dissociazione

Il primo Febbraio, l’agenzia ANSA ha battuto una notizia nella quale si comunicava che Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ex militanti delle Brigate Rosse, avrebbero a breve presenziato ad un seminario della Scuola della Magistratura, intervenendo sul tema della giustizia ripartiva e sulle alternative alla pena (per inciso, il polverone suscitato dalla notizia ha fatto sì che venisse cancellato l’intervento di Faranda e Bonisoli).

Curiosamente, più o meno contestualmente – nel silenzio di piombo degli organi di comunicazione di movimento – il militante anarchico Alfredo Cospito batteva dal carcere una lettera aperta intitolata “Su etica, sabotaggio e terrorismo” nella quale si rivolgeva ad alcuni giovani no-tav e, per estensione, all’area variegata e magmatica dei “compagni” sollevando una questione mica da poco: la presa di distanza, da parte della totalità degli imputati per azioni di sabotaggio legate alla questione della tav, nei confronti di tutto ciò che vada oltre la categoria del “sabotaggio”; un “tutto” che andrebbe a finire dritto dritto nel calderone del “terrorismo” e quindi, nemmeno troppo implicitamente, nella pentola della criminalizzazione, facendo buon gioco alla borghesia ed alla sua pletora di giudici, magistrati, tribuni e novelli Torquemada.

Al di là dell’apparente distanza (generazionale, ma anche ideologica) tra i soggetti coinvolti nei due episodi sopra citati, appare a mio avviso significativo il “filo nero” che lega i fatti sollevati da Cospito alla proposta di collaborazione con le istituzioni offerta dal duo Faranda/Bonisoli: la dissociazione.

Non che la dissociazione sia un tema di cui non si sia ampiamente parlato nell’ultimo trentennio, ma ciò che rileva è l’introiettamento di tale categoria negli interstizi stessi delle soggettività che, apparentemente, vorrebbero porsi come l’alternativa sistemica allo stato di cose presente.

E’ben noto, a chi ha qualche capello bianco come me, l’impatto devastante che la dissociazione, ben più del pentitismo, e la legge Gozzini che di essa è subdola propaggine, abbia avuto rispetto allo smantellamento delle organizzazioni combattenti all’alba degli anni Ottanta. Quando il terzetto Curcio/Moretti/Balzerani dichiarò nel clamore dei media che le Brigate Rosse si estinguevano con la loro resa, fottendosene bellamente di chi dentro quell’organizzazione continuava a militare, tenendo botta in una situazione durissima caratterizzata anche da sistematiche torture nei confronti di chiunque fosse anche solo sospettato di “flirtare” con la lotta armata; ebbene quando i tre moschettieri della sconfitta usarono le telecamere per entrare in sinergia con quello da loro un tempo chiamato Stato Imperialista delle Multinazionali per riconoscerne di fatto la vittoria e per cancellare un’esperienza contraddittoria e non lineare, ma comunque dignitosa e totalizzante per chi l’aveva vissuta sulla propria pelle, la valanga della dissociazione stava solo iniziando a travolgere quel che restava del movimento antagonista (non solo armato) del quale oggi non restano che macerie.

Oggi è del tutto normale che i figli ed i nipoti della componente più grettamente venduta di quel movimento (fu proprio Faranda ad indicare di fatto il nome di Maccari ai magistrati – e sappiamo che Maccari di carcere finì per morirci, a differenza della bella Adriana che è ancora viva e vegeta e zompetta allegramente di salotto in salotto – ) prendano le distanze dai “terroristi”, che essi siano anarchici, comunisti o semplicemente ribelli. E’ del tutto normale che personaggi come Curcio vengano idolatrati da vaste aree di movimento mentre il silenzio tombale cala su Cospito, su Lioce, sulla memoria di Mario Galesi e di chi ha combattuto armi in pugno lo stato pagandone lo scotto estremo.

Qui non si tratta di fare apologia di alcunché, ma di mettere i puntini sulle i.

Pur non entrando nel merito delle valutazioni politiche generali dell’autore del testo “su etica, sabotaggio e terrorismo”, il fatto è lampante agli occhi di chi non vuole farsi accecare dalle paillettes multicolorate dell’ipocrisia: lo Stato ha vinto e continuerà a vincere fino a quando non si recupererà un sentire comune, un afflato unitario fra le pur legittimamente diverse sensibilità che animano lo scontro politico e sociale. Un afflato unitario caratterizzato da due paletti imprescindibili: la rottura con lo stato e la solidarietà nei confronti di chi lo combatte.

Se la lotta alla tav è parte di un pluriverso di opzioni conflittuali, è bene che nessuno se ne arroghi l’esclusiva di mezzi e metodi d’intervento. E che nessuno esprima una opzione ad excludendum nei confronti delle soggettività che ritengano opportuno il salto di qualità sul piano del metodo prima ancora che sul terreno organizzativo.

La formula vincente non esiste ed il desolante quadro d’insieme del “movimento” e delle soggettività antagoniste ne è specchio implacabile. Ma certamente, la formula perdente è quella della criminalizzazione dell’altro da sé, dell’espulsione dell’opzione più combattiva dall’alveo di ciò che “è possibile”, dell’oggettiva convergenza con gli apparati istituzionali nel riconoscimento di ciò che è legittimo e di ciò che va indicato come estraneo, quindi di fatto come nemico.

Provocatori oggettivi, si sarebbe detto un tempo nei confronti di chi delegittimava.

Dissociati, dico io.

Proprio come Faranda e Bonisoli, quelli del seminario alla scuola dei magistrati.

Gli stessi magistrati sotto la cui toga si nasconde il volto putrescente dello stato.

Roberto, un compagno di Roma