicazione; rivoluzione/rivolta, quando non trascende alla critica di quello che ci mangiamo a cena (vegan contro tutti) o al nostro modo di scrivere (i/e, x e altri neologismi antisessisti); ecc.

Quella che manca è una spinta propulsiva e distruttiva (per il nemico). Non sono un nemico della teoria: tutt’altro! Per certi aspetti sono un vero secchione (non uso il termine nerd perché poco internettaro e grande amante del profumo dei libri), un pervertito del dibattito, dell’analisi, dello studio. Siccome sono anarchico, penso però che la teoria debba essere sembra appiccicata alla pratica. Non nel senso che sono due binari paralleli, e nemmeno in senso di “danza” marxiana prassi-teoria-prassi; ma nel senso che Teoria/Pratica devono essere già unite.

Il dibattito però, e quindi anche l’azione (che è appunto la stessa cosa, oppure è accademia), dovrebbe occuparsi di cose, per così dire, interessanti – mi si perdonerà se sono un po’ antipatico.

Nell’anarchismo d’azione non c’è stata alcuna seria analisi su quella che viene generalmente considerata una delle più grandi crisi della storia del capitalismo. E se questo può sembrare troppo economicista, non c’è stato nemmeno alcuno studio degno di questo nome su quello che da sempre è il campo privilegiato dagli anarchici: la natura dello Stato e i mutamenti fondamentali che questa sta maturando.

E siccome pensiero e azione dovrebbero essere la stessa cosa per gli anarchici, anche l’azione risente di queste deficienze. Perché mentre il capitale era claudicante, noi non gli abbiamo fatto lo sgambetto; e mentre lo Stato si sta riformando noi non sappiamo individuare i gangli principali della sua nuova macchina, e annientarli.

 

Lo stato c’è. O ci fa?

Mentre i soliti giovani autonomi, ormai ottuagenari, da 40 anni ci scassano i coglioni sull’estinzione dello Stato, sull’Impero e su altre amenità, lo Stato ben lungi a morire è vivo e vegeto, anzi fa proprio quello che fanno gli organismi in buona salute: si rinnova e con un metabolismo di tutto rispetto.

Non che non ci sia una crisi delle istituzioni costituite, ma questa crisi viene gestista dall’organismo statale come una malattia della crescita, da curare e da cui uscire più forte. O almeno ci prova.

Lo Stato è anzitutto potere. Potere politico ed economico. Chi ha provato a rovesciare il secondo, senza distruggere il primo, ha finito per rinnovarli entrambi. Il potere è ovunque, nella famiglia e nelle assemblee, nei rapporti affettivi, ecc. E ovunque si forma del potere si rinnova lo Stato.

Lo Stato è potere, è vero. Ma non è semplice potere: lo Stato è potere organizzato. Lo Stato, quindi, è un organismo.

Mi hanno sempre fatto incazzare i leaderini di “movimento” (il Movimento, questa entità fantasmagorica! A differenza dello Stato!) che si mettevano a fare le pulci a chi usava la slogan “colpire il cuore dello Stato”; sostenendo che lo Stato è “diffuso”, è “ovunque” e non ha un cuore. Lo Stato, in quanto organismo vivente, ha un cuore, una testa, degli artigli e dei denti ben affilati. Lo Stato è diffuso ovunque, certo, anche nelle nostre case, ma è diffuso ovunque in una certa maniera, ha una organizzazione, è una macchina vivente. In quanto vivente ha dei punti deboli che sono mortali, ed altri che possono fare molto male. Altrimenti dire che lo Stato è diffuso diventa un pretesto per fare un po’ come ci pare, sprecando le nostre potenzialità con anni di galera (quando si tratta di compagni dignitosi) oppure colpire dove si rischia meno.

 

Il nuovo super-Stato europeo

Come abbiamo detto lo Stato vive un momento di forte trasformazione. Questa trasformazione delle volte produce febbri e momenti di crisi, quasi tutte generate dal suo interno (i rivoluzionari al momento non sembrano in grado di impensierirlo).

Da questa parte del mondo, stanno sperimentando la costituzione di un nuovo super-Stato europeo. La costruzione di questo mostro non è lineare e segna momenti di discontinuità con le varie nazioni che si scazzano tra di loro sui propri interessi contraddittori. L’ipotesi generale del progetto sembra però delineata.

Lo Stato, come sempre, è il cane da guardia dei padroni. In termini estremamente semplicistici l’idea sembra essere quella di allargare la recinzione a difesa della ville dei ricconi e mettere più cani e sempre più incattiviti a loro difesa (che poi a volte si mordono tra di loro o pisciano sull’albero sbagliato, ma sono cose che capitano).

L’aspetto più affascinante del progetto sembra essere la sua schiettezza. Vengono a saltare quei meccanismi scenici che reggevano il teatrino politico e che si sono così accuratamente sviluppati negli ultimi due secoli: tenderanno a perdere di importanza i parlamenti, i partiti, i sindacati. Il rapporto di forza sembra abbastanza semplice: qui ci sono i nostri interessi, le banche, la moneta, le industrie, le multinazionali, insomma qui c’è il nostro “orto”; e questi sono i “cani”, questi sono i fucili con cui accoglieremo gli intrusi. I migranti li hanno già visti, sia i cani che i fucili.

Allora gli anarchici dovrebbero dibattere su questo, invece che su tante amenità: come si arriva al cuore della nuova macchina statale? e più vicino casa dove sono i nodi principali della rete? chi la sta tessendo? cosa gli facciamo?

 

Sociale o anti-sociale? Una questione storica

La gran parte dei pesci nello stagno invece che affrontare queste ed altre questioni di sostanza, per andare a mordere la carne viva dell’organismo statale, si impantano nelle solite diatribe. Sopra ne ho citate alcune, l’unica di cui vale la pena parlare è la dicotomia fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Un dualismo che attraversa il nostro movimento fin dalle sue origini.

Spesso semplicemente ci si schiera con uno dei due “partiti”. Qualcuno cambia idea, passando da una sponda all’altra dello stagno, ma è raro che la contraddizione venga risolta positivamente. Il caso più importante nella storia dell’anarchismo forse è rappresentato dagli anarchici italo-americani che si raccoglievano intorno a Luigi Galleani, i quali erano anti-organizzatori nella struttura e comunisti o comunque classisti nella lettura della società. Dei compagni e delle compagne che hanno fatto molto male al capitalismo americano proprio negli anni in cui emergeva come potenza mondiale.

Io credo che la dicotomia fra sociale e anti-sociale non vada affrontata come una questione di identità. Che non valga ora e per sempre. Penso che l’unico modo per superare la contraddizione sia affrontandola storicamente: ci sono momenti in cui si deve essere sociali e altri in cui non si può che essere anti-sociali.

Quando ci sarà l’insurrezione, nel senso proprio del termine di milioni di persone armate per strada, sarà necessario essere pronti all’intervento sociale ed essere organizzati per combattere, per difenderci, per prevenire le derive autoritarie dei moti rivoluzionari. In quel caso dire “io la mia rivoluzione la faccio ogni giorno” diventerà solo una masturbazione, perché sarà evidente che quello che sta accadendo è qualcosa di qualitativamente diverso.

Viceversa, in un periodo contro-rivoluzionario (come quello odierno) non possiamo che essere anti-sociali. Perché l’intervento sociale diventa una foglia di fico che nasconde solo il nostro nudo attendismo. Diventa la scusa per non fare un cazzo di niente. Altro che avanguardismo, qui siamo alla retroguardia! La “gente” si modera sempre più e i rivoluzionari adeguano sempre più in basso i proprio sogni di rivolta. La degenerazione di tanti movimenti (no global, no tav, lotta per la casa, ecc.) sta lì ad indicarlo.

In sintesi, in qualunque momento, anche nel più buio, un singolo individuo o una piccolissima minoranza di affini può rappresentare una spina nel fianco dietro le linee nemiche. Può anche fare molto male e non essere solo uno sfogo esistenziale. Però può anche rappresentare, da un punto di vista esistenziale, un momento di formazione. Questa non va messa nel cassetto personale, ma può diventare un fatto storico se in un periodo più favorevole la si usa per far avanzare un movimento che è diventato di massa (senza però aspettarla la massa, come fosse il Messia).

 

Storia e Volontà

C’è dunque una questione ancora più teorica da affrontare. Perché fare dibattito è importante, purché si dibatta di temi intelligenti e interessanti. Capire quanto è forte lo Spirito della Storia e quanto la nostra Volontà.

Si collega perfettamente a quanto detto nel paragrafo precedente, anche se un gradino più in astratto.

Io ritengo che le grandi questioni storiche siano piuttosto indipendenti dalla nostra volontà di singoli individui. C’entra la ricchezza, la povertà, le guerre. Non in un senso meccanicistico: talvolta la crisi genera reazione e la guerra genera nazionalismo. Ma comunque l’emergere o meno di un periodo rivoluzionario è un qualcosa in larghissima parte indipendente da noi.  Al contrario, se un gruppo di sfruttati questa sera esce e fa un’azione violenta contro i loro sfruttatori, questo rappresenta (quasi) un puro atto di Volontà. A meno che non si voglia fare del becero psicologismo: tipo la figura del padre, l’insoddisfazione sessuale, o altre stronzate delle pseudo-scienze che la borghesia stressata si è inventata.

Questa questione, apparentemente filosofica, assume una sua importanza se la si usa per affrontare ad esempio la frattura fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Cioè se la si vuole affrontare con serietà e non come polemicuccia fra pesci nello stagno morto.

Qual è l’arcano? Trovare la formula soggettiva con cui un gruppo di rivoluzionari, legati da una qualche affinità, possano agire senza attendismi nelle condizioni date. Questa formula non vale ora e per sempre, ma deve essere capace di rigenerarsi, magari anche auto-archiviarsi, col divenire della realtà

 

Fuori dallo stagno, verso la fonte di acqua fresca

Non credo che tutto il movimento potrà uscire dallo stagno morto. I pesci, dopo un po’ di tempo nell’acquario non sopravvivono se rimessi in libertà. Non è detto che nemmeno il sottoscritto ci riesca.

Quello che è certo è che la ricerca della fonte di acqua fresca sta un’altra parte. Sta nella sperimentazione di nuove prospettive di azione. Sta nello studio dello Stato e nel colpirlo nei nodi principali della sua rigenerazione. Sta nello studiare le crisi del Capitale per aggravarle.

Chi vuole rimanere nello stagno morto, va lasciato marcire. Fuori c’è tutto un mondo da sovvertire.

 

[GRECIA] TESTO DELLA COSPIRAZIONE DELLE CELLULE DI FUOCO – CELLULA DI GUERRIGLIA URBANA

 

fai fri

IL PIANO

 

Per lo “spazio” anarchico.

 

1) La chiamata.

Ogni chiamata all’azione, come il dicembre nero, è un intento di coordinare le nostre forze. E’ uno sforzo per interrompere il flusso normale della realtà. E’ un piano per invaderla con le nostre proprie caratteristiche e sovvertirla.

E’ una sonda del nostro desiderio per l’anarchia, qui e ora, e della nostra capacità di far fronte alle forze dell’ordine.

E’ un’occasione perchè gli individui, si conoscano o meno, si riuniscano nel terreno dell’azione e cerchino di attaccare i palazzi del potere, organizzata e all’improvviso.

E’ un segnale internazionale di complicità per tutt* i/le compagn*, dentro e fuori le mura, che rafforza la nostra solidarietà.

E’ un accordo anarchico che conferma che ci sono persone in tutti gli angoli della terra che senza parlare la stessa lingua, coordinano il battito del proprio cuore, allineano la vista verso il nemico, stringono i pugni, usano un cappuccio e realizzano attacchi contro il motore sociale dell’autorità, le sue strutture e i suoi affiliati. La chiamata al “dicembre nero” è stato questo momento.

E adesso? Tornare alla normalità?

Ogni chiamata all’azione può essere solo una fotografia della rivolta riflessa su sè stessa, aspettando il prossimo anniversario, la prossima opportunità, la prossima “chiamata” o può essere un incontro con la storia.

Per tutt* quell* per cui l’anarchia significa “incendio tra me e i ponti della responsabilità e la pace sociale”, l’azione anarchica non ha nessuna data d’inizio nè di fine.

Pertanto la sfida del “dicembre nero” apre in realtà una sfida più grande. Una sfida per quell* il cui calendario di attacco è rimasto inchiodato alla costante dell’oggi, qui e ora.

La sfida di creare un polo anarchico autonomo per l’organizzazione della guerriglia urbana anarchica.

 

2) La memoria non è spazzatura.

Il dicembre nero è stata una convocazione aperta a tutto il mondo, però si è registrato principalmente come un punto di riferimento per gli/le insort*, gli/le anarco-nichilist*, i/le giovani compagn*, gli/le indecis*, i “facinorosi”, contro lo stato (e in parte contro l’inattività del campo anarchico, contro la sua trasformazione pacifista)**

Non ci riferiamo tanto alla chiamata per il dicembre nero.

Ogni chiamata all’azione è un’istanza di una storia più grande che l’ha preceduta e talvolta l’accelerazione dello scenario che la segue.

Non ci sarebbe dicembre nero se non ci fosse un novembre, ottobre, settembre. Non ci sarebbe guerriglia urbana anarchica se non ci fossero tafferugli ai cortei, barricate e molotov, non ci sarebbe stata nessuna rivolta nel 2008 se non ci fossero stati incendiar* e squadre d’attacco nei 3 anni precedenti. Non ci sarà futuro se non c’è memoria.

Attraverso il tempo, l’anarchia dà alla luce – internamente – al proprio superamento anarchico.

Si dà la luce a tendenze con gli estremi più affiliati (individualismo anarchico, nichilismo anarchico, insurrezionalismo anarchico) che optano per muoversi ai limiti del movimento, dello “spazio” rivoluzionario.

A volte queste tendenze agiscono come detonatore dell’anarchia, sollevando la lancia dell’attacco anarchico e a volte vengono fagocitate riempitesi di presunzione e arroganza.

In Grecia, l’apparizione di tendenze “eretiche” all’interno dello “spazio” anarchico è tanto antica quanto lo spazio in sé.

Tendenze che, nel bene si ridussero e si convertirono in circoli di intellettual* artistic* (per esempio i/le situazionisti) o furono assimilate e integrate nello “spazio” ufficiale. Tutte loro tuttavia, hanno lasciato la loro traccia nella storia che non finirà mai.

 

Nel 2005 un circolo di persone apre al pubblico in modo molto visibile (manifesti, riviste, partecipazioni ad assemblee) la sfida di potenziare la violenza anarchica, con la parola d’ordine “pensa rivoluzionario – agisci offensivo”. Una tendenza insurrezionale che mira non solo allo stato e autorità se non anche alla complicità dell’apatia sociale apparsa ora più organizzata e con una presenza pubblica costante. Nel frattempo la questione della negazione del lavoro si mostra in pubblico, con attacchi armati alle banche, come suo filo affilato.

Di fatto, la tematica parziale del rifiuto del lavoro, strizzando gli occhi è in realtà il prologo delle discussioni sulla diffusione della guerriglia urbana anarchica.

Fuori da questa mobilità diffondibile (incendi dolosi, rapine, attacchi comandati, assemblee come il coordinamento d’azione) fu il gennaio del 2008 quando nacque la C.C.F.

La C.C.F. appare come l’espressione organizzata di una tendenza anarchica eretica con un chiaro orientamento verso la lotta armata e alle relazioni con l’individualismo anarchico, al nichilismo, la rivoluzione della vita quotidiana e la critica al complesso stato-società.

Ovviamente, non fu questa tendenza che diede origine all’insurrezione del dicembre 2008.

Una rivolta non può essere appropriata da nessuno né tiene diritti di autore.

Però fu soprattutto la tendenza che ha avuto i riflessi per accelerare alcuni degli eventi più conflittuali che si produssero nel dicembre 2008, poiché le piccole strutture basilari stavano già operando con attacchi coordinati regolari.

 

3) Aggiornandosi con il presente.

 

Le prime detenzioni per CCF nel settembre del 2009 (caso Halandri) crearono una tempesta dei media.

La maggior parte delle tendenze eretiche (anarco-nichiliste, anarco-individualiste, antisociali ecc…) si piegarono per il panico della repressione infiltratasi nella sicurezza del movimento anarchico ufficiale, e le belle parole sulla “rivoluzione o morte” finirono come un cadavere in putrefazione, con l’aspetto del tradimento.

Alcuni compagni furono indistruttibili e volevano continuare quel che si era iniziato.

Però riguardo tutto questo, molto s’è detto e molto s’è scritto.

Ad ora, una gran parte del movimento anarchico sta vivendo con l’impronta della sconfitta, con lo strumento della repressione, con l’opportunità persa di una sollevazione che non portò a nulla in questi tempi di crisi, isolamento ed egemonie informali.

Tuttavia la parola d’ordine che si è diffusa non può stabilirsi e certamente nulla si perde per sempre.

Negli ultimi due anni, una nuova tendenza anarchica sta facendo la sua apparizione dai resti del passato, seguendo il proprio corso.

Una tendenza che non si è creata tanto per caratteristiche politiche reciproche, fino al desiderio reciproco di qualcos’altro di differente di quello che già esiste nel movimento anarchico in Grecia. Una tendenza che sembra più omogenea di quel che realmente è dovuto a quelli che la criticano. In realtà si tratta di un’ondata di persone che comprende dai compagni coscienti fino alle persone che semplicemente odiano la polizia e vogliono eruttare.

 

  1. La collisione tra vecchio e nuovo

 

Ogni nascita è violenta. Ogni nuovo fronte che nasce sta mettendo in dubbio e scontrandosi con il ventre dal quale proviene, tentando di recidere il cordone ombelicale. Attraverso la natura temporanea, tutte le eresie che nascono all’interno del movimento anarchico hanno diretto la propria critica incandescente contro le vecchie strutture. Per quanto riguarda il senato del movimento anarchico, se non prende nel nuovo per progettare nell’infallibilità della loro irriducibilità, alla fine lo combatteranno con la paura senile del cambiamento. Specialmente oggi, sembra che la comunicazione fra vecchio e nuovo sia persa per sempre.  Le ragioni sono molteplici, ma la storia non aspetta la nostra introversione. Ciò che è urgente è una nuova idea, un piano per la continuazione della lotta. Ogni piccolo nuovo fronte anarchico si trova ad affermare ciò che esso odia nel movimento anarchico “ufficiale”. La critica contro l’immobilità del movimento soppianta spesso la critica alla tirannia dell’autorità. Ora pensiamo che la situazione interna del movimento anarchico si sia più che mai polarizzata. E’ per questo che è il momento per il passo successivo. La nuova tendenza anarchica può abolire l’introversione, autodeterminarsi e creare il suo proprio movimento anarchico autonomo.

 

La memoria è una componente fondamentale di questo sforzo. Ricordiamo le nostre esperienze passate, non per imitarle, ma per superarle. Il fatto che il nuovo fronte anarchico stia soffrendo la carenza di organizzazione nell’azione e nei momenti assembleari, perché pensano che essa sia una caratteristica della burocrazia del movimento anarchico ufficiale, è come se gliela stessero cedendo.

 

L’organizzazione, l’assemblea, l’agire politico non hanno diritto d’autore. Sono mezzi di lotta che vengono determinati attraverso le persone politiche che vi partecipano… La massima e l’atteggiamento considerati non conformisti del tipo “non mi interessa dei procedimenti, faccio quello che voglio…” è un timore e una conservazione perversa di fronte alla puntualità e alla responsabilità di cui un anarchico necessita per partecipare alla guerra della guerriglia urbana. Uno strumento non ha connotati positivi o negativi, ma al contrario tale connotazione si determina a seconda dell’uso che di tale strumento viene fatto. Un’assemblea politica è burocratica quando le persona che vi partecipano sono burocrati. Senza dubbio un’assemblea può essere un meccanismo di formazione, di coordinazione e di propulsione per l’analisi, un mezzo di sviluppo personale e collettivo. Creiamo ora i nostri propri meccanismi politici, senza burocrazia, le nostre proprie assemblee senza pettegolezzi, le nostre proprie organizzazioni senza ranghi… Conserviamo le nostre proprie infrastrutture per la rivolta armata contro il dominio dell’autorità.

 

  1. I 5 punti per una tendenza anarchica autonoma e offensiva.

 

L’anarco-nichilismo, l’anarco-individualismo e, in generale, le eresie anarchiche più offensive, non sono “incidenti” nella storia dell’anarchia, ma al contrario ne sono la parte più stimolante. Queste tendenze possono adesso formare un movimento politico autonomo.

 

Un movimento che non cerca la completa unità di vedute nella verità del vangelo teorico e negli statuti della chiarezza ideologica. Un movimento che non ricatti per ottenere la totale condivisione dei suoi punti di vista, ma che riconosce l’affinità politica dei gruppi che partecipano e si incontrano in cinque caratteristiche basilari.

 

Prima di tutto siamo anarchici, indipendentemente dalla nostra particolare denominazione (nichilisti, insurrezionalisti, individualisti, etc.). Come anarchici non rifiutiamo di riconoscere soltanto lo Stato e l’autorità, ma neanche alcun comitato centrale della “rivoluzione”, alcun esperto ideologo, né alcuna relazione gerarchica al nostro interno. Ci organizziamo su base informale e nel coordinamento di gruppi ed individui con affinità politica.

 

In secondo luogo, la polemica contro lo Stato e l’autorità non tralascia la complicità sociale del silenzio, dell’apatia e della sottomissione. Attacchiamo con azioni contro lo Stato, i suoi rappresentanti e le sue strutture, ma allo stesso tempo vogliamo infrangere le relazioni sociali che li rendono accettabili e che a volte riproducono l’autorità nella vita quotidiana.

 

In terzo luogo, appoggiamo la Federazione Anarchica Internazionale. Desideriamo che le nostre ostilità all’interno degli Stati nei quali viviamo si connettano a livello internazionale come momenti di una guerra anarchica globale. Stiamo scambiando idee, stiamo condividendo esperienze, stiamo creando relazioni di solidarietà e vogliamo costruire una federazione anarchica internazionale in cui i frammenti di una esplosione a Santiago del Cile arrivino fino ad Atene e si moltiplichino…

 

Quarto, noi non ci diamo per vinti con i nostri compagni arrestati. La nostra solidarietà offensiva é la vendetta per la loro prigionia. Questo non significa identificarci nella loro visione. I prigionieri non sono idoli sacri né simboli della lotta, ma sono coloro che non sono più al nostro fianco… La coerenza di tutti quei compagni prigionieri che restano irriducibili nelle carceri e che non vacillano é una prova che la lotta vale la pena…

 

Infine, promuoviamo la diversità nell’agire anarchico. Siamo capaci di creare i nostri propri squat, le nostre proprie istanze politiche, assemblee, gruppi, i nostri progetti editoriali, i nostri mezzi di informazione. Senza dubbio, poiché spesso l’invocazione di diversità si trasformo in una scusa per emarginare le pratiche anarchiche armate, dobbiamo mettere in chiaro che la diversità non si produce da sola. Gli squat, i manifesti, gli eventi, il materiale stampato, i mezzi di informazione asserragliati sulla linea della perseveranza dei propri progetti si stanno trasformando in isole di presunta libertà senza minacciare l’autorità. La diversità autentica della lotta deve essenzialmente appoggiare e promuovere il confronto armato con il sistema. É l’incontro del movimento con il campo insorgente. É il rituale del passaggio dalla teoria all’azione, dal rischioso all’organizzato, dal fortuito al pianificato.

 

É la propaganda col fatto.

 

Questi cinque punti chiave (alcuni sono stati esposti precedentemente in testi della Cospirazione delle Cellule di Fuoco e della FAI – vedere “Fuoco e Polvere”) sono gli elementi di una proposta aperta a tutti gli interessati a partecipare, ad arricchirla, a criticarla, a metterla in atto.

 

In nessun caso si tratta di un recinto ideologico, ma di un’occasione per la discussione pratica. La consapevolezza é nel nucleo della proposta per la formazione di uno spazio autonomo delle tendenze anarchiche eretiche.

 

Il primo progetto collettivo nel quale la consapevolezza viene realmente messa alla prova, é un gruppo anarchico. Nell’ottica di stimolare questa discussione, nei prossimi mesi pubblicheremo una serie di testi personali di alcuni compagni prigionieri della Cospirazione delle Cellule di Fuoco (Olga Economidou, Georgios Polidoro, Christos e Gerasimos Tsakalos).

 

Le esperienze, inquietudini e la prospettiva del progetto di un gruppo anarchico attraverso la narrazione personale non sono istruzioni per la pratica armata, ma senza dubbio possono contribuire al dibattito sulla guerriglia urbana e il suo sviluppo.

Allo stesso modo, l’esperienza non può essere trasferita. É per questo che la scommessa é quella di passare dalla teoria all’azione.

 

Come inizio di questa discussione divulgheremo tra pochi giorni l’opuscolo del compagno della Cospirazione delle Cellule di Fuoco Gerasimos Tsakalos “Individualità e gruppi anarchici” che stamperemo presto…

Dalla lettura… alla complicità…

 

Cospirazione delle Cellule di Fuoco – Cellula di Guerriglia Urbana

Federazione Anarchica Informale – F.A.I.

Conspiracy of Cells of Fire – Urban guerilla cell.

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Ricevo e pubblico. Al più presto la traduzione del testo 

 

The plan.

To the anarchist “space”

  1. The call.

Every call for action, like “Black December”, is an attempt to coordinate our forces. It is an effort to

interrupt the normal flow of reality. It is a plan to invade it with our own characteristics and subvert

  1. It is a poll of our desire for anarchy here and now, and of our ability to confront the forces

of order. It is an occasion for people acquainted or not, to meet in the action field and try to raid to

the palaces of the state, organized and abruptly. It is an international signal of complicity to all the

comrades within and outside the walls that strengthens our solidarity. It is an anarchist agreement

which confirms that there are people in all corners of the earth, that without speaking the same

language, they coordinate the pulse of their hearts, align their gaze facing the enemy, clench their

fists , wear a hood and attack against the social engine of authority, its structures and its relations.

The call of “Black December ” had such moments …

And now what? Back to normality?

Each call for action may be just a snapshot of revolt repeating itself, waiting for the next

anniversary, the next opportunity , the next ” Call ” or it maight turn to an appointment with

history …

To all those for whom anarchy means “I burn behind me the bridges of capitulation and of social

peace”, the anarchist action has not any date of beginning or end…

Thus, the bet of “Black December ” actually unlocks a larger bet. A bet for those whose

calendar of attack is constantly stuck in today, here and now. The challenge of creating an

autonomous anarchist pole for the organization of the anarchist urban guerrilla.

2) Memory is not garbage.

« Black December ” was an open call to everyone, but was mainly recorded as a point of reference

for the insurrectionary, the anarchist-nihilists,the young comrades, the non aligned, the

“troublemakers” against the state ( and partly against the inactivity of the official ‘anarchst space’,

against its pacifist transformation).

We are not going to refer that much to the call of “Black December”.Each call for action is an

instance of a more comprehensive history that preceded and perhaps the accelerator of a

perspective that follows.

There would be no “Black December” if there was no November, October, September … there

would be no anarchist urban guerrilla if there were no clashes in demos, barricades and

molotov cocktails, there would be no revolt in 2008 if there were no arsonists and commando

attacks the three previous years, there will be no perspective if there is no memory.

Through time, anarchy gives -internally- birth to its anarchist overcoming. It gives birth to

trends (anarchist individualism, anarshist nihilism, insurrectionary anarchy e.t.c.) with the most

sharpened corners, which choose to move at the edge of the movement, of the “space”, of

revolution… Sometimes such trends act as a detonator for anarchy, raising the bar of the

anarchist attack and sometimes cannibalizing each other full of conceit and arrogance…

In Greece the appearance of heretic trends within the “space” is as old as the “space”itself.. Trends

that either declined and turned into circles of artistic intellectuals (eg situationists) or were

assimilated and integrated in the official “space”… All of them though, have left their mark in a

story that’s never ending.

In 2005, a circle of people opens in public, in a very visible way (posters, magazine, participation in

meetings) the challenge of upgrading the anarchist violence, with the slogan “think revolutionary –

act offensive”. Appears, now more organized and constant public presence An insurrectionary

tendency that aims not only at the state and the authority but also at the complicity of social

apathy, appears now, more organised and with a constant public presence. Meanwhile, the issue of

work refusal opens in public, with armed bank robberies as its cutting edge… In fact, the partial

thematic of work refusal, twinkles the eye and is actually the prologue of discussions on the

diffusal of the anarchist urban guerrilla. Out of this diffusible mobility (arsons, robberies,

commando attacks, assemblies such as Coordination of Action) was in January 2008 the

Conspiracy of Cells of Fire was born. The Conspiracy of Cells of Fire emerges as the

organized expression of an heretic anarchist trend with a clear orientation to the armed

struggle and references to anarchist individualism, to nihilism, the revolution of everyday life

and criticism in the state-society complex.

There was, Of course, it was not this trend that gave birth to the insurrection of December 2008. A

revolt cannot be cpyrighted or owned.

But it was mainly the trend that had the reflexes to accelerate some of the most conflicting

events which occurred in December 2008, since the small core structures were already

operating regular coordinated attacks.

iii) Catching up with today

The first arrests for Conspiracy of Cells of Fire at September 2009(the case of Chalandri) created a

storm of fear. The majority of the heretic trend (anarcho-nihilists, anarcho-individualists, antisocials

etc) bowed at the panic of oppression, integrated at the security of the “official” anarchist

movement, and their big words about “revolution or death” were left behind like a rotting carcass,

looking like betrayal. Those who were realizable, were a few comrades who remained unshakeable

and wanted to continue what has been started… But for all these things, many has been said and

written… Today, a big part of the anarchist movement has been living with the imprint of defeat, the

fear of oppression, with the lost opportunity of an uprising that never came to be in these times of

economic crisis, of introversion, of informal hegemonies. However, the consignment that’s been left

cannot be determined when will be of use and certainly nothing is lost forever. The last two years, a

new generation of our anarchist trend is making an appearance from the debris of the past, making

their own course. A trend that has been created not so much because of the mutual political

characteristics but because of the mutual desire for something different from what it already exists

in the anarchist movement in Greece. A trend that appears more homogenized than it really is due to

those who criticize with depiction. In reality it’s a wave of people that includes from conscious

comrades to persons that just hate police and want to make an outbreak..

  1. iv) The clash of old and new

Every birth is violent. Every new wave that is born is questioning and clashing against its womb,

wanting to cut the umbilical cord. Intertemporarily, all heresies that are born inside the anarchist

movement have targeted with their incandescent critique the old structures. Respectively, the senate

of the anarchist movement, if they cannot take in the new by projecting the infallible of their

inveteracy, then they will fight it with the senile fear of change. Especially today, it seems that the

connection of communication between old and new has been lost permanently… The reasons are

many, but history doesn’t wait for our introversion. What is urgent is a new idea, a plan for the

continuation of the struggle. Every new anarchist wave is often discovering itself by stating what

they hate in the “official” anarchist movement. The critique against the immobility of the movement

many times supplanters the critique against the tyranny of authority. We now think that the inner

situation of the anarchist movement is polarized more than ever. That’s why it’s the time for the next

step. The new anarchist trend can abolish the introversion, be self-determined and create its own

autonomous political anarchist movement.

Remembrance is a basic component of this effort. We remember our past experiences, not to imitate

them, but to exceed them. The fact that the new anarchist wave is suffering from lack of

organization in procedures and assemblies, because they think that this is a characteristic of the

bureaucracy of the official anarchist movement, it’s like they are bestowing this to them.

The organization, the assembly, the political procedures don’t have copyrights. They are means of

struggle that are determined through the political persons who are taking part in them… The

aphorism and the supposedly unconventional attitude like “I don’t care about the procedures, I’ll do

what I want…” is a perverse conservation and a fear against the punctuality and responsibility that

an anarchist needs in order to partake in the urban guerrilla warfare. A tool doesn’t have a positive

or negative hue, contrariwise, they way that tools are used has. A political assembly is bureaucratic

when the people that are taking part are bureaucrats. Nevertheless, an assembly can be a living

procedure of conformation, coordination and propulsive analysis, a mean of personal and collective

development. Let us now create our own political procedures, without bureaucracy, our own

assemblies without jabbers, our own organizations without ranks… Let’s us construct our own

infrastructures for the armed bust against the empire of authority.

  1. v) The 5 points- for an autonomous and offensive anarchist trend

Anarcho-nihilism, anarcho-individualism and in general the more offensive anarchist heresies, are

not “accidents” in the history of anarchy, but on the contrary, they are the most promoted parts of it.

These trends can now constitute an autonomous political movement.

A movement that doesn’t seek the absolute agreement in theoretical gospel truth and the statutes of

ideological clarity. A movement that doesn’t blackmail for an aggregate identification of views, but

one that recognizes the political kinship of the groups and individuals who take part and meet in 5

basic characteristics First of all, we are anarchists regardless of our particular mentions (nihilists,

insurgents, individualists etc). As anarchists we do not recognize not only the state and authority,

but also not any central committee of “revolution”, no ideological expert, not any hierarchical

relationship in our interior. We organize based on aformalism and coordination of groups and

individuals of political kinship. Secondly, the polemic against the state and authority doesn’t leave

beyond approach the social connivance of silence, the apathy and obsequiousness. We attack with

actions against the state of officials and their structures, but at the same time we want with our

address to blow up the social relationships that make acceptable and sometimes procreate the

authority in everyday life. Thirdly, we support the International of Anarchists Federation. We desire

that our hostilities in the interior of the states we are living to be connected as moments of an

overall anarchist war internationally. We are exchanging ideas, we are sharing experiences, we are

creating solidarity relationships and we pursue to constitute an international anarchist federation

where the fragments of an explosion in Santiago Chile will reach to Athens and then multiply…

Fourthly, we do not give up on our imprisoned comrades. Our offensive solidarity is the retaliation

for their captivity. This doesn’t mean identification with their views. The prisoners are not sacred

idols, nor symbols of struggle, BUT they are those who are missing from our sides… The

consequence of all these imprisoned comrades who remain unrepentant in the prisons and don’t

grow thin, is a proof that the struggle is worth… Finaly, we promote the diversity in anarchist

actions. We are able to create our own squats, our own political procedures, assemblies, groups, our

publishing ventures, our means of information media. Howbeit, because often the invocation of

diversity becomes the alibi of marginalization of armed anarchist practices, we need to make clear

that diversity doesn’t reproduce itself. The squats, the posters, the events, the printings, the media of

information that are retrenching in the borders of perseverance of their ventures, are turning to

island of supposedly-freedom without threatening authority. The authentic diversity of the struggle

essentially has to support and promote the armed clash with the system. It is the encounter of the

movement with the insurgent realm. It is the rite of passage from theory to action, from the

serendipitous to the organized, from the fortuitous to the planned.

It is propaganda through action.

These five key points (some have been reported previously in texts of the Conspiracy of Cells of

Fire and the FAI – see “Fire and Gunpowder”) are the elements of a proposal that is open to all those

interested in participating, in enriching, in criticizing, in working it out.

In no case does it constitute an ideological fence, but instead an occasion for practical discussion. At

the core of the proposal for the establishment of an autonomous space of heretic anarchist trends, is

consciousness.

The first collective project where consciousness is actually tested, is an anarchist group. In the

context of this discussion’s propulsion, we will cite in public in the coming months a number of

personal texts of some imprisoned comrades of the Conspiracy Nuclei of Fire (Olga

Economidou, George Polydoros, Christos and Gerasimos Tsakalos).

The experiences, concerns and the prospect of the project of an anarchist group through personal

narratives are no instructions for the armed practice, but certainly have to contribute to the debate

on the urban guerrilla and its propulsion. Besides, the experience cannot be transferred. That ‘s why

the bet is to move from theory to action.

As an initiation of this discussion we ‘ll publicize in a few days the pamphlet of comrade in

Conspiracy of Cells of Fire Gerasimos Tsakalos ”Individualities and Anarchist Groups “which will

soon be released in print … From reading … to complicity …

Conspiracy of Cells of Fire – Urban Guerilla Cell.

Informal Anarchist Federation – F.A.I.

RISPOSTA AD HANNIBAL

ANTI

Sono stato molto indeciso sul rispondere o meno a questo scritto, ma solo per il semplice fatto che certe “amenità” (riciclando il tuo termine) non meriterebbero nemmeno risposta. Rispondo con la speranza di aprire qualche spunto di riflessione, perché dal tuo scritto non escono né spunti di riflessione, né critiche costruttive sulle quali ragionare, anche se so che sarà difficile, perché quando bisogna cambiare le proprie abitudini personali si tende spesso (a volte inconsciamente, a volte no) a resistere al cambiamento. Partiamo dalla frase con la quale cominci: “Cattiverie gratuite a parte, chi scrive queste note ha scelto una vita di lotta, scontro, violenza, galera perché sente dentro si sé un senso di empatia verso tutti gli oppressi e di odio verso tutti i padroni, a partire dai miei.” Già qua ci sono contradizioni. Dove senti quest’empatia verso TUTTI  gli oppressi mentre ti nutri ed appoggi lo sfruttamento proprio dei piú oppressi tra gli oppressi?(e difendi pure questa idea…).Quale odio verso i tutti i padroni se ti ergi proprio a padrone delle vite e dei corpi degli animali non umani?

Per quel che riguarda  il tuo discorso sul fatto che i vegani siano “a Milano” o comunque provenienti da grandi città ti devo contraddire ancora. Il maggior numero di vegani è nelle zone degli appennini toscani  e nella bassa bergamasca, luoghi non proprio “metropolitani”. Poi essendo io stesso un “montanaro” posso dirti che forse tra “i montanari” è piú difficile fare passare certi messaggi, proprio per il discorso fatto nel comunicato sui benefit sulle  “strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società” che sono ancora piú radicate  in noi “montanari”. Altra considerazione da fare è che spessissimo la scelta di diventare vegani spinge all’autoproduzione e allo “scappare dalle città” scegliendo per l’appunto la campagna o la montagna. L’uscita da te fatta “sui sentieri tracciati dai cacciatori utilizzabili come vie di fuga dopo le azioni ” non la commenterei neanche, solo che è una scusa che non avevo mai sentito, quindi ti do voto 10 per l’originalità.

Il veganismo come atto politico è una scelta anticapitalista ed antiautoritaria e non si pone come “obbligo morale” perché nessuna lotta antiautoritaria potrebbe porsi in questo modo. Non si tratta di amore verso gli animali non umani, non si dice che bisogna amarli per forza, ma riconoscerli come individui con lo stesso diritto alla libertà che auspichiamo per tutt* noi. Conosco compagn* che degli animali se ne fregano altamente e non hanno i un minimo di empatia verso di essi, ma nonostante ció sono vegani solo ed unicamente come atto politico (discorso che forse non è chiaro  a molt* compagn*).

Come ci si puó dichiarare antiautoritari e cibarsi di brandelli di individui imprigionati,sfruttati ed uccisi? Perchè l’autoritarismo e le gerarchie le vogliamo distruggere,o sbaglio?

Poi nel tuo quadro generale noto nettamente che hai le idee molto,molto confuse( per non dire totalmente errate) su cosa sia l’antispecismo. Non è assolutamente un “Peace & Love” come  da te descritto ,non è roba da freakkettoni, non so dove tu ti sia informato, ma sei informato veramente male.

Le pratiche d’azione sono le medesime degli anarchici, perché l’antispecismo ha le sue radici anche nell’anarchismo verde .Tenti di  creare una sorta di divisione con una frase tipo “Insomma abbiamo di fronte due realtà. Da una parte l’antagonismo, col suo modo di vestire, col suo modo di mangiare, col suo modo di parlare; dall’altra chi è rivoluzionario e lotta con le armi per abbattere lo Stato e sterminare i padroni. Da un lato la forma, dall’altro la sostanza ”scordandoti che peró gli antispecisti sono anche compagn* con i quali si dividono le strade, le lotte, la repressione, la prigionia, le azioni ed anche le modalità di agire. Una differenza forse potrebbe essere nel fatto che nelle azioni di sabotaggio a volte, oltre che cercare di causare il maggior danno economico possibile,si porti in salvo qualche vita. Parlo per me personalmente, ma anche per quei fratelli e sorelle di lotta con i quali ho il piacere di confrontarmi. Nessuno di noi è contro l’uso della forza o della violenza per distruggere lo stato ed il capitalismo. Ed ora veniamo alla conclusione del tuo scritto, la parte sui prigionieri, cosa che sinceramente mi ha spiazzato di piú :  tu contrapponi  una tipologia di prigionier* con quella che secondo te è la mentalità antispecista, come se da una parte ci fossero i duri che agiscono con la forza e dall’altra i pacifisti che vogliono solo parlare e teorizzare. Come se da parte antispecista mancasse solidarietà e complicità verso i prigionieri anarchici (lo siamo noi stessi anarchici!) e come se a marcire in quelle galere non ci fossero anche compagn* antispecist*.Ci sono forse prigionier* di serie A e prigionier* di serie B? Per me rimangono fratelli e sorelle imprigionati, in un certo modo e per motivazioni differenti, proprio come gli animali non umani imprigionati negli allevamenti. Questo farà storcere il naso, ma la realtà è questa, se si vogliono abbattere le gabbie, bisogna volerle abbattere tutte, cominciando da quelle mentali che non ti fanno vedere l’essere a tua volta lo sfruttatore ed il boia.

Concludo riportando un pezzo di un volantino che distribuiamo con il collettivo al quale appartengo alle nostre iniziative:

“Solo riconoscendo loro lo status di soggetti, e non di oggetti, non ci si comporterà da sfruttatore e nemmeno ci si renderà complici di siffatte torture. E il mangiar brandelli di una animale in questo preciso contesto storico, politico e culturale, non è compiacere le logiche di dominio che trovano negli animali non umani schiavi incapaci di ribellarsi, non per condizione mentale ma fisica? Non è forse su di essi che lo sfruttato diventa a sua volta sfruttatore come per una sorta di rivalsa? Il ritornello “Io voglio mangiare quello che mi piace” sarebbe ammissibile in un mondo privo da ogni forma di dominio, un mondo di cui delle gabbie sono rimaste solo le macerie ma dovremmo essere realisti e constatare che è impossibile in questa società rimanere neutrali, che “ogni singolo individuo può cambiare le cose, il modo in cui le cambiamo dipende da noi, perchè la scelta è nostra.” E’ il nostro agire quotidiano che permette alla teoria di svestire i panni della retorica per divenire azione, quell’incantevole parola in bocca a tanti anarchici. Il veganismo non rappresenta altro se non un’azione di libertà in questo mondo di prigioni.”

 

Le lotte non sono separate

Liberazione totale

 

Un veganarchico

 

DISSOCIAZIONE-A-DELINQUERE

 

dissociazione

Il primo Febbraio, l’agenzia ANSA ha battuto una notizia nella quale si comunicava che Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ex militanti delle Brigate Rosse, avrebbero a breve presenziato ad un seminario della Scuola della Magistratura, intervenendo sul tema della giustizia ripartiva e sulle alternative alla pena (per inciso, il polverone suscitato dalla notizia ha fatto sì che venisse cancellato l’intervento di Faranda e Bonisoli).

Curiosamente, più o meno contestualmente – nel silenzio di piombo degli organi di comunicazione di movimento – il militante anarchico Alfredo Cospito batteva dal carcere una lettera aperta intitolata “Su etica, sabotaggio e terrorismo” nella quale si rivolgeva ad alcuni giovani no-tav e, per estensione, all’area variegata e magmatica dei “compagni” sollevando una questione mica da poco: la presa di distanza, da parte della totalità degli imputati per azioni di sabotaggio legate alla questione della tav, nei confronti di tutto ciò che vada oltre la categoria del “sabotaggio”; un “tutto” che andrebbe a finire dritto dritto nel calderone del “terrorismo” e quindi, nemmeno troppo implicitamente, nella pentola della criminalizzazione, facendo buon gioco alla borghesia ed alla sua pletora di giudici, magistrati, tribuni e novelli Torquemada.

Al di là dell’apparente distanza (generazionale, ma anche ideologica) tra i soggetti coinvolti nei due episodi sopra citati, appare a mio avviso significativo il “filo nero” che lega i fatti sollevati da Cospito alla proposta di collaborazione con le istituzioni offerta dal duo Faranda/Bonisoli: la dissociazione.

Non che la dissociazione sia un tema di cui non si sia ampiamente parlato nell’ultimo trentennio, ma ciò che rileva è l’introiettamento di tale categoria negli interstizi stessi delle soggettività che, apparentemente, vorrebbero porsi come l’alternativa sistemica allo stato di cose presente.

E’ben noto, a chi ha qualche capello bianco come me, l’impatto devastante che la dissociazione, ben più del pentitismo, e la legge Gozzini che di essa è subdola propaggine, abbia avuto rispetto allo smantellamento delle organizzazioni combattenti all’alba degli anni Ottanta. Quando il terzetto Curcio/Moretti/Balzerani dichiarò nel clamore dei media che le Brigate Rosse si estinguevano con la loro resa, fottendosene bellamente di chi dentro quell’organizzazione continuava a militare, tenendo botta in una situazione durissima caratterizzata anche da sistematiche torture nei confronti di chiunque fosse anche solo sospettato di “flirtare” con la lotta armata; ebbene quando i tre moschettieri della sconfitta usarono le telecamere per entrare in sinergia con quello da loro un tempo chiamato Stato Imperialista delle Multinazionali per riconoscerne di fatto la vittoria e per cancellare un’esperienza contraddittoria e non lineare, ma comunque dignitosa e totalizzante per chi l’aveva vissuta sulla propria pelle, la valanga della dissociazione stava solo iniziando a travolgere quel che restava del movimento antagonista (non solo armato) del quale oggi non restano che macerie.

Oggi è del tutto normale che i figli ed i nipoti della componente più grettamente venduta di quel movimento (fu proprio Faranda ad indicare di fatto il nome di Maccari ai magistrati – e sappiamo che Maccari di carcere finì per morirci, a differenza della bella Adriana che è ancora viva e vegeta e zompetta allegramente di salotto in salotto – ) prendano le distanze dai “terroristi”, che essi siano anarchici, comunisti o semplicemente ribelli. E’ del tutto normale che personaggi come Curcio vengano idolatrati da vaste aree di movimento mentre il silenzio tombale cala su Cospito, su Lioce, sulla memoria di Mario Galesi e di chi ha combattuto armi in pugno lo stato pagandone lo scotto estremo.

Qui non si tratta di fare apologia di alcunché, ma di mettere i puntini sulle i.

Pur non entrando nel merito delle valutazioni politiche generali dell’autore del testo “su etica, sabotaggio e terrorismo”, il fatto è lampante agli occhi di chi non vuole farsi accecare dalle paillettes multicolorate dell’ipocrisia: lo Stato ha vinto e continuerà a vincere fino a quando non si recupererà un sentire comune, un afflato unitario fra le pur legittimamente diverse sensibilità che animano lo scontro politico e sociale. Un afflato unitario caratterizzato da due paletti imprescindibili: la rottura con lo stato e la solidarietà nei confronti di chi lo combatte.

Se la lotta alla tav è parte di un pluriverso di opzioni conflittuali, è bene che nessuno se ne arroghi l’esclusiva di mezzi e metodi d’intervento. E che nessuno esprima una opzione ad excludendum nei confronti delle soggettività che ritengano opportuno il salto di qualità sul piano del metodo prima ancora che sul terreno organizzativo.

La formula vincente non esiste ed il desolante quadro d’insieme del “movimento” e delle soggettività antagoniste ne è specchio implacabile. Ma certamente, la formula perdente è quella della criminalizzazione dell’altro da sé, dell’espulsione dell’opzione più combattiva dall’alveo di ciò che “è possibile”, dell’oggettiva convergenza con gli apparati istituzionali nel riconoscimento di ciò che è legittimo e di ciò che va indicato come estraneo, quindi di fatto come nemico.

Provocatori oggettivi, si sarebbe detto un tempo nei confronti di chi delegittimava.

Dissociati, dico io.

Proprio come Faranda e Bonisoli, quelli del seminario alla scuola dei magistrati.

Gli stessi magistrati sotto la cui toga si nasconde il volto putrescente dello stato.

Roberto, un compagno di Roma

Il digiuno prima della battaglia – Intorno alla polemica sulla carne durante i benefit

 

 

 

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Questo contributo è in riferimento al comunicato:https://thehole.noblogs.org/post/2016/02/06/benefit-per-lei-prigionier-solidali-con-alcun-oppressori-con-altr/

 

“Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

dove ognuno sia gia` pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore

e vedere di nascosto l’effetto che fa”

Jannacci

 

Cattiverie gratuite a parte, chi scrive queste note ha scelto una vita di lotta, scontro, violenza, galera perché sente dentro si sé un senso di empatia verso tutti gli oppressi e di odio verso tutti i padroni, a partire dai miei.

A spingermi a polemizzare però è l’ennesima esternazione di apparente estremismo vegan che pretenderebbe di decidere cosa devono mangiare le compagne ed i compagni che partecipano ad una iniziativa benefit. Il prossimo passo quale sarà? Decidere pure cosa debbono mangiare i prigionieri? Altrimenti niente soldi, così che con quel denaro non si commettano assassinii?

Siamo alla teologia!

Mi ritornano in mente le parole di un compagno più grande dell’appennino tosco-emiliano che si divertiva a traumatizzare le giovani leve vegane dicendo loro: se non hai mai sgozzato un agnello come potrai mai sgozzare un uomo?

Sì perché, al netto della brutalità, è di questo che parliamo.

Da qui ne discendono tante amenità sul “colpire le cose e non le persone”.

Naturalmente ci sono tantissime e tantissimi vegan che sono dei combattenti indomiti, ma il mio timore è che, in termini generali, tutto questo amore verso la vita si traduca questo sì in una civilizzazione dei nostri rapporti con il nemico.

Perché un industriale, un magistrato, un poliziotto, è anche lui un animale (probabilmente un porco – facile battutaccia). Quindi non è antispecista fargli del male. Di questo livello anche gli scontri di piazza diventeranno nella retorica pseudo-radicale una espressione di specismo. Povere bestie in divisa! (c’è già chi lo ha detto dopo il Primo Maggio NO EXPO).

Insomma abbiamo di fronte due realtà. Da una parte l’antagonismo, col suo modo di vestire, col suo modo di mangiare, col suo modo di parlare; dall’altra chi è rivoluzionario e lotta con le armi per abbattere lo Stato e sterminare i padroni. Da un lato la forma, dall’altro la sostanza.

Tutto questo ben lungi dal radicalizzare davvero lo scontro provoca invece una civilizzazione dei rapporti col nemico. Non sarà un caso se la gran parte dei vegan vivono nelle metropoli, mentre i luoghi che più resistono alla civilizzazione sono anche pieni di pastori, cacciatori, pescatori.

So che alcuni fra i più montanari dei lettori capiranno quel che dico quando chiedo: quante volte ci siamo avvicinati ad un obbiettivo, l’abbiamo attaccato e siamo fuggiti, mano nella mano, dopo l’azione, passando per i boschi, seguendo i sentieri dei cacciatori che abbiamo imparato col nonno? quanti di noi, sempre fra i più montanari, hanno sparato letteralmente i loro primi colpi con quel vecchio schioppo che teneva in cantina? quanti hanno fantasticato sulla guerriglia partigiana mentre camminavano, strisciavano, si appostavano lungo i sentieri dell’appennino con i proprio vecchi a caccia?

Queste sono cose che possono capire solo quei ribelli che sono cresciuti fra le montagne. Chi è cresciuto nel cemento può solo fantasticare su una natura che non esiste. Coloro che ancora oggi vivono lontano dalla civiltà sono coloro che meno aderiscono alla dommatica prescritta dal veganesimo metropolitano nel loro vivere quotidiano.

Se qualcuno crede sinceramente alla lotta alla civilizzazione dovrà pur sentire la necessità di domandarsi: come mai ci sono più vegan a Milano che nei Monti Sibillini?

C’è un passaggio in particolare molto importante del comunicato contro la carne alle iniziative benefit.

 

“I nostri spazi, liberati dal mondo e dalla società capitalistica, fino a che punto sono veramente liberi?

La lotta non è, e non deve essere, rivolta solo contro l’esterno. Deve essere rivolta anche al nostro interno, contro le pratiche di abuso e di potere che spesso, più o meno inconsciamente, reiteriamo a nostra volta nei confronti di noi stess*, delle/dei compagn* e negli spazi liberati. Quella contro noi stess*, contro le strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società, è forse la lotta più difficile da combattere.”

 

 

Queste sono frasi profonde che in molti sentono loro. Ebbene sono totalmente errate. Perché che la lotta più difficile da combattere sia quella interiore lo si vada a dire a quei rivoluzionari che sono morti, che marciscono in galera, che sono stati torturati (ad esempio durante il sequestro Dozier, quando dei BR vennero torturati, una compagnia stuprata con una bottiglia e un compagno costretto a guardare). E basta con queste menate frikkettone sulla lotta interiore!

Spesso anzi la coerenza diventa un alibi per non fare di più. Perché se io devo aspettare di essere coerente nel linguaggio, nel mangiare, nel pensare e solo POI agire…ebbene allora, poiché la coerenza assoluta non esiste, non farò mai un cazzo.

Io invece agisco PRIMA non DOPO aver conquistato la coerenza. La coerenza la costruisco nella battaglia. Io sono un individuo pieno di contraddizioni che non aspetta di risolverle, astrattamente, col digiuno, per diventare migliore. Io le contraddizioni me le porto dentro ed agisco QUI ED ORA. Sono portatore di contraddizioni, esplodono con la dinamite.

La loro soluzione è un fatto concreto, reale; avviene nel mondo della lotta reale, il mondo dove un oppresso si arma contro il proprio sfruttatore. Non è preliminare allo scontro.

D’altronde non è questione di lana caprina. La questione del “prima cambio dentro e poi fuori” o del “qui ed ora mi armo con altri oppressi a me affini per farla pagare ai padroni” è da sempre la questione che ha diviso il mondo dell’autonomia, dell’antagonismo, del femminismo, dell’antagonismo, dell’animalismo, ecc., … dal mondo della lotta armata.

E siccome stiamo parlando di compagni che la lotta con le armi, e non con la dieta, l’hanno fatta o sono accusati di averla fatta, pregherei di avere un po’ meno arroganza nel pretendere di imporre agli altri cosa devono mangiare o non mangiare.

 

Hannibal Lecter

Benefit per le/i prigionier*: solidali con alcun*, oppressori con altr*

antispe

“…le ossa, il grasso, i muscoli e i tessuti di esseri che un tempo sono stati vivi e che sono stati massacrati per assicurarsi parti dei loro corpi. Questa scena vi travolge e, di colpo, scoppiate a piangere. Il dolore, la tristezza, lo shock vi sopraffanno, magari anche soltanto per pochi istanti. E, per un attimo, siete in lutto, siete in lutto per tutti gli animali senza nome che stanno di fronte a voi.”

 

James Stanescu, Questione di specie

 

 

La catena alimentare, la legge della natura, l’oppressione del più forte verso il più debole, la disuguaglianza, il dominio: il nostro è un mondo basato sulla prevaricazione che noi non accettiamo.

 

C’è chi dona la propria vita per un mondo liberato: tant* sono le/i compagn* che ci hanno lasciato e che ci lasceranno, uccis* o schiacciat* da una realtà che ci opprime ogni giorno. Tant* altr*, sacrificando la propria vita, finiscono in carcere: in gabbia. Dedichiamo la nostra esistenza a combattere le ingiustizie messe in atto dai più forti e spesso ci sentiamo impotenti di fronte a tanta violenza. Mentre siamo impegnati nelle nostre lotte, dobbiamo fare i conti anche con la repressione, facendo sentire meno soli le/i prigionier* con lettere, presidi sotto le carceri, iniziative e benefit per pagare le spese legali. Spesso, però, in questi benefit si serve carne, probabilmente perché ci si dimentica, o forse, più superficialmente, non si pensa che il contenuto di questo o quel piatto prima era un animale, un essere vivo e senziente come noi e come noi pieno di aspettative di vita, pensieri, felicità, tristezze e desideri. Istinto di libertà.

 

Come si può lottare per la libertà sfruttando la schiavitù di altri esseri che, come noi, desiderano solo essere liberi?

 

Finiamo in carcere perché non vogliamo un mondo di oppressione, senza renderci conto che, spesso, siamo noi gli oppressori. Accettare questo dato di fatto è il primo passo verso una consapevolezza generale che può permettere di realizzare un cambiamento, il cambiamento: quello verso la liberazione totale. La società in cui viviamo rende impossibile una vera coerenza, ma ciò non può e non deve sminuire i piccoli e i grandi passi che facciamo, possiamo e dobbiamo fare, se davvero vogliamo che la liberazione totale non sia un semplice slogan, ma diventi una realtà.

 

I nostri spazi, liberati dal mondo e dalla società capitalistica, fino a che punto sono veramente liberi?

 

La lotta non è, e non deve essere, rivolta solo contro l’esterno. Deve essere rivolta anche al nostro interno, contro le pratiche di abuso e di potere che spesso, più o meno inconsciamente, reiteriamo a nostra volta nei confronti di noi stess*, delle/dei compagn* e negli spazi liberati. Quella contro noi stess*, contro le strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società, è forse la lotta più difficile da combattere. Ci impegniamo con tutte le forze per cambiare modo di vivere, per adottare un linguaggio, per intrecciare relazioni dove non ci sia posto per idee razziste e fasciste, machiste e maschiliste, omofobe e capitaliste. Siamo empatici con i deboli e con chi viene sopraffatto, perché apparteniamo tutti a una grande categoria: quella delle/degli oppress*, delle/degli sfruttat*.

 

Il rifiuto di collocarsi e collocare altr* in una scala gerarchica non può essere la scelta individuale di un singolo. Se così fosse, ne conseguirebbe che potremmo accettare e perfino rispettare ogni tipo di comportamento fascista. È una scelta che coinvolge necessariamente le/gli altr*, una scelta politica. Decidere di non cucinare e mangiare cibo ottenuto dallo sfruttamento e dalla morte degli animali è prima di tutto, infatti, una scelta politica, un’azione diretta e concreta contro ogni dominio. In quei piatti ci sono violenza e sfruttamento, la stessa violenza e lo stesso sfruttamento che ci consumano ogni giorno, sottraendoci tempo, vita e salute, trasformandoci in prodotti selezionabili nei banchi di quel supermercato chiamato capitalismo.

 

Rifiutarsi di consumare qualsiasi prodotto derivato dalla schiavitù e dalla prigionia di altri individui, umani e non umani, è l’unico modo per sottrarsi alla struttura oppressiva di ogni gerarchia, per eliminare definitivamente ogni forma di sfruttamento e di dominio dalle nostre pratiche politiche. Distruggiamo tutte le prigioni, non solo quelle degli animali umani.

 

Perché fino a quando esisteranno gabbie e sbarre, nessun* potrà mai essere liber*.

 

Alcune individualità antispeciste – azione-antispecista@krutt.org