Posts by thehole

204: La Paura cambi di campo

 

 

 

 

 

“Si istituiscono processi agliAnarchici
per quello che gli Anarchici sono, nemici dello stato”.
Anna Beniamino

Chi ha fatto dell’anarchia un atto deflagrante e ha gioito nel momento nel momento di rottura totale con l’ordine imposto non si fermerà neanche di fronte alla richiesta di 204 anni carcere da parte di un servo frustato.
204 sono, infatti, gli anni complessivi richiesti per i nostri compagni dello Scripta Manent.
A tutti loro va sempre più forte e salda la nostra complicità e affinità. Allo Stato e ai suoi servi la promessa del nostro odio eterno.

Per l’Anarchia!

SUL BATTELLO EBBRO DELLE NUOVE INSURREZIONI di Luca G.

Scritto in data 06/12/2018

SUL BATTELLO EBBRO DELLE NUOVE INSURREZIONI di Luca G.

 

C’è nell’aria nuova un vecchio odore di rivolta

Armi nelle mani di chi vive un’altra volta.

(Stigmathe)

 

Qualcosa di antico ma inaspettatamente nuovo scuote il vecchio mondo da qualche anno a questa parte.

Piazza Syntagma, Gezi Park, le rivolte in medio-oriente ieri, i “gilet jaunes” in Francia oggi: arriva di soppiatto, infetta distrugge e poi sparisce lasciando però segni indelebili sui muri delle città e sulle esistenze di chi la vive.

Brevemente e ancora incagliato fra l’ottusa stupidità delle narrazioni del tempo sulle contrapposizioni tra piazze di destra e piazze di sinistra vorrei provare a parlare del risveglio di una mai sopita voglia di libertà a dispetto di ogni dispositivo di potere e di ogni illusione di pacificazione, al di là delle “divise” e delle singole rivendicazioni.

Perché il punto non è la provincia o l’impero, la destra o la sinistra, l’organizzazione o lo spontaneismo, il punto è il fuoco.

 

AL FUOCO! o del perché la rivolta non bussa ma entra sicura

 

Marinus, Marinus, hörst Du mich?

Marinus, Du warst es nicht

es war König Feurio!

 

(Einsturzende Neubauten)

 

Partiamo dalla grigia cronaca del fatto: dopo l’aumento delle aliquote della benzina voluta da Macròn (ovvia operazione di greenwashing che va a discapito delle classi meno abbienti), in Francia grazie al tamtam di Facebook si sviluppa un grande movimento caratterizzato dal portare il giubbotto catarifrangente da indossare in autostrada.

Il 17 novembre questo strano movimento opera più di 2000 blocchi stradali, la settimana successiva una serie di cortei selvaggi si scontra con la polizia a Parigi, il movimento cresce in Francia assumendo di volta in volta connotati più fascistoidi (compresa l’infame e schifosa denuncia nei confronti di alcuni migranti nascosti in un camion) o più rivoluzionari. Successivamente, si sviluppa in maniera farsesca e reazionaria in Italia e più seriamente in Belgio, dove a Bruxelles si verificano grossi scontri con la polizia il 30 novembre.

Il giorno dopo a Parigi è sommossa generale: la polizia deve ripiegare più volte, macchine e negozi dati alle fiamme, licei occupati.

Il 4 dicembre Macròn decide di non aumentare più il prezzo della benzina.

In questa situazione di difficilissima da decifrare e problematica da rivendicare, si presenta l’ospite più inquietante: la rivolta.

Sei un lavoratore piccolo-borghese, forse di destra, forse liberale, che sta protestando perché oltre a subire da una vita lo sfruttamento, dovrà pagare ancora di più per andarci.

Sei una camionista che rischia la vita sulle autostrade ogni giorno, cui le aziende per cui lavori neanche rimborsano la benzina sprecata.

Sei una giovane studentessa che gli anni scorsi si è battuta contro gli sbirri per abolire la Loi Travail del socialista Hollande, e ancora ricordi i bei momenti di complicità coi tuoi compagni e le tue compagne a dispetto dello stato d’emergenza emanato nel 2015.

Sei un algerino di terza generazione e vivi in una banlieu un po’ come capita, nella tua memoria sono ben vivi i ricordi dei soprusi dei flics contro i tuoi amici, le tue amiche, i tuoi parenti.

Sei una compagna libertaria, una “zadista”, memore della strenua resistenza e del vivere altro di Notre Dame des Landes.

Parigi si blocca grazie ai camionisti e ai piccolo-borghesi – dei quali non si conosce il pensiero e che magari nutre in sè abissi spaventosi – ma quando arriva la polizia a disperderli ci sono tutte e tutti gli altri.

La rabbia per una vita passata a sopravvivere accomuna, per una volta, vite altrimenti distantissime.

Gli scontri con la polizia superano ben presto le loro rivendicazioni riformiste che i loro partigiani a distanza snocciolano a ogni piè spinto, in quell’assurda logica per cui le richieste siano più importanti della vita presente.

Non importa più il motivo in mezzo alla sommossa, giacché la rivolta parla una lingua a sé stante.

 

Nel 1778 il Parlamento Inglese emana il Catholic Relief Act, un provvedimento che attenua le discriminazioni nei confronti dei cattolici.

Il 2 giugno del 1780 il Lord conservatore George Gordon convoca una manifestazione per convincere la Camera a ritirare il provvedimento; al suo rifiuto, la folla si riversa nelle strade.

In 7 giorni di sommossa il carattere esplicitamente reazionario delle rivendicazioni originali viene superato e in larga parte abolito da una rivolta furiosa che assalta le caserme, distrugge le carceri e dà fuoco alle carceri: la plebe inizialmente fomentata da ingiuste richieste s’inebria della possibilità della distruzione.

Nei primi mesi del 1898 in Italia si verificano i “moti del pane”: dopo l’aumento del prezzo voluto dal governo Rudinì, fra gennaio e luglio ogni città verrà messa a ferro e fuoco dalla popolazione, tanto che a Milano il tristemente famoso Bava Beccaris ordinerà di cannoneggiare la folla in tumulto.

Nel gennaio 1921 la Russia viene scossa per 9 giorni dall’affaire Kronstadt, cittadella militare fortificata che tanto nel 1905 quanto nel 17 era stato, nelle parole di quel Trotskij che ne sarà boia, “valore e gloria della Russia rivoluzionaria”.

Affamati dal comunismo di guerra e stufi del controllo repressivo della Ceka i marinai di Kronstadt formano un comitato, in prevalenza menscevico e socialrivoluzionario, e stilano una serie di richieste di stampo socialdemocratico da proporre al governo bolscevico.

Come si sa, il potere alla mitezza risponde con il disprezzo più sdegnoso, ma ad esso Kronstadt risponde con un’insurrezione in cui la parola d’ordine supera in radicalità di gran lunga le iniziali richieste: “Tutto il potere ai soviet, non ai partiti!”

Come si può notare, non è raro che una grande rivolta sorga da un contesto banalmente riformista o chiaramente reazionario, e infatti non va scordato che alcuni moti del pane avevano carattere nazionalista e un certo numero di marinai russi avevano tensioni antisemite.

Eppure, la reazione e la riforma appartengono al potere e quando la rivolta scoppia è molto facile che ogni situazione si ribalti e assuma carattere rivoluzionario (molto facile ma non certo, ricordiamo i pogrom russi ad esempio).

Sembra stia accadendo ora in Francia, dove le sommosse stanno in parte superando le contraddizioni iniziali.

 

 SENTENZIARE E PUNIRE: miseria dell’ideologia

 

 Just because I dress like this doesn’t mean I’m a communist.

 

(Billy Bragg)

 

Ecco arrivare, ad ogni moderna sommossa, i recuperatori!

Tanto la fascista Marine Le Pen quanto il “populista di sinistra” Jean Luc Melenchon hanno cercato di tirare dalla loro parte un movimento che, inizialmente, sembrava poter venir indirizzato a scopi elettorali.

Così chi guardava da lontano l’ideologia ha creato due fazioni contrapposte: “i settari e le settarie”, come il sottoscritto, che inizialmente bollavano come completamente reazionarie piccoloborghesi e prefasciste queste mobilitazioni e “partigiani e partigiane” chi se le rivendicava acriticamente, tirando fuori dal cilindro qualche frase di Lenin.

Grida nel vuoto entrambe: la pretesa nei tempi odierni di egemonizzare in senso vetero-ideologico si frantuma sullo scoglio della vita quotidiana.

Il crollo delle ideologie ha portato sì i padroni a sedersi comodamente sui propri privilegi, ma allo stesso tempo ha visto le cosiddette masse impermeabili ai discorsi politicisti.

Certo, il monopolio del recupero ce l’ha ancora il capitale, ma almeno i recuperatori della sinistra controrivoluzionaria e i militantisti vengono per lo più ignorati.

E infatti tutti sono pronti a dissociarsi: Marine Le Pen, i vertici della CGT e Melenchon hanno in brevissimo tempo condannato le “violenza” ripetendo la vecchia solfa de “i casseurs infiltrati che spaccano tutto”.

Intanto, i ridicoli partiti dell’ “estrema sinistra” cortocircuitano sulle loro grottesche posizioni: per i rossi ieri le lotte LGBTQI erano borghesi perché interclassiste, oggi i gilet gialli sono interessanti perché interclassisti. I liberali intanto urlano al fascismo, la post-disobbedienza si rivendica tutto ma nessuno le crede.

Se si fosse letto e ancor più compreso Furio Jesi in Spartakus, si capirebbe cha la rivolta supera tanto i suoi ispiratori quanto chi la vuole imbrigliare.

Ma poco importa, gli ideologi crollano sotto il peso della realtà, ed è uno dei rari conforti di questi tempi: l’ideologo è il poliziotto che frena chi capovolge l’esistente.

 

 SAVE THE CITY BURN IT DOWN: del perché la rivolta è tale solo quando è distruttiva

 

Sembra più una festa

 che un massacro di innocenti.

 

(Plastic Surgery)

 

Durante il primo maggio 2015 a Milano un manifestante, prestatosi incautamente alla telecamera, dichiara: “È stata una bella esperienza.”

La prospettiva della distruzione è, in ultima istanza, una dialettica alla portata di chiunque e desiderabile per tutt*: per l’impiegato la banca diventa il simbolo del suo sfruttamento, per il camionista la concessionaria è genitrice dei suoi mali, per la studentessa un supermercato dove spende i pochi spicci che le danno i genitori, per l’algerino il negozio di lusso è lo specchio della sua povertà, per la zadista i simboli di un capitalismo che devasta e saccheggia.

La distruzione è un momento di riappropriazione totale, anche se temporaneo, di una vita pienamente vissuta.

Parafrasando Debord, il vandalismo contro le cose le riempie di linfa vitale, ridotte come sono ad altari del culto della merce.

Queste splendide città intoccabili con le loro belle vetrine, i loro bei monumenti, le periferie chimiche e i/le senzatetto morti assiderati sul marciapiede, queste città sono la linea di separazione fra l’umano e le sue possibilità di agire nello e sullo spazio che si vive.

Il vandalismo oltrepassa questa linea e il soggetto agente reimpara a modificare l’esistente.

Non è un caso che il vandalismo è urgenza adolescenziale, il momento più furioso della vita, l’età dell’urgenza, e si sopisce con l’obbedienza e l’abitudine al compromesso della maturità.

Citando ancora lo Jesi di Spartakus: “Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate.”

 

        

MILLENIUM PEOPLE: del ceto medio impoverito e della composizione mista nelle nuove rivolte

 

Al netto dei toni trionfalistici di certi organismi della sinistra, i gilet jaunes sembravano realmente sovradeterminati dall’estrema destra.

Del resto, un “movimento” con rivendicazioni molto basse e con una composizione prevalentemente piccolo-borghese e bianca non può che far pendere l’ago della bilancia verso la reazione.

Gli ultimi anni hanno visto un continuo tentativo di larga parte del movimento alla disperata ricerca di una nuova classe di accodarsi al fenomeno populista per volgerlo in chiave rivoluzionaria: i forconi, il referendum, il malcontento l’UE, addirittura a volte alcune componenti hanno addirittura sostenuto la tesi dell'”esercito di riserva” pe strizzare l’occhio al nuovo fascismo.

Dicono che bisogna entrare nelle contraddizioni, ma anche se la prendessimo in esame nell’accezione puramente maoista del termine (che fine ha fatto il plusvalore?), non si riesce a scorgere nessun punto A o punto B, solo due borghesie- quella finanziaria e quella bottegaia- in lotta fra di loro quanto lo erano ai tempi di fascismo versus perfida Albione.

Dicono che andando incontro al malcontento popolare contro le istituzioni si può diventare massa, ma cos’è la massa? Un’idea e null’altro, un fantasma, l’equivalente del gregge cristiano. A ogni armata rossa si contrappone un’armata bianca, è il rapporto di forza a determinare la vittoria e questo non è regolato dal quantitativo, sennò ogni tentativo insurrezionale sarebbe fallito.

Se il proletariato non è altro se non la classe di chi “non ha altro da perdere se non le proprie catene” il ceto medio impoverito proletariato non è: ha ancora tutta una serie di privilegi da cui, per quanto si senta depredato dalle “elite”, non ha intenzione di staccarsi.

Oggi, se vogliamo trovare un nuovo proletariato, dobbiamo aprire gli occhi su una serie di sfruttamenti e discriminazioni diversificate e sulle soggettività che ne costituiscono la loro negazione: la persona migrante, proveniente dai ghetti del mondo, che in quanto tale porta sulle spalle il peso di secoli di sfruttamento e l’abolizione dell’istituzione autoritaria chiamata “Nazione”; la soggettività queer, vittima di discriminazione e recuperi continui, che con la sua stessa corporeità nega il dominio patriarcale e l’istituzione borghese della famiglia nucleare; la vittima del lavoro nero, fenomeno endemico nelle società valoriali e più alta contraddizione fra “Legge” e “mercato”; la persona disoccupata e/o precaria, simbolo di un mondo che obbliga al lavoro e al contempo costruisce le basi per far morire di fame.

Niente a che vedere con le moltitudini di negriana memoria però, perché tutte queste soggettività vanno a costruire una reale classe globale che s’inscrive perfettamente in quella del proletariato, e che può mutare facilmente un contesto a forte rischio reazionario in insurrezionale.

Infatti i gilet gialli sono cominciati a diventare attraversabili dalle soggettività in lotta – e quindi a costruire situazioni pre-insurrezionali – solo dove la composizione era più diversificata come a Parigi dove studenti e studentesse, militanti rivoluzionari/e e soprattutto abitanti delle banlieue hanno partecipato alle rivolte.

Questo non è successo in altre zone più “bianche” e più colonizzate dal Front National, e non è successo in Italia con il movimento dei forconi, proprio per la limitatezza della sua composizione.

Il fenomeno del proletariato misto è ben visibile anche in Italia, dove i momenti più radicali nelle lotte non “militanti” si verificano nella logistica, nel settore degli “smart works” (ad esempio i rider) dove la composizione “etnica” è molto diversificata, o dove la soggettività migrante è predominante come nei lager CPR e nelle carceri, in cui le rivolte, seppur di minor spessore dato il contesto e meno spettacolarizzate, non hanno nulla di invidiare a quelle francesi.

Un discorso di classe non può prescindere dalla presa d’atte che le classi sono mutate, pena il seguire le orme del populismo reazionario dimenticando un discorso di liberazione totale, la completa scomparsa, il trionfo della morte.

 

LANCIANDO IL SASSO PIÙ IN LÀ: come salire sul battello ebbro

Nothing ever burns down by itself, every fire needs a little bit of help.

 

(Chumbawamba)

 

I Gilet Jaunes hanno vinto, Macròn ha ritirato la tassa.

Se continueranno con le proteste non è dato saperlo, probabilmente i recuperatori reazionari congloberanno il movimento in una nuova – per la Francia – forma di populismo di destra per la gioia dei neo-sansepolcristi di tutto il mondo.

Vada come vada, sommossa chiama sommossa e i/le giovani che ieri si battevano contro la Loi Travail oggi lo facevano insieme ai gilet gialli: agire la libertà diventa un’abitudine, lo sa chiunque abbia partecipato a un riot e si trovi a passare davanti

Azione chiama azione e, malgrado questi tempi siano caratterizzati da una palese ondata di nuovi fascismi, questi momenti di parziale e temporanea destabilizzazione sono utili per trovare complicità e alzare il livello dell’attacco, costruire situazioni tra sfruttati e sfruttate che dissolvano i rapporti di micropotere e, quando verrà il momento in cui il fascismo si paleserà completamente, ed è molto vicino, rispondere con la dovuta preparazione.

Lanciare il sasso più in là, perché da queste rivolte non nasce la rivoluzione, ma da chi oggi porta il conflitto a un livello più alto nascerà l’insurrezione di domani.

 

 

COLPIAMOLI A CASA LORO!!!Treviso: Attaccata sede della Lega (12/08/2018)

Che stia finendo la pacchia anche alla Lega e al suo seguito di “ingordi” di odio?

È solo l’inizio, in un’epoca di silenzio e indifferenza  la deflagrazione ci ha svegliato più pronti che mai a lottare con tutti i mezzi in nostro possesso contro la democrazia da Terzo Reich.

Un saluto complice alla Cellula Cellula Haris Hatzimihelakis/Internazionale nera (1881-2018)

COLPIAMOLI A CASA LORO!!!!

Stanchi di tacere, stanchi di vedere ogni giorno violenze sistematica tramite il razzismo, il sessismo, il lavoro salariato che avvengono in questa società, i cui essenziali valori sono l’autorità e il profitto. Nauseati dallo sfruttamento vediamo come principali responsabili tutti i partiti politici i quali reprimono la libertà tramite l’apparato statale, riformatore e repressivo (TV, mass-media, associazioni, esercito, protezione civile, ecc). Lo stato ed il capitale sono i più grandi criminali, infrangono persino le loro leggi rubano sotto forma di tasse, uccidono tramite la guerra e il lavoro salariato, i respingimenti in mare e nei lager per immigrati in Europa ed Africa, contaminano irreversibilmente l’uomo, gli animali ed il pianeta terra, tutto per il loro profitto e potere.

Non dimentichiamo la complicità ipocrita di questa società composta da cittadini che fingono di non vedere gli orrori del razzismo, del nazionalismo di oggi e di ieri. Questa accettazione è il pilastro del totalitarismo e della democrazia: L’autorità che si fonda sull’indifferenza, la paura, l’apatia, nel tempo ha potuto creare i Gulag, i campi di concentramento nazisti, ed oggi quelli in Libia o sotto casa nostra. E’ una storia che si ripete.

12/08/2018
All’alba, la sede della Lega a Treviso, stata attaccata con 1 ordigno, rivendichiamo la collocazione contro politici, sbirri, e loro tirapiedi. A tutto questo non vogliamo essere complici, alla violenza indiscriminata degli Stati ci opporremo con la violenza discriminata contro i responsabili di tutto ciò. La quasi totale pacificazione in Italia, dove le masse sono occupate a farsi la guerra fra poveri, uno dei nostri obiettivi è opporci alla rassegnazione, all’impotenza ed all’immobilismo. Lo Stato ed il capitale utilizzano tutte le tecniche e le violenze per distogliere l’attenzione dai veri problemi degli sfruttati e primo tra tutti l’odio tra i più deboli e diseredati, tra una frontiera ed un’altra, tra un genere un altro, tra un colore della pelle ed un altro. Va da sé che nessuna fazione di insignificanti politici autoritari sarebbe mai in grado di soddisfare i nostri desideri. State parlando di governo “giallo –verde”, di sinistra e di destra, noi vogliamo che lo stato sia distrutto. State promettendo aumenti di stipendio, tasse ridotte, posti di lavoro, noi vogliamo l’eliminazione del denaro, della merce e del lavoro. State combattendo per migliori condizioni del governo, ma noi vogliamo solo divertirci sulle rovine fiammeggianti delle vostre città. Voi fate politica, noi la guerra sociale. Le cose sono difficili, c’è un abisso esistenziale tra noi e non c’è spazio per il dialogo. Quindi tutto questo ci rende chiaro dove colpire! Attaccare nello specifico il razzismo e lo sfruttamento. Colpire lo stato, il capitale i suoi responsabili. L’azione diretta ci rende chiaro perché e come.

Per una solidarietà internazionalista, ribelle, Anarchica!
Per un mondo senza frontiere, autorità!

Salutiamo con questa azione l’invito lanciato dai compagni “cellula Santiago Maldonado” che hanno proposto di rafforzare gli attacchi alla pace dei rappresentanti e complici del dominio.
Salutiamo ogni individualità e cellula Anarchica che continua a propagare la fiamma attraverso l’azione, qui e ora!

“Oggi siamo noi a prendere in mano la fiaccola dell’anarchia, domani sarà qualcun altro. Purché non si spenga!“[1]

Solidarietà a tutte/i le/i prigioniere/i, Tamara Sol, Juan Aliste, Juan Flores, Freddy, Marcelo, J.Gan, Marius Mason, Meyer-falk, Dinos Yatzoglou, Lisa Dorfer, i membri delle CCF e Lotta Rivoluzionaria.
Agli Anarchici di Firenze, Torino, Napoli, Cagliari, Cile, Russia, Germania, Polonia, dell’operazione scripta manent.
E a tutte/i le/i ribelli rinchiuse/i nelle patrie galere nel mondo!

Cellula Haris Hatzimihelakis/Internazionale nera (1881-2018)

 

Paska: non ti aspetteremo inermi

 

Il 27 marzo la procura di Firenze ha accolto in cassazione, il ricorso dell’accusa in merito alla custodia cautelare per tentato omicidio, in relazione al ferimento dello sbirro per l’azione contro la Libreria fascista a Firenze. Il giorno seguente il nostro compagno e fratello Paska, indagato per tale reato, è stato portato in carcere a Teramo.

E’ il marzo e la procura di Firenze decide di accogliere in cassazione l’accusa nei confronti di Paska, l’ordine di custodia cautelare per tentato omicidio per i fatti accaduti contro la libreria fascista e il ferimento dello sbirro (che faceva il suo lavoro di servo e anche male ndr.)

Dunque Paska torna in carcere a Teramo, e potrei dire quanto sia infame il lavoro del giudice e di tutto l’apparato statale. Potrei anche aggiungere che tutte le galere andrebbero rase al suolo, ma rimarrebbe solo una parola scritta, e la rabbia che ci anima in queste ore, in questi giorni si trasforma in frustrazione per l’ennesimo fratello anarchico arrestato. Non sono un giudice e non mi interessano i cavilli, le leggi, le presunzioni di colpa che potremmo analizzare.

La solidarietà è fatta di “parola scritta”, ma pure, e soprattutto, di azione che veramente può abbattere le mura di ogni prigione che può cambiare i destini delle lotte.

Viviamo in tempi in cui la repressione di stato si è fatta sempre più pressante e proprio ora è il momento di tirare fuori la rabbia sopita, perché se lo stato è potente non ci deve far paura, è una lotta che si protrae dalla notte dei tempi e qualche audace l’ha pure vinta.

 

È un momento in cui scambiamo gli aguzzini ( giudici, pm) per portatori sani di democrazia, ma noi siamo anarchici, la democrazia è forse la peggiore versione di tutte le dittature esistenti. Non lasciamoci ingannare, il nemico è sempre lo stesso:Lo stato.

 

La mia affinità e complicità a Paska

Che tu possa tornare libero attraverso l’azione!

 

Sara Zappavigna

 

L’indirizzo di Paska è :

PIERLORETO FALLANCA

C.C CASTROGNO

C.DA CEPPATA 1

64100 TERAMO

 

IL FASCISTA, L’ANTIFASCISTA E IL ROBOT. QUASI UNA BARZELLETTA (IlVetriolo)

L’antifascismo sarà il peggior prodotto del fascismo

Amedeo Bordiga

Giornate di dolore, 

momenti di passione,

 ti scrivo cara mamma, 

domani ce’è l’azione

Dai monti di Sarzana, canto partigiano anarchico

 

Se questa volta scendiamo anche noi nell’agone delle insulse interpretazioni dei risultati di quell’evento miserrimo che sono le elezioni è perché, ci sembra, questa volta dalla natura dello spettacolo del teatrino della politica si possano fare delle riflessioni sui gusti di quegli spettatori che ancora si ostinano a partecipare, e quindi, in parte, sulla realtà che sta dietro la fiction. 

In primo luogo, osserviamo che quelle che sono state le elezioni con meno partecipazione della storia repubblicana, sono state anche quelle con la minore, per non dire quasi del tutto assente, “campagna astensionista”. Dopo anni di rotture di ovaie e palle su cos’è sociale cos’è antisociale, non siamo nemmeno riuscite a fare la cosa più facile: attaccare, ognuna e ognuno coi mezzi che preferisce, la fiction e provare a stare in mezzo al disgusto sempre più generale che molte persone ormai provano verso i politici; magari anche provando ad indirizzarlo verso i loro padroni.

L’unica cosa su cui si è percepito in giro un certo fermento combattivo è stato il fronte dell’antifascismo. E qui veniamo al secondo punto, cioè alla figura barbina che hanno fatto i partiti del fascismo elettorale. Dietro a tanto allarme, alla onnipresenza mediatica, alle pagine facebook, alle magliette, agli striscioni, ai manifesti, i concertini e i saluti sulle bare dei boia repubblichini…c’era solo una bolla mediatica. I partiti fascisti Forza NonnaChina Pound (quelli che hanno la sede nell’Esquilino, il quartiere cinese a Roma) hanno preso pochissimi voti, facendosi addirittura superare dai Centro-socialisti di Potere al polipo e dai sinistrati di Sinistra all’inGrasso di D’Alema. Scena patetica è stata quella di Di Stefano che piangeva su La7 perché era deluso e frignava che non lo avevano mai ospitato in televisione. Nel dubbio mena? No, nel dubbio piangi. Ahahahah!

Bisogna capirci quando si parla di “pericolo fascista”. Se si intende che c’è un “pericolo fascisti” che escono nelle strade e ti accoltellano per le tue idee politiche, di genere, per il colore della tua pelle, siamo d’accordo. Non c’è però un “pericolo fascismo”, ovvero non è, ancora, in corso una mobilitazione reazionaria di massa. Il razzista medio democratico sceglie ancora la Lega porn, non vuole mica tornare al Ventennio! Nella democrazia, nei lager in Libia, nell’esercito nelle strade trova la sua soddisfazione; di tornare ai fez e all’autarchia non ci pensa nemmeno. Il sabato si va in discoteca, non a piazza Venezia.

In altre parole, i fascisti del terzo millennio hanno lo stesso problema che abbiamo noi anarchici: il salto di livello dal consenso alla complicità. Un conto è fare un commento razzista durante l’aperitivo, altro conto è andare in piazza con caschi e bastoni. Ogni volta che ci provano, trovano dall’altra parte un numero di compagni di almeno dieci volte superiore. Meglio un Campari al bar che uno Scotch in piazza a Palermo.

Questo non significa che sminuiamo lo squadrismo fascista, che negli ultimi 15 anni ha provocato almeno una decina di morti fra i compagni e i migranti. Questi sacchi di merda, sull’onda del consenso razzista, stanno provando a tirare fuori la testa dalle fogne. Il fatto è che, fuori dalle loro cloache putrescenti, ci sono tanti bravi cittadini che applaudono, ma ben pochi che passano all’azione insieme a loro. Almeno per ora. Così come non c’è l’appoggio delle classi dominanti, condizione necessaria perché il fascismo vada al potere; classi dominanti che oggi preferiscono, alle famose leggi del 1926, le Leggi Democraticissime di Minniti e complici.

Come anarchici siamo caduti con tutte le scarpe dentro a questa fiction. A furia di dire che l’analisi è roba del passato e che ad essa preferiamo il desiderio, non analizzando niente, al solito, non ci abbiamo capito niente.

Perché il nuovo totalitarismo che sta arrivando – perché sta arrivan do – non sarà il totalitarismo di China Pound – nel dubbio piangi. Sarà il totalitarismo tecnologico. La nuova rivoluzione industriale, rappresentata dalla robotica, dalle stampanti 3D, dal digitale, dalle scienze convergenti (convergenti verso la nostra carcerazione tecnologica permanente). E questo totalitarismo lo stanno portando avanti quelli del partito di Krusty il Clown, il ricco comico immorale e moralista, vero vincitore delle elezioni a Springfield.

In questi mesi, mentre perdevamo tempo a disquisire sul sesso dei robot, mentre dibattevamo sulla questione davvero a-stringente se la tecnologia è de-realizzante o se la realtà piuttosto non esiste, il capitale stava dando una pesante accelerazione verso la sua riconversione all’industria 4.0.

E qui veniamo al terzo punto. Che il partito di Krusty il Clown sia oggi il partito dei robot, lo dimostrano non tanto le dichiarazioni di idolatria nei confronti della quarta rivoluzione industriale, della democrazia digitale o di altre panzane futuristiche. Lo dimostra il punto più dirimente del programma dei 5 stelle: il reddito di cittadinanza. Secondo studi di Oxford, la rivoluzione tecnologica distruggerà nel mondo 1 miliardo e 100 milioni di posti di lavoro. In Italia circa 12 milioni. Il progetto grillino al servizio del capitale è quello di rendere questa transizione il meno dolorosa possibile. Di sterilizzare il conflitto. Il reddito di cittadinanza avrà proprio questo come scopo principale, cioè allargare il consenso nei confronti dell’invasione delle macchine.

Il rimbecillimento comincia da piccoli. Oggi molte scuole hanno il registro elettronico, un tablet dove i prof segnano voti e assenze. Qualche giorno fa, i genitori di un nostro compagno che fanno i professori ci confessavano, con depressione, che i loro studenti non scioperavano nonostante i termosifoni fossero spenti durante l’ondata di freddo…perché avevano paura del registro che avrebbe inviato sul telefonino di mamma la notifica della loro assenza! Questi fra qualche anno saranno i nuovi sfruttati, i nuovi sbirri, i nuovi politici. Questo è il grado del totalitarismo tecnologico prossimo (prossimo?) venturo.

Il partito di Krusty il Clown è il partito che vuole realizzare, in maniera indolore, questa svolta tecnologica. Un partito che non a caso piace tanto a certi “autonomi” (o automi?) visto la sequela di luoghi comuni sul reddito, la fine del lavoro…e daje a ride!

Come se fosse vero che scomparirà lo sfruttamento dal pianeta e non che piuttosto saremo tutti più schiavi, come sta già avvenendo coi braccialetti elettronici di Amazon e i chip sulle tute degli operai FIAT.

Allora forse è il momento che oltre che continuare a fare a mazzate coi fascisti cominciassimo davvero a prendere a mazzate i grillini, magari partendo da quelli che popolano le assemblee e i cortei a cui spesso ci troviamo anche noi a partecipare – da Bussoleno a Melendugno, da Norcia a Nuoro. Forse sarebbe il momento di mettere nel cassetto della storia del Novecento l’esistenzialismo e le chiacchiere filosofiche franzose. E ricominciare con un nuovo, sano, luddismo.

Il problema non sono i grillini in sé, ma i grillini in me.

compagne compagni di campagna

La pirotecnia è un’arte. Davanti alla rivoluzione – Contributi a un dibattito interno all’anarchismo italiano

 

Il 7 dicembre è esploso, di fronte davanti alla stazione dei carabinieri San Giovanni in via Britannia, a Roma, un ordigno rudimentale, un termos d’acciaio con 1,6 kg di esplosivo. Un attacco per contro il potere e i suoi aguzzini. Un attacco che mi vede completamente affine. La rivendicazione è firmata dal gruppo anarchico fai/fri Cellula Santiago Maldonado (segue link con la rivendicazione https://anarhija.info/library/roma-italia-cellula-santiago-maldonado-fai-fri-rivendica-l-attacco-esplosivo-contro-c-it)

A pochi giorni di distanza sulle pagine di Umanità Nova viene pubblicata la risposta e la critica a questo attacco, “Disfattismo pirotecnico”, di seguito propongo due contribuiti di compagni che vogliono contribuire al dibattito in maniera costruttiva proponendo nuovi spunti di lettura.

S.Z

                                                                                                                            

 Dal Blog Perifusi-risposta anarchica     

 

 

https://perifrourisisocialanarchism.noblogs.org/post/2017/12/23/in-chi-e-la-salute-contributi-ad-un-dibattito-interno-allanarchismo-italiana-1/

In chi è la salute? – Contributi ad un dibattito interno all’anarchismo italiano (1)

Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il primo dei due contributi inviati a Umanità Nova.

 

“La Salute è in voi!”, recitava un opuscolo uscito nel 1906 con il settimanale anarchico italoamericano “Cronaca Sovversiva”.
Si trattava, fondamentalmente, di un manuale pratico per sabotaggi, fabbricazione di esplosivi e guerriglia che, seppur oggi decisamente datato a fronte della pubblicistica anche solo degli anni ’70 (si pensi agli scritti della Rote Armee Fraktion o di Carlos Marighella), rappresenta un dato storico fondamentale per capire cosa fosse l’anarchismo di lingua italiana.
Facciamo un breve passo avanti: nel 1927 vengono giustiziati Sacco e Vanzetti, accusati di rapina e omicidio al calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree.
Giustiziati perchè anarchici e immigrati, innocenti di quello specifico atto.
Si trattava infatti non di due “piccoli angeli”, come per molti anni li ha dipinti la vulgata anche anarchica, ma di due combattenti rivoluzionari avvezzi al far saltare le case dei questori e all’uso delle armi [1] tanto quanto alla propaganda di massa, all’agitazione sindacale e allo sciopero.

Un’altro salto in avanti: nell’articolo “Disfattismo pirotecnico” di T. A., pubblicato su Umanità Nova il 17 dicembre [2] si prende in esame l’attacco ad una caserma romana dei carabinieri, fra il 6 e il 7 dicembre, facendo una serie di affermazioni che mettono insieme di tutto e un po’ in una spergiura pressochè totale dell’evento, delle persone idealmente coinvolte e di tutti i significati che vi sono legati.

Per capirci, chi scrive non è un sostenitore dell’insurrezionalismo inteso come impalcatura ideologica, poichè l’ “insurrezione” è solo uno dei tanti passaggi in cui un percorso rivoluzionario si può snodare, e caricarlo di significati eccessivi è quantomeno miope, anche perchè la realtà attuale ci dimostra che la “Guerra sociale [3]” non è materia di insurrezioni, ma di lente e altamente complesse guerre di logoramento, che nei momenti più conflittuali diventano guerre di trincea [4].
Insomma la risibilità dell’opzione insurrezionale non significa che scompaia il dato del conflitto, né quello militare, ma che passano dall’essere una “gioia” ad essere qualcosa di estremamente serio e sporco [5].

E’ centrale quindi distinguere fra Insurrezionalismi e pratiche insurrezionali.
Questa parentesi vuole essere introduttiva ad un altro concetto: se dobbiamo criticare gli insurrezionalismi, bisogna farlo innanzitutto da un dato politico, quindi da un dato pratico (ovvero proponendo alternative credibili) ma soprattutto sempre mantenendo il rispetto per chi lotta, anche in modo estremamente diverso dal nostro.

L’articolo del compagno su Umanità Nova pone tre critiche fondamentali:
Innanzitutto si afferma che azioni di guerriglia urbana sono per loro stessa natura settarie, aristocratiche e opposte ad un lavoro sociale, rifiutando un qualsiasi confronto con chi non si pone sullo stesso piano.
Lo scritto centra molti punti: innanzitutto che la chiusura in sé stessi e la mancanza di un confronto con quelle soggettività non così radicali, è un freno per la penetrazione nel tessuto sociale, così come è invece fondamentale immergersi nelle masse, avviarvi un rapporto simbiotico e di progressiva infezione.
Ma si tratta di punti diversi. Innanzitutto l’azione di guerriglia non è per forza alienante rispetto ad un lavoro di massa: la consistente simpatia di cui godettero formazioni lottarmatiste in Italia e Germania Ovest, per non parlare di quella che perdura tutt’ora in Grecia, sono una dimostrazione del contrario. Allo stesso modo, le riflessioni della prima Prima Linea [6] sul ruolo del militante pubblico e del militante armato, così come quelle dell’Autonomia organizzata sul “doppio livello”, posso dare spunti importanti.

Semmai, si può criticare l’opportunità e le modalità di uno specifico atto, la sua convenienza e il suo svolgimento. Infatti, per esempio, se la lotta armata non è assolutamente un’opzione, qui, il discorso del doppio livello si può applicare anche a chi partecipa a pratiche insurrezionali di altro tipo, quali il Blocco Nero e gli scontri di piazza.
Ma anche qui, al netto di tutto, va mantenuto l’adeguato rispetto per chi si pone in rischio per proseguire una lotta: no, nessuno ha piazzato una bomba davanti ad una caserma dei carabinieri apposta per fare un dispetto ad altri anarchici, anche perchè non serve certo l’insurrezionalismo per mandare in crisi l’anarchismo comunista/sociale in Italia: lo dimostrano i numeri scarsi, l’irrilevanza politica, i circoli che chiudono, il ricambio che non c’è, i congressi sempre più deserti. Ci si può raccontare che va tutto bene, ma farlo non lo rende vero.
E no, non bisogna dare acqua al mulino degli scazzi, provando semmai semmai ricucire, nel possibile, i rapporti personali, amicali e politici con quei/lle militanti che dimostrano di agire in buona fede, ponendo domande, critiche e risposte alternative, e non controscomuniche.

Quindi su “Disfattismo pirotecnico” si afferma che il clima di “pace sociale” in Italia non è così reale, poichè ci sarebbe un fiorire di mobilitazioni sempre più forti e radicali.
Si torna anche qui all’uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani e che per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene”.
La verità è che la riscrittura genetica della società sta andando avanti spedita: i centri città sono completamente trasformati, e ora i processi di gentrificazione e normalizzazione si stanno allargando ai quartieri a latere. Gli sgomberi e i sequestri hanno avuto un ritmo terrificante negli ultimi due anni, arrivando ad annichilire intere aree, proprio mentre il recupero riformista riusciva ad inglobare numerosi settori di movimento. Le destre hanno ormai tutte un respiro nazionale, anche quelle più neonaziste quali Lealtà&Azione e il VFS, forti di una lento ma progressivo radicamento nelle classi popolari.

La debolezza del cosiddetto “movimento” è provabile numericamente guardando due appuntamenti “nazionali” a meno di quattro anni di distanza: se nel 15 ottobre 2011 si portarono in piazza 300.000 persone, nel NoExpo del 2015 ve ne erano 50.000.
Anche qui si può tirare in ballo la solita storia degli “scontri che oscurano il corteo” a livello mediatico; c’è da dire però che se il corteo avesse sfilato pacifico, ci sarebbe stato giusto giusto un articoletto distratto, per plaudere la pacificità dei manifestanti e la bravura della polizia.

Un problema centrale emerge quasi involontariamente da un passaggio secondario dell’articolo di T.A.: “La via di uscita è […] imparare dalle masse quali sono i temi che le toccano maggiormente e, coerentemente con il nostro ideale e la nostra prassi, possano dar vita a movimenti di ribellione, imparare dalle masse quali sono gli organismi che possono divenire strumenti di autorganizzazione e di azione diretta, imparare dalle masse quali sono i linguaggi che possano rendere più accessibile la propaganda anarchica.”.
Insomma, ci si pone sempre e comunque come soggetti che (a discapito del nome di “minoranza agente”) paiono quasi cadere dal pero nei rapporti con la popolazione, subendoli e non essendovi attivi.
Qualcosa di completamente diverso da ciò che andrebbe fatto, poiché l’anarchismo è stato grande quando è stato politico, quando in tutta la sua storia ha preso in mano le redini del discorso e ha inziato percorsi di largo respiro e forte intensità, razionalmente e strategicamente pensati, in all’interno e in simbiosi con la popolazione, e non come soggetti “a servizio” della stessa, partendo dalla logica perdente dell’autodissoluzione qual’ora le cose andassero bene.
Si tratta semmai di porsi come i germi delle istituzioni del “mondo nuovo” che portiamo nei nostri cuori, come Murray Bookchin (ideologo a monte dell’unica rivoluzione contemporanea), giustamente esponeva: le assemblee di movimento devono diventare le assemblee di gestione della comune, i servizi d’ordine le sue milizie e i gruppi politici i suoi organi esecutivi.
Questo stesso percorso è stato alla base del movimento anarchico di maggior successo oggi, quello greco, che ha scelto durante il 2008 di spargersi sul territorio e di diventare il punto di riferimento delle proprie comunità, partecipandole a livello di sicurezza, di sanità, di lotte lavorative, e molto altro.
Esemplare è l’attività del K*Box, caffetteria occupata ad Exarchia, che oltre ad essere un luogo di socialità ha aperto l’ambulatorio autogestito, sostiene occupazioni abitative, combatte attivamente contro le narcomafie in quartiere e il cui collettivo politico, Rouvikonas, si è reso noto per molteplici azioni contro problemi concreti della società greca, quali la corruzione delle autorità ospedaliere, le agenzie di “liste nere” per i morosi nei confronti delle banche, o le missioni di aiuto nelle zone alluvionate di Madra.

E’ così che si può porre una critica all’insurrezionalismo: da pari. Da pari portando rispetto verso chi lotta e viene represso (e potendo così rivendicare per sé lo stesso tipo di rispetto), da pari proponendo un anarchismo competitivo ed efficace, contemporaneo e accattivante, che sia realmente quello che vuole essere.
Si tratta di fare la cosa giusta, indipendentemente che venga fatta dall’altra parte, perchè se siamo anarchici e anarchiche lottiamo per ciò che è giusto.

“[visto che] Sembra il momento di far uscire una qualche tipo di conclusione, dirò che – suppongo – non credo che le strutture o le forme di associazione volontaria che adottiamo controllino deterministicamente i nostri risultati (pur avendo una forte influenza, come la hanno tutti gli strumenti, su chi le adotta), ma che tutte le strutture e le strategie sviluppate fino ad oggi dagli anarchici abbiano serie debolezze e che queste carenze saranno letali, a meno che non si sia più onesti, flessibili, ricettivi alle critiche ed energici di quanto si sia stati finora. [7]”

Nikos Fountas

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[1] Per una storia più completa, il fondamentale libro di Paul Avrich, Ribelli In Paradiso. Sacco, Vanzetti e il movimento anarchico negli Stati Uniti, 2015, Nuova Delfi Libri, Roma, traduzione a cura di Antonio Senta.

[2] http://www.umanitanova.org/2017/12/17/disfattismo-pirotecnico/

[3] Termine molto usato da uno dei più interessanti autori anarchici dei giorni nostri, lo statunitense Peter Gelderloos, che con esso indica una condizione di vero e proprio conflitto bellico fra oppressi e oppressori, con il dispiegamento di strategie (la controinsorgenza), risorse (militarizzazione dei territori e delle forze di polizia) e legittimazioni (diritto penale del nemico, leggi anti-terrorismo, cultura del “degrado” come pericolosità…) militari.

[4] Si pensi al ruolo che hanno assunto i luoghi nei conflitti sociali contemporanei, dalla difesa di territori rurali (Zad, Bure, Hambach, Val Susa) e metropolitani (Exarchia, Gezi park, piazza Maidan) alla lotta per eradicare, mantenere o guadagnare edifici fisici (sedi fasciste, centri sociali, occupazioni).
Da notare che in Italia si è sempre affrontato il problema da un punto di vista etico-filosofico e mai da un punto di vista strategio e pratico, come per esempio sulla necessita di mantenere strutture logistiche e basi sicure.

[5] Già Nestor Makhno lo notava quando scriveva: “In una rivoluzione sociale il momento più critico non è il momento del crollo del Potere, ma il momento immediatamente successivo, il momento in cui quanti sono stati spodestati attaccheranno i lavoratori e questi ultimi dovranno difendere le conquiste appena realizzate” poichè “la classe dominante conserverà a lungo una grande capacità di resistenza e per molti anni sarà in grado di sferrare attacchi contro la rivoluzione cercando di riconquistare il potere e i privilegi che le sono stati sottratti” (in Delo Truda, n16 p. 5-4, riportato in Alexander Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), p. 190-191, Elèuthera, 2012).
Stessa cosa di cui parlerà cinquant’anni dopo Adriano Sofri su Giovane Critica, n19, 1968-1969, seppur in termini operaisti. Insomma, l’operaismo e l’autonomia riprendono concetti anarchici decenni dopo e, al contrario nostro, riescono a tenerli a mente.

[6] Si spera che si riesca a discutere con il necessario distacco di temi come P.L., analizzandoli da un punto di vista storico e politico, senza inutili emotività.

[7] Peter Gelderloos,“Insurrection vs. Organization. Reflession on a pointless schism.“, 2007, recuperabile a http://theanarchistlibrary.org/library/peter-gelderloos-insurrection-vs-organization

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

https://perifrourisisocialanarchism.noblogs.org/post/2017/12/23/davanti-alla-rivoluzione-contributi-a-un-dibattito-interno-allanarchismo-italiano-2/
Davanti alla rivoluzione – Contributi a un dibattito interno all’anarchismo italiano (2)

 Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il secondo contributo.                                         

       

In an abandoned houseboat
I’ll wait there, I’ll be waiting forever
Waiting, waiting, waiting, waiting, waiting….
(Pavement-Summer Babe)

Davanti alla rivoluzione c’è un guardiano.
Davanti a lui viene un* anarchic* e chiede di entrare nella rivoluzione.
Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’anarchic* dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. “Può darsi” dice il guardiano, “ma adesso no”.

Il 7 dicembre 2017 un bomba a bassa potenza esplode davanti alla caserma dei CC San Giovanni di Roma, cui segue la rivendicazione della “Cellula Santiago Maldonado” a firma FAI/FRI, in cui si dichiarano le volontà di spezzare la pace sociale con attentati diretti alle strutture di potere e repressive.
Dieci giorni dopo esce su Umanità Nova in merito a questi fatti esce l’articolo “Disfattismo pirotecnico”, ovvero un modo davvero un modo poco equilibrato di contribuire al noioso dibattito “organizzazione informale distruttiva vs organizzazione sociale”.

Chiariamo subito che chi scrive si identifica come “anarco-comunismo”, seppur proveniente da una tradizione molto differente da quella della Federazione Anarchica Italiana & affini (oh no! Forse questo non si può dire), e che non si ritiene vicino alle posizioni solitamente espresse dalle soggettività che si firmano FAI/FRI.

Nell’articolo sopracitato, al di là di alcuni spunti condivisibili, c’è un errore strutturale che alimenta un manicheismo inutile che divide l’anarchic* “che pensa ed euca” e quelllo “che attacca”.
La reificazione, non solo degli esseri viventi ma addirittura delle loro idee, ha cristallizzato in figure estetizzate e-soprattutto- nettamente separate, l’atto insurrezionale violento e quello comunicativo, rendendo fondamentalmente innocuo e funzionale allo spettacolo narcisista un’ anarchismo sempre più lontano dalle possibilità di aprire percorsi realmente di rottura con l’esistente.
L’attacco e l’autogestione sono due condizioni egualmente necessarie per farlo, scegliere una sola di queste due possibilità ci presenta un anarchismo azzoppato e, fondamentalmente, inadatto ad affrontare le contraddizioni del presente: il/la nihilista antisociale e il /l’ anarchic* che fa gli spettacolini a teatro sulla vittoriosa (?) insurrezione del ’36 sono le due categorie spettacolari con cui si alimenta un processo autistico completamente slegato dalle masse cui si parla tanto.
A proposito, nel succitato articolo si dice che piuttosto che gettarsi in “aristocratici avventurismi” (parafrasi mia) è preferibile imparare dalle masse per poterle poi aiutare a costruire le condizioni oggettive per la rivolta; ma cosa sono queste masse? Noi anarchici e anarchiche non ne facciamo forse parte anche noi? Ancora una volta ci si crede diversi, magari meno alienati, dalla cosiddetta massa, quando invece ne facciamo parte, e quindi nulla abbiamo da imparare da noi stessi, ma piuttosto disimparare quell’immobilismo cui siamo preda dopo anni di dominio dello spettacolo.

Ha ragione l’autore T.A. nel dire che viviamo in tempi di guerra.
Purtroppo questa guerra noi non la stiamo combattendo, perché chi rimane pacificato sono praticamente tutti i movimenti radicali.
E’ questo forse che intendevano i compagni e/o le compagne della cellula Santiago Maldonado, rompere con la pacificazione che è stata imposta all’esterno dalla repressione e all’interno dall’immobilismo di gesti ritualistici e sclerotizzati, che poco riescono a incidere nelle pratiche di nuovi movimenti di massa come Non Una Di Meno che se anche avesse un potenziale libertario- e questo è ancora da dimostrare- nasce da se’ e non certo da qualche solone anarchico.
Attenzione: ovviamente chiunque compia azioni dirette non è esente da critiche, anzi, ma cerchiamo di porle nei confronti delle strategie, non da prese di posizione meramente ideologiche.

L’anarchico Belgrado Pedrini, a dispetto della repressione e della pacificazione imposta dal regime fascista, cominciò la sua attività sovversiva già alla metà degli anni ’30, e verrà incarcerato un anno prima della formazione del CNL, anche lui un aristocratico sprezzante verso le masse?
Quante altre volte dopo un azione diretta si vedrà la solita pioggia di accuse di “avanguardismo”?
Quanto altri arresti, sgomberi, quante altre violenze e ingiustizie sociali ci vorranno per scuoterci da questo torpore?

Grazie al ministro Marco Minniti innumerevoli migranti stanno venendo torturat* in qualche lager libico proprio mentre tu, fratello e/o sorella, stai leggendo, e sotto sotto solo il fatto che sai che non può capitare a te ti spinge a non rivoltarti con tutte le tue forze verso questa violenza assurda.
Non possiamo continuare a giustificarci dicendo che “Non è il momento”, che quando “le masse si rivolteranno noi saremo con loro”, perché ogni mese in un CPR scoppiano rivolte distruttive e sequestri degli operatori-secondini nel quasi più totale silenzio.
Non sono forse parte della massa pure i/le migranti reclus*?
E’ giunto il momento di scegliere: o il nulla autistico della doppia medaglia della falloforia violentista e del nostalgismo attendista e innocuo, oppure comiciare un percorso comune che abbracci, nel rispetto delle sensibilità individuali, tutte le modalità d’azione contemplate (e quelle ancora da contemplare) per poter ricominciare a non pensare all’insurrezione come a un’utopia lontana.
L’attesa finisce quando lo decidiamo noi, basta essere vittime del Tempo.

“Che cosa vuoi sapere ancora?” domanda il guardiano, “Sei proprio insaziabile.”
“Tutti si sforzano di arrivare alla rivoluzione” dice l’anarchic*, “E come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?” Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.”

L. G.

                 

 

Emma Goldman sulla Rivoluzione Russa

Tratto da My disillusionment in Russia
1. I critici socialisti non bolscevichi del fallimento della Russia sostengono che la rivoluzione non poteva riuscire perché in questo paese l’industria non aveva raggiunto il livello di sviluppo necessario. Fanno riferimento a Marx, secondo cui la rivoluzione sociale è possibile solo in paesi con un sistema industriale altamente sviluppato, e con gli antagonismi sociali che ne derivano. Questi critici ne deducono che la rivoluzione russa non poteva essere una rivoluzione sociale, e che storicamente doveva passare attraverso una fase costituzionale, democratica, completata dallo sviluppo di una industria, al fine di rendere il paese economicamente maturo per un cambiamento fondamentale.
Questo marxismo ortodosso tralascia di considerare un elemento importante, forse ancor più essenziale di quello industriale, per la possibilità e il successo di una rivoluzione sociale. Mi riferisco alla coscienza delle masse in un dato momento. Perché la rivoluzione sociale non è esplosa, ad esempio, negli Stati Uniti, in Francia o addirittura in Germania? Questi paesi hanno certamente raggiunto il livello di sviluppo industriale stabilito da Marx come fase culminante. La verità è che lo sviluppo industriale e le potenti contraddizioni sociali non sono affatto sufficienti a dare vita ad una nuova società o a scatenare una rivoluzione sociale. La coscienza sociale e la psicologia di massa necessarie mancano in paesi come gli Stati Uniti e in quelli che ho appena citato. Il che spiega perché là non è avvenuta nessuna rivoluzione sociale.
Da questo punto di vista, la Russia possedeva un vantaggio rispetto a paesi più industrializzati e «civilizzati». È vero che era meno avanzata sul piano industriale rispetto ai suoi vicini occidentali, ma la coscienza delle masse russe, ispirata e intensificata dalla rivoluzione di febbraio, ha progredito così rapidamente che in pochi mesi la gente era pronta ad accettare slogan ultra-rivoluzionari come «Tutto il potere ai soviet» e «La terra ai contadini, le fabbriche agli operai».
Non bisogna sottovalutare il significato di queste parole d’ordine. Hanno espresso in larga misura il desiderio istintivo e semi-cosciente del popolo, la necessità di una completa riorganizzazione sociale, economica ed industriale della Russia. Quale paese, in Europa o in America, è pronto a mettere in pratica queste parole d’ordine rivoluzionarie? Eppure in Russia, durante i mesi di giugno e luglio 1917, queste parole d’ordine sono diventate popolari; sono state riprese attivamente con entusiasmo, sotto forma di azione diretta, dalla maggior parte dei contadini ed operai di un paese di oltre 150 milioni di abitanti. Ciò dimostra a sufficienza la «maturità» del popolo russo per la rivoluzione sociale.
Per quanto riguarda la «preparazione» economica, nel senso marxiano del termine, non dobbiamo dimenticare che la Russia è principalmente un paese agricolo. Il ragionamento di Marx presuppone la trasformazione della popolazione contadina in una società industriale altamente sviluppata, un passo verso le condizioni sociali necessarie ad una rivoluzione.
Ma gli eventi in Russia nel 1917 hanno dimostrato che la rivoluzione non aspetta questo processo di industrializzazione e — fatto ancora più importante — che non si può far attendere la rivoluzione. I contadini russi hanno cominciato ad espropriare i proprietari terrieri e gli operai si sono impadroniti delle fabbriche senza prendere conoscenza dei teoremi marxisti. Questa azione popolare, in virtù della sua propria logica, ha introdotto la rivoluzione sociale in Russia, sconvolgendo tutti i calcoli marxiani. La psicologia dello slavo si è dimostrata più solida delle teorie social-democratiche. Questa consapevolezza si basava su un desiderio appassionato di libertà, alimentato da un secolo di agitazione rivoluzionaria fra tutte le classi sociali. Per fortuna, il popolo russo è rimasto abbastanza sano sul piano politico: non è stato infettato dalla corruzione e dalla confusione creata nel proletariato di altri paesi dall’ideologia delle libertà «democratiche» e dell’auto-governo. In questo senso i russi sono rimasti un popolo semplice e naturale, estraneo alle sottigliezze della politica, degli accordi parlamentari e dei cavilli giudiziari. D’altra parte, il suo primitivo senso di giustizia e di bene era robusto e vitale, privo della disgregante finezza della pseudo-civiltà. Il popolo russo sapeva quello che voleva e non ha atteso che le «circostanze storiche inevitabili» glielo portassero su un piatto: ha fatto ricorso all’azione diretta. Per esso la rivoluzione era un fatto di vita, non una semplice teoria da discutere.
È così che la rivoluzione sociale è scoppiata in Russia nonostante l’arretratezza industriale del paese. Ma fare la rivoluzione non era sufficiente. Occorreva che progredisse e si allargasse, che sfociasse in una ricostruzione economica e sociale. Questa fase della rivoluzione comportava che le iniziative personali e gli sforzi collettivi potessero esercitarsi liberamente. Lo sviluppo e il successo della rivoluzione dipendevano dal più ampio esercizio del genio creativo del popolo, dalla collaborazione tra proletariato intellettuale e manuale. L’interesse comune è il filo conduttore di tutti gli sforzi rivoluzionari, specialmente nel loro lato costruttivo.
Questo spirito di obiettivo e di solidarietà reciproci hanno trascinato la Russia in una possente onda durante i primi giorni della rivoluzione russa, nell’ottobre-novembre 1917. Queste forze entusiaste avrebbero potuto spostare le montagne, se guidate con intelligenza dall’esclusiva preoccupazione di raggiungere il benessere dell’intera popolazione. Il modo efficace per fare ciò era a disposizione: le organizzazioni operaie e le cooperative che coprivano la Russia con una rete di contatti che univa le città con le campagne; i soviet che si moltiplicavano per soddisfare le esigenze del popolo russo; e, infine, l’intellighenzia le cui tradizioni per un secolo avevano servito eroicamente la causa dell’emancipazione della Russia.
Ma una simile evoluzione non faceva assolutamente parte del programma dei bolscevichi. Per molti mesi dopo l’ottobre, essi hanno tollerato la manifestazione di forze popolari, hanno lasciato che il popolo sviluppasse la rivoluzione in contesti sempre più ampi. Ma appena il Partito Comunista si è sentito sufficientemente saldo al governo, ha cominciato a limitare l’ambito delle attività popolari. Tutti gli atti dei bolscevichi che seguirono — la loro politica, i loro cambiamenti di linea, i loro compromessi e battute d’arresto, i loro metodi di repressione e di persecuzione, il loro terrorismo e sterminio di tutte le altre idee politiche — tutto ciò rappresentava solo dei mezzi al servizio di un fine: la concentrazione del potere statale nelle mani del Partito. In effetti i bolscevichi stessi, in Russia, non ne hanno fatto mistero. Il Partito Comunista, affermavano, incarna l’avanguardia del proletariato, e la dittatura deve rimanere nelle sue mani.
Sfortunatamente per loro, i bolscevichi non avevano tenuto conto del loro ospite, i contadini, che né la razvyortska (Ceka), né le fucilazioni di massa riuscirono a persuadere a sostenere il regime bolscevico. I contadini diventarono lo scoglio contro cui tutti i piani e i progetti ideati da Lenin sono andati a sbattere. Ma Lenin, abile acrobata, era abile a muoversi nonostante uno stretto margine. La NEP (Nuova Politica Economica) venne introdotta appena in tempo per respingere il disastro che stava, lentamente ma inesorabilmente, spazzando via l’intero edificio comunista.
2. La NEP ha sorpreso e scioccato la maggior parte dei comunisti. Hanno visto in questa manovra il contrario di tutto quanto il loro partito aveva proclamato — il rifiuto del comunismo stesso. In segno di protesta, alcuni dei più vecchi membri del Partito, uomini che avevano affrontato il pericolo e la persecuzione sotto il vecchio regime mentre Lenin e Trotsky vivevano al sicuro all’estero, lasciarono il Partito Comunista amareggiati e delusi. I leader allora decisero una specie di serrata. Ordinando che il Partito venisse ripulito da tutti gli elementi «sospetti». Chiunque venisse sospettato di avere un atteggiamento indipendente e tutti quelli che non accettavano la nuova politica economica come fosse l’ultima parola della saggezza rivoluzionaria furono espulsi. Tra di essi c’erano comunisti che per anni avevano fedelmente servito la causa. Alcuni di loro, feriti sul vivo da questa procedura brutale e ingiusta, e sconvolti dal crollo di ciò che adoravano, ricorsero perfino al suicidio. Ma era necessario che il nuovo Vangelo di Lenin potesse diffondersi senza problemi, questo Vangelo che ormai predica la santità della proprietà privata e la libertà della concorrenza spietata in mezzo alle rovine causate da quattro anni di rivoluzione.
Tuttavia, l’indignazione comunista contro la NEP esprimeva solo la confusione mentale degli oppositori di Lenin. Come spiegare altrimenti l’approvazione dei numerosi salti e acrobazie politiche di Lenin, e poi l’indignazione davanti al suo ultimo salto mortale che costituiva la loro conclusione logica? Il problema dei comunisti devoti è che si aggrapparono al dogma dell’Immacolata Concezione dello Stato socialista, Stato che si presume dovrebbe salvare il mondo con l’aiuto della rivoluzione. Ma la maggior parte dei leader comunisti non hanno mai coltivato tale illusione. Lenin meno di tutti.
Fin dal mio primo incontro con lui, ho avuto l’impressione che fosse un politico subdolo che sapeva esattamente quello che voleva e che non si sarebbe fermato davanti a niente pur di raggiungere i suoi scopi. Dopo averlo sentito parlare in diverse occasioni ed aver letto i suoi libri, mi sono convinta che Lenin non abbia molto interesse per la rivoluzione e che per lui il comunismo sia un qualcosa di molto remoto. La divinità di Lenin era lo Stato politico centralizzato, a cui bisognava sacrificare tutto. Qualcuno ha detto che Lenin avrebbe sacrificato la rivoluzione per salvare la Russia. La sua politica, tuttavia, ha dimostrato che era pronto a sacrificare sia la rivoluzione che il paese, o almeno una parte di esso, allo scopo di attuare il suo progetto politico in quello che rimaneva della Russia.
Lenin era il politico più flessibile della storia. Poteva essere al tempo stesso un super-rivoluzionario, un uomo di compromessi e un conservatore. Quando il grido di «Tutto il potere ai Soviet» si diffuse come un’onda potente in tutta la Russia, Lenin seguì la corrente. Quando i contadini si impadronirono delle terre e gli operai delle fabbriche, non solo Lenin approvò questi metodi di azione diretta, ma andò oltre. Lanciò il famoso slogan: «Espropriate gli espropriatori», slogan che seminò la confusione nelle teste e causò danni irreparabili all’ideale rivoluzionario. Mai prima di lui un rivoluzionario aveva interpretato l’espropriazione sociale come il trasferimento della ricchezze da un gruppo di persone ad un altro. Tuttavia, è esattamente questo che significa lo slogan di Lenin. I raid ciechi ed irresponsabili, l’accumulo delle ricchezze della vecchia borghesia nelle mani della nuova burocrazia sovietica, gli imbrogli permanenti contro coloro la cui unica colpa era la loro precedente condizione sociale, tutto ciò fu il risultato della «espropriazione degli espropriatori». Tutta la successiva storia della Rivoluzione è un caleidoscopio dei compromessi di Lenin e del tradimento dei suoi stessi slogan.
Le azioni e i metodi dei bolscevichi a partire dalla rivoluzione d’Ottobre possono sembrare in contraddizione con la NEP. Ma in realtà fanno parte degli anelli della catena che stava forgiando l’onnipotente governo centrale, di cui il capitalismo di Stato era l’espressione economica. Lenin aveva una visione molto chiara ed una volontà di ferro. Sapeva come far credere ai suoi compagni, dentro e fuori la Russia, che il suo progetto era il vero socialismo e che i suoi metodi erano la rivoluzione. Non meraviglia che Lenin disprezzasse così tanto i suoi sostenitori da non esitare a urlare loro in faccia. «Solo degli imbecilli possono credere che il comunismo sia possibile ora in Russia», rispondeva agli oppositori della nuova politica economica.
Di fatto, Lenin aveva ragione. Il vero comunismo non è mai stato tentato in Russia, a meno di pensare che trentatré livelli di salari, un sistema differenziato di razioni alimentari, dei privilegi assicurati per alcuni e l’indifferenza per la grande massa siano il comunismo.
All’inizio della rivoluzione fu relativamente facile per il Partito Comunista impadronirsi del potere. Tutti gli elementi rivoluzionari, spinti dalle promesse ultra-rivoluzionarie dei bolscevichi, li aiutarono a prendere il potere. Una volta in possesso dello Stato, i comunisti iniziarono il loro processo di eliminazione. Tutti i partiti e i gruppi politici che rifiutarono di sottomettersi alla loro nuova dittatura dovettero andarsene. Prima gli anarchici e i socialisti-rivoluzionari di sinistra, poi i menscevichi e altri oppositori della destra, e infine tutti quelli che osavano avere un parere personale. Lo stesso accadde a tutte le organizzazioni indipendenti. O si subordinavano alle esigenze del nuovo Stato, oppure venivano distrutte, come fu il caso dei Soviet, dei sindacati e delle cooperative — i tre pilastri delle speranze rivoluzionarie.
I soviet sono apparsi per la prima volta durante la rivoluzione del 1905. Hanno svolto un ruolo importante durante quel breve ma significativo periodo. Anche se la rivoluzione venne schiacciata, l’idea dei soviet rimase radicata nella testa e nel cuore delle masse russe. Alla prima alba che illuminò la Russia nel febbraio 1917, i soviet riapparvero di nuovo e fiorirono rapidamente. Per il popolo, i soviet non erano assolutamente contro lo spirito della rivoluzione. Anzi, nei soviet la rivoluzione avrebbe trovato la sua espressione pratica più elevata e più libera. Questo è il motivo per cui i soviet si diffusero spontaneamente e rapidamente in tutta la Russia. I bolscevichi compresero dove andavano le simpatie del popolo e si unirono al movimento. Ma una volta alla guida del governo, i comunisti si resero conto che i soviet costituivano una minaccia per la supremazia dello Stato. Allo stesso tempo non potevano distruggerli arbitrariamente senza compromettere il proprio prestigio, sia in patria che all’estero, in quanto promotori del sistema sovietico. Iniziarono a privare gradualmente i soviet dei loro poteri per subordinarli infine alle proprie esigenze.
I sindacati russi erano molto più facili da indebolire. Sul piano numerico e dal punto di vista della fibra rivoluzionaria, erano ancora nella loro infanzia. Dichiarando obbligatoria l’appartenenza sindacale, i sindacati russi acquisirono una certa forza numerica, ma il loro spirito rimase quello di un neonato. Lo Stato comunista divenne allora la bambinaia dei sindacati. A loro volta, queste organizzazioni facevano da servitori allo Stato. «Una scuola di comunismo», dichiarò Lenin nella famosa controversia sul ruolo dei sindacati. Aveva ragione. Ma una scuola antiquata in cui lo spirito del bambino viene legato e schiacciato. In nessun paese del mondo i sindacati sono sottomessi alla volontà e agli ordini dello Stato come nella Russia bolscevica.
Il destino delle cooperative è troppo noto per dilungarsi in proposito. Le cooperative costituivano il più importante legame tra la città e la campagna. Il loro apporto alla Rivoluzione in quanto mezzo popolare ed efficace di scambio e di distribuzione, nonché di ricostruzione della Russia, era di incalcolabile valore. I bolscevichi le hanno trasformate in ingranaggi della macchina governativa e quindi distrutto la loro utilità e la loro efficacia.
3. Ormai è chiaro il motivo per cui la rivoluzione russa, guidata dal Partito Comunista, è fallita. Il potere politico del Partito, organizzato e centralizzato nello Stato, voleva mantenersi con tutti i mezzi a sua disposizione. Le autorità centrali cercarono di incanalare con la forza le attività del popolo in forme corrispondenti agli obiettivi del Partito. L’unico obiettivo dei bolscevichi era di rafforzare lo Stato e monopolizzare tutte le attività economiche, politiche, sociali — perfino le manifestazioni culturali. La rivoluzione aveva uno scopo completamente diverso, per sua natura incarnava la negazione dell’autorità e della centralizzazione. Si è sforzata di aprire campi sempre più ampi per l’espressione del proletariato e di moltiplicare le possibilità di iniziative individuali e collettive. Gli obiettivi e le tendenze della rivoluzione erano diametralmente opposte a quelle del partito politico dominante.
Anche i metodi della rivoluzione e dello Stato sono diametralmente opposti. I metodi della rivoluzione si ispirano allo spirito della rivoluzione stessa, l’emancipazione da tutte le forze che opprimono e limitano, si tratta quindi di principi libertari. I metodi dello Stato, al contrario — dello Stato bolscevico o di qualsiasi governo — si basano sulla coercizione, che a poco a poco si trasforma necessariamente in violenza, oppressione e terrorismo. C’erano quindi due tendenze in lotta fra loro: lo Stato bolscevico contro la rivoluzione. È stata una lotta fino alla morte. Avendo obiettivi e metodi contrastanti, queste due tendenze non potevano operare in armonia; il trionfo dello Stato significava la sconfitta della rivoluzione.
Sarebbe un errore pensare che la rivoluzione sia fallita solo a causa della personalità dei bolscevichi. Fondamentalmente, la rivoluzione è fallita a causa dei principi e dei metodi del bolscevismo. La mentalità e i principi autoritari dello Stato hanno soffocato le aspirazioni libertarie e liberatrici. Se un altro partito avesse governato la Russia, il risultato sarebbe stato essenzialmente lo stesso. Non sono stati tanto i bolscevichi ad aver ucciso la rivoluzione russa quanto l’idea bolscevica. Si trattava di una forma modificata di marxismo; insomma, un fanatico statalismo. Solo una tale comprensione delle forze sottostanti che hanno schiacciato la rivoluzione può dare la vera lezione di questo evento che ha scosso il mondo. La rivoluzione russa riflette su piccola scala la lotta secolare tra il principio libertario e il principio autoritario. Infatti, che cos’è il progresso se non l’accettazione più generale dei principi di libertà contro quelli di coercizione? La rivoluzione russa è stata una fase libertaria sconfitta dallo Stato bolscevico, dalla vittoria temporanea dell’idea reazionaria, dall’idea statalista.
Questa vittoria è dovuta a diverse cause. Ho affrontato la maggior parte di esse nei precedenti capitoli di questo libro. Ma la causa principale non fu l’arretratezza industriale della Russia, come hanno scritto molti autori. Questa causa fu di ordine culturale, e se offriva al popolo russo alcuni vantaggi rispetto ai suoi vicini più sofisticati, essa ha avuto anche inconvenienti fatali. La Russia era «culturalmente arretrata» nel senso che non era intaccata dalla corruzione politica e parlamentare. D’altra parte, le mancava l’esperienza nei confronti dei giochi politici ed ha ingenuamente creduto nel potere miracoloso del partito che parlava più forte e faceva più promesse. Questa fede nel potere dello Stato è stata utilizzata per rendere il popolo russo schiavo del Partito comunista, prima che le grandi masse si accorgessero del giogo che era stato messo attorno al loro collo.
Il principio libertario era potente nei primi giorni della rivoluzione, il bisogno di libertà d’espressione si rivelò inarrestabile. Ma quando la prima ondata d’entusiasmo fece un passo indietro per lasciare spazio alle difficoltà prosaiche della vita quotidiana, occorrevano salde convinzioni per mantenere viva la fiamma della libertà. Solo una manciata di uomini e donne, sul vasto territorio della Russia, hanno mantenuto viva questa fiamma: gli anarchici, il cui numero era ridotto e i cui sforzi, ferocemente repressi sotto lo zar, non ebbero il tempo di dare i loro frutti. Il popolo russo, che in certa misura è anarchico per istinto, non conosceva abbastanza i veri principi e metodi anarchici per poterli mettere in pratica con efficacia nella vita.
Sfortunatamente la maggior parte degli stessi anarchici russi era ancora impegolata in piccoli gruppi e in battaglie individuali, piuttosto che in un grande movimento sociale e collettivo. Uno storico imparziale un giorno certamente ammetterà che gli anarchici hanno svolto un ruolo molto importante nella rivoluzione russa — un ruolo assai più significativo e fecondo di quanto il loro numero relativamente basso poteva lasciar credere. Eppure, l’onestà e la sincerità mi costringono a riconoscere che la loro opera avrebbe avuto un valore pratico infinitamente maggiore se fossero stati meglio organizzati e attrezzati per guidare le ribollenti energie popolari al fine di riorganizzare la vita sociale secondo i fondamenti libertari.
Ma il fallimento degli anarchici durante la rivoluzione russa, nel senso che ho indicato, non significa affatto la sconfitta dell’idea libertaria. Al contrario, la rivoluzione russa ha chiaramente dimostrato che lo statalismo, il socialismo di Stato, in tutte le sue manifestazioni (economiche, politiche, sociali ed educative), è completamente e definitivamente votato alla sconfitta. Mai nella storia, l’autorità, il governo, lo Stato, hanno mostrato come siano di fatto statici, reazionari e anche contro-rivoluzionari. Essi incarnano l’antitesi stessa della rivoluzione.
Come dimostra ogni progresso, solo lo spirito e il metodo libertario possono far avanzare l’uomo nella sua eterna lotta per una vita migliore, più piacevole e più libera. Applicata ai grandi sconvolgimenti sociali noti come rivoluzioni, questa tendenza è potente quanto nell’ordinario processo di evoluzione. Il metodo autoritario è fallito durante tutta la storia dell’umanità ed ora è fallito ancora una volta durante la rivoluzione russa. Finora l’intelligenza umana ha scoperto solo il principio libertario, perché l’uomo ha compreso una grande saggezza quando ha capito che la libertà è la madre dell’ordine, non sua figlia.
Nonostante le pretese di tutte le teorie e di tutti i partiti politici, nessuna rivoluzione può avere davvero successo in modo permanente se non si oppone ferocemente alla tirannia e alla centralizzazione, e se non lotta con determinazione per rendere la rivoluzione una rivalutazione di tutti i valori economici, sociali e culturali. Non la sostituzione di un partito con un altro affinché controlli il governo, non il camuffamento di un regime autocratico sotto slogan proletari, non la dittatura di una nuova classe su una classe più vecchia, non le manovre nei corridoi del teatro politico, no, solo il completo rovesciamento di tutti i principi autoritari servirà la rivoluzione.
In campo economico, questa trasformazione deve essere nelle mani delle masse industriali: hanno la possibilità di scegliere tra uno Stato industriale e l’anarco-sindacalismo. Nel primo caso, lo sviluppo costruttivo della nuova struttura sociale sarà minacciata tanto quanto dallo Stato politico. Sarà un peso morto che graverà sulla crescita di nuove forme di vita. Ecco perché il solo sindacalismo (o industrialismo) non è sufficiente, come ben sanno i suoi sostenitori. Solo quando lo spirito libertario impregnerà le organizzazioni economiche dei lavoratori, le molteplici energie creative delle persone potranno manifestarsi liberamente, e la rivoluzione potrà essere preservata e difesa. Solo la libertà di iniziativa e la partecipazione popolare nelle faccende della rivoluzione può prevenire i terribili errori commessi in Russia. Ad esempio, dato che pozzi di petrolio sorgevano a un centinaio di chilometri soltanto da Pietrogrado, questa città non avrebbe sofferto il freddo se le organizzazioni economiche dei lavoratori di Pietrogrado avessero potuto esercitare la loro iniziativa in favore del bene comune. I contadini dell’Ucraina non avrebbero avuto difficoltà a coltivare la loro terra se avessero avuto accesso ai macchinari agricoli immagazzinati nei depositi di Kharkov e in altri centri industriali, che aspettavano gli ordini di Mosca per distribuirli. Questi pochi esempi dello statalismo e della centralizzazione bolscevichi devono mettere in guardia i lavoratori d’Europa e d’America contro gli effetti distruttivi dello statalismo.
Solo la potenza industriale delle masse, che si esprime attraverso le loro associazioni libertarie, attraverso l’anarco-sindacalismo, può organizzare in modo efficace la vita economica e portare avanti la produzione. D’altra parte, le cooperative, lavorando in armonia con il settore industriale, servono da mezzi di distribuzione e di scambio tra le città e la campagna, e allo stesso tempo costituiscono un legame fraterno tra gli operai e i contadini. Si crea così un legame comune di appoggio e di servizi reciproci, e questo legame è il più solido baluardo della rivoluzione — molto più efficiente del lavoro forzato, dell’Armata Rossa o del terrore. Solo in questo modo la rivoluzione può fare da leva che accelera l’avvento di nuove forme di vita sociale e incoraggia le masse a realizzare cose più grandi.
Ma le organizzazioni operaie libertarie e le cooperative non sono l’unico mezzo di interazione tra le complesse fasi della vita sociale. Esistono anche le forze culturali che, sebbene siano strettamente legate alle attività economiche, svolgono un proprio ruolo. In Russia, lo Stato comunista è diventato l’unico arbitro di tutte le esigenze della società. Ciò ha provocato un ristagno culturale completo e la paralisi di tutti gli sforzi creativi. Se vogliamo evitare una tale débacle in futuro, le forze culturali, pur rimanendo radicate nell’economia, devono beneficiare di un ambito di attività indipendente e di una totale libertà d’espressione.
Non è la loro adesione al partito politico dominante, ma la loro devozione alla rivoluzione, le loro conoscenze, il loro talento e soprattutto i loro impulsi creativi che permetteranno di determinare la loro attitudine al lavoro culturale. In Russia questo è stato reso impossibile, quasi fin dall’inizio della rivoluzione d’ottobre, perché si è violentemente separato le masse dagli intellettuali. È vero che all’inizio la colpa fu degli intellettuali, soprattutto dell’intellighenzia tecnica, che in Russia si è aggrappata con tenacia alle sottane della borghesia — come fa in altri paesi. Incapace di comprendere il significato degli eventi rivoluzionari, si è sforzata di arginare la marea rivoluzionaria praticando il sabotaggio. Ma in Russia esisteva un’altra frazione della intellighenzia — che aveva un passato rivoluzionario glorioso da un secolo. Questa frazione aveva conservato la sua fiducia nel popolo, anche se non accettò senza riserve la nuova dittatura. L’errore fatale dei bolscevichi fu di non fare alcuna distinzione tra le due categorie.
Combatterono il sabotaggio instaurando un terrore sistematico e indiscriminato contro l’intera classe degli intellettuali e lanciarono una campagna di odio ancora più intensa della persecuzione della borghesia stessa — metodo che creò un abisso tra intellighenzia e proletariato ed impedì qualsiasi lavoro costruttivo.
Lenin fu il primo a rendersi conto di questo errore criminale. Sottolineò che si trattava di un grave errore far credere agli operai che potevano costruire industrie e impegnarsi in un lavoro culturale senza l’aiuto e la collaborazione degli intellettuali. Il proletariato non possedeva né le conoscenze né la formazione per svolgere questi compiti e occorreva restituire alla intellighenzia la direzione della vita industriale. Ma il fatto di aver riconosciuto un errore non impedì a Lenin e al suo Partito di commetterne immediatamente un altro. L’intellighenzia tecnica venne chiamata alla riscossa, ma in un modo da rafforzare al tempo stesso la disgregazione sociale e l’ostilità contro il regime.
Mentre gli operai continuavano ad aver fame, gli ingegneri, i periti industriali ed i tecnici ricevevano alti stipendi, privilegi speciali e razioni migliori. Diventarono i beniamini dello Stato e i nuovi sorveglianti delle masse ridotte in schiavitù. Educate per anni nell’idea errata che per il successo della rivoluzione contano solo i muscoli e che solo il lavoro manuale sia produttivo, e da campagne di odio che denunciavano tutti gli intellettuali come contro-rivoluzionari e speculatori, le masse non poterono ovviamente fare la pace con chi avevano imparato a disprezzare e sospettare.
Purtroppo la Russia non è l’unico paese in cui predomina questo atteggiamento ostile del proletariato nei confronti dell’intellighenzia. Ovunque, politici demagoghi giocano sull’ignoranza delle masse, insegnano loro che l’istruzione e la cultura sono pregiudizi borghesi, che gli operai possono farne a meno e sono in grado di ricostruire da soli la società. La rivoluzione russa ha tuttavia dimostrato molto chiaramente che cervello e muscoli sono indispensabili per rigenerare la società. Il lavoro intellettuale e il lavoro manuale cooperano strettamente nel corpo sociale, come il cervello e la mano nel corpo umano. L’uno non può funzionare senza l’altra.
È vero che la maggior parte degli intellettuali si considerano come una classe a parte, superiore ai lavoratori, ma ovunque le condizioni sociali minano rapidamente il piedistallo della intellighenzia. Gli intellettuali sono costretti ad ammettere che anche loro sono proletari, e che sono dipendenti dai padroni dell’economia ancor più dei lavoratori manuali.
A differenza del proletario manuale che lavora con la sua forza fisica, che può raccogliere i suoi strumenti e viaggiare per il mondo al fine di migliorare la sua situazione umiliante, i proletari intellettuali sono radicati assai di più al loro ambiente sociale specifico e non possono facilmente cambiare mestiere o modo di vivere. Questo è il motivo per cui è essenziale spiegare agli operai che gli intellettuali si stanno rapidamente proletarizzando — cosa che crea un legame tra di loro. Se l’occidente vuole trarre insegnamento dalle lezioni della Russia, deve farla finita con le lusinghe demagogiche alle masse, come alla cieca ostilità verso l’intellighenzia.
Ciò non significa, tuttavia, che i lavoratori devono mettere il loro destino nelle mani degli intellettuali. Al contrario, le masse devono iniziare immediatamente a prepararsi, ad attrezzarsi per il grande compito che la rivoluzione richiederà loro. Dovranno acquisire le conoscenze e le abilità tecniche necessarie per gestire e dirigere i complessi meccanismi delle strutture industriali e sociali dei loro rispettivi paesi. Ma anche se impiegano tutte le loro capacità, gli operai avranno bisogno della collaborazione degli specialisti e degli intellettuali.
Da parte loro, questi ultimi devono anche capire che i loro veri interessi sono identici a quelli delle masse. Una volta che le due forze sociali impareranno a fondersi in un tutto armonico, gli aspetti tragici della rivoluzione russa saranno in gran parte eliminati. Nessuno verrà fucilato perché «ha fatto degli studi». Lo scienziato, l’ingegnere, lo specialista, il ricercatore, l’insegnante e l’artista creativo, così come il falegname, il macchinista e tutti gli altri lavoratori sono parte integrante della forza collettiva che permetterà alla rivoluzione di costruire il nuovo edificio sociale.
Non userà l’odio, ma l’unità; non l’ostilità, ma il cameratismo; non il plotone di esecuzione, ma la simpatia — queste sono le lezioni da trarre dal grande fallimento russo, per gli intellettuali come per gli operai. Tutti devono imparare il valore del mutuo appoggio e della cooperazione libertaria. Tuttavia, ciascuno deve essere in grado di rimanere indipendente nella propria sfera particolare e in armonia con il meglio di quanto può apportare alla società. Solo in questo modo il lavoro produttivo e gli sforzi educativi e culturali si esprimeranno in forme sempre più nuove e ricche. Questa è per me la lezione essenziale, universale, che ho imparato dalla rivoluzione russa.
4. Ho cercato di spiegare il motivo per cui i principi, i metodi e le tattiche dei bolscevichi hanno fallito, e perché questi stessi principi e metodi falliranno domani in qualsiasi altro paese, anche il più industrializzato. Ho anche dimostrato che non è solo il bolscevismo ad aver fallito, ma lo stesso marxismo. L’esperienza della rivoluzione russa ha dimostrato il fallimento dello statalismo, del principio autoritario. Se dovessi riassumere il mio pensiero in una frase, direi: per natura, lo Stato tende a concentrarsi, a ridurre e controllare tutte le attività sociali; al contrario, la rivoluzione tende ad accrescere, ad espandersi e diffondersi in cerchi sempre più ampi.
In altre parole, lo Stato è istituzionale e statico, mentre la rivoluzione è fluida e dinamica. Queste due tendenze sono incompatibili e destinate a distruggersi reciprocamente. Lo statalismo ha ucciso la rivoluzione russa e svolgerà lo stesso ruolo nelle prossime rivoluzioni, a meno che non prevalga l’idea libertaria. Ma devo andare oltre. Non sono solo il bolscevismo, il marxismo e lo statalismo ad essere fatali alla rivoluzione e al progresso dell’umanità. La causa principale della sconfitta della rivoluzione russa è molto più profonda. Essa risiede nella concezione socialista della rivoluzione stessa.
La concezione dominante, la più diffusa, della rivoluzione — in particolare tra i socialisti — è che la rivoluzione provoca un violento cambiamento delle condizioni sociali nel corso del quale una classe sociale, la classe operaia, diventa dominante e trionfa su un’altra classe, quella capitalista. Questa concezione si basa su un cambiamento puramente materiale, e quindi comporta soprattutto manovre politiche dietro le quinte e rattoppi istituzionali. La dittatura della borghesia è sostituita dalla «dittatura del proletariato» – o da quella della sua «avanguardia», il Partito comunista. Lenin prende il posto dei Romanov, il gabinetto imperiale viene ribattezzato Consiglio dei commissari del popolo, Trotsky viene nominato ministro della Guerra e un operaio diventa governatore militare generale di Mosca. Ecco a cosa si riduce sostanzialmente la concezione bolscevica della rivoluzione, almeno quando viene messa in pratica. E, tranne un paio di dettagli, questa è anche l’idea di rivoluzione condivisa da altri partiti socialisti.
Questa concezione è intrinsecamente sbagliata e destinata al fallimento. La rivoluzione è certamente un processo violento. Ma se porta solo a una nuova dittatura, a un semplice cambiamento di nomi e di personalità al potere, allora è inutile. Un risultato così limitato non giustifica tutte le lotte, i sacrifici, le perdite di vite umane e le violazioni dei valori culturali provocati da tutte le rivoluzioni. Se una tale rivoluzione portasse un grande benessere sociale (il che non è stato il caso in Russia), ciò non varrebbe di più il terribile prezzo da pagare; si può migliorare la società senza fare ricorso a una rivoluzione cruenta. Lo scopo della rivoluzione non è di mettere in atto alcuni palliativi o qualche riforma.
L’esperienza della rivoluzione russa ha notevolmente rafforzato la mia convinzione che la grande missione della rivoluzione, della rivoluzione sociale, è un cambiamento fondamentale dei valori sociali e umani. I valori umani sono ancora più importanti perché fondano tutti i valori sociali. Le nostre istituzioni e le condizioni sociali si basano su idee profondamente radicate. Se si cambiano queste condizioni senza toccare le idee e i valori sottostanti, si tratterà allora solo di una trasformazione superficiale, che non può essere duratura né portare a un reale miglioramento. Si tratta solo di un cambiamento di forma, non di sostanza, come ha tragicamente dimostrato la Russia.
È al tempo stesso il grande fallimento e la grande tragedia della rivoluzione russa: essa ha cercato (sotto la direzione del partito politico dominante) di modificare solo le istituzioni e le condizioni materiali, ignorando totalmente i valori umani e sociali che una rivoluzione comporta. Peggio ancora, nella sua folle passione per il potere, lo Stato comunista ha pure rafforzato e sviluppato le stesse idee e concetti che la rivoluzione era giunta a distruggere. Lo Stato ha sostenuto e incoraggiato i peggiori comportamenti anti-sociali ed ha sistematicamente soffocato lo sviluppo di nuovi valori rivoluzionari. Il senso di giustizia e di uguaglianza, l’amore per la libertà e la fratellanza umana — questi pilastri di una autentica rigenerazione della società — lo Stato comunista li ha combattuti allo scopo di annientarli. L’istintivo senso di equità è stato deriso come manifestazione di sentimentalismo e di debolezza; la libertà e la dignità umana sono diventate superstizioni borghesi; la sacralità della vita, che è la base stessa della ricostruzione sociale, è stata condannata come non-rivoluzionaria, quasi contro-rivoluzionaria.
Questa terribile perversione dei valori fondamentali portava in sé il germe della distruzione. Se si aggiunge l’idea secondo cui la rivoluzione era solo un mezzo per impadronirsi del potere politico, era inevitabile che tutti i valori rivoluzionari venissero subordinati alle esigenze dello Stato socialista; peggio ancora, che fossero sfruttati per aumentare la sicurezza del nuovo potere governativo.
«La ragione di Stato» camuffata sotto la maschera degli «interessi della Rivoluzione e del popolo», è diventata l’unico criterio di azione, e anche dei sentimenti. La violenza, la tragica fatalità di sconvolgimenti rivoluzionari, è diventata una consuetudine consolidata, un’abitudine, ed è stata vantata come una istituzione «ideale». Zinoviev non ha canonizzato Dzerzinskij, il capo della sanguinaria Ceka, presentandolo come il «santo della Rivoluzione»? Lo Stato non ha tributato i più grandi onori a Uritskij, fondatore e sadico capo della Ceka di Pietrogrado?
Questa perversione dei valori etici si è rapidamente cristallizzata nello slogan onnipresente del Partito comunista: il fine giustifica tutti i mezzi. Già in passato l’Inquisizione e i gesuiti adottarono questo motto subordinandogli ogni moralità. Questa massima si vendicò dei gesuiti come si è vendicata della rivoluzione russa. Questo precetto non ha fatto che incoraggiare la menzogna, l’inganno, l’ipocrisia, il tradimento e l’omicidio, pubblico e segreto.
Coloro che si interessano di psicologia sociale dovrebbero domandarsi il motivo per cui due movimenti, così separati nel tempo e dalle idee così differenti come gesuitismo e bolscevismo, hanno portato esattamente agli stessi risultati applicando questo principio. Il parallelo storico, passato quasi inosservato finora, contiene una lezione fondamentale per tutte le rivoluzioni future e per l’avvenire dell’umanità.
Nulla è più falso del credere che gli obiettivi e gli scopi siano una cosa, i metodi e le tattiche un’altra. Questa concezione minaccia seriamente la rigenerazione sociale. Tutta l’esperienza dell’umanità ci insegna che i metodi ed i mezzi non possono essere separati dal fine ultimo. I mezzi impiegati diventano, attraverso le abitudini individuali e le pratiche sociali, parte integrante dell’obiettivo finale; lo influenzano, lo modificano, poi fini e mezzi finiscono col diventare identici. L’ho sentito fin dal primo giorno del mio ritorno in Russia, prima vagamente, poi sempre più chiaramente e consapevolmente. I grandi obiettivi che ispiravano la Rivoluzione sono stati talmente oscurati dai metodi usati dal potere politico dominante che è diventato difficile distinguere tra i mezzi temporanei e l’obiettivo finale. Sul piano psicologico e sociale, i mezzi influenzano necessariamente gli obiettivi e li modificano. Tutta la storia dell’umanità dimostra che appena ci priviamo dei metodi ispirati a concetti etici, si sprofonda nella demoralizzazione più acuta. Questa è la vera tragedia della filosofia bolscevica applicata alla rivoluzione russa. Speriamo che si saprà imparare la lezione.
Nessuna rivoluzione diventerà mai un fattore di liberazione se i mezzi utilizzati per approfondirla non sono in armonia, nel loro spirito e nella loro tendenza, con gli obiettivi da realizzare. La rivoluzione costituisce la negazione dell’esistente, una protesta violenta contro la disumanità dell’uomo verso l’uomo e le migliaia di schiavitù che comporta. La rivoluzione distrugge i valori dominanti su cui è stato costruito un complesso sistema di ingiustizia e di oppressione, basato sull’ignoranza e sulla brutalità. La rivoluzione è l’araldo di nuovi valori, perché porta alla trasformazione dei rapporti fondamentali tra gli uomini, così come tra gli uomini e la società. La rivoluzione non si limita a curare alcuni disturbi, a porre qualche balsamo, a cambiare forme ed istituzioni, a ridistribuire il benessere sociale. Certo, ha fatto tutto ciò, ma è di più, molto di più. È innanzitutto e soprattutto il vettore di un cambiamento radicale, portatore di nuovi valori. Insegna una nuova etica che ispira l’uomo inculcandogli una nuova visione della vita e dei rapporti sociali. La rivoluzione innesca una rigenerazione mentale e spirituale.
Il suo primo precetto etico è l’identità tra mezzi utilizzati ed obiettivi ricercati. L’obiettivo finale di ogni cambiamento sociale rivoluzionario è di stabilire la sacralità della vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di ogni essere umano alla libertà e al benessere. Se questo non è l’obiettivo principale della rivoluzione, allora i cambiamenti sociali violenti non hanno alcuna giustificazione. Perché sconvolgimenti sociali esterni possono essere, e sono stati, compiuti nel quadro del normale processo evolutivo.
La rivoluzione, al contrario, non significa solo un cambiamento esterno, ma un cambiamento interno, fondamentale, essenziale. Questo cambiamento interno di concetti e di idee si diffonde in strati sociali sempre più ampi, per culminare infine in un sollevamento violento chiamato rivoluzione. Un simile apice è in grado di invertire il cambiamento radicale dei valori, rivoltarsi contro di esso, tradirlo? Questo è quanto successo in Russia. La rivoluzione deve accelerare e approfondire il processo di cui essa è l’espressione cumulativa; la sua missione principale è quella di ispirarlo, di portarlo verso maggiori altezze, di dargli il massimo spazio per la sua libera espressione. Solo in questo modo la rivoluzione è fedele a se stessa.
In pratica, ciò significa che il presunto «periodo di transizione» deve introdurre nuove condizioni sociali. Esso rappresenta la soglia di una nuova vita, della nuova casa dell’uomo e dell’umanità. Deve essere animato dallo spirito della nuova vita, in armonia con la costruzione del nuovo edificio. L’oggi genera il domani. Il presente proietta la sua ombra lontano nel futuro. Questa è la legge della vita, sia del singolo che della società. La rivoluzione che si sbarazza dei suoi valori etici pone i primi semi dell’ingiustizia, dell’inganno e dell’oppressione nella società futura.
I mezzi utilizzati per preparare il futuro diventano la sua pietra miliare. Basta osservare l’attuale tragica condizione della Russia. I metodi della centralizzazione statale hanno paralizzato l’iniziativa e lo sforzo individuali; la tirannia della dittatura ha spaventato la gente, l’ha immersa in una sottomissione servile ed ha completamente spento la fiamma della libertà; il terrore organizzato ha corrotto e brutalizzato le masse, soffocando tutte le aspirazioni ideali; l’omicidio istituzionalizzato ha svalutato il valore della vita umana; tutte le nozioni di dignità umana, di valore della vita, sono state eliminate; la coercizione ha reso ogni sforzo più duro, trasformando il lavoro in una punizione; la vita sociale è ridotta ora ad una serie di inganni reciproci, gli istinti più bassi e più brutali dell’uomo sono stati di nuovo risvegliati. Triste eredità per cominciare una nuova vita basata sulla libertà e sulla fratellanza.
Non si sottolineerà mai abbastanza che la rivoluzione è inutile se non è ispirata dal suo ideale finale. I metodi rivoluzionari devono essere in armonia con gli obiettivi rivoluzionari. I mezzi utilizzati per approfondire la rivoluzione devono corrispondere ai suoi obiettivi. In altre parole, i valori etici che la rivoluzione saprà infondere nella nuova società devono essere disseminati dalle attività rivoluzionarie del «periodo di transizione». Quest’ultimo può facilitare il passaggio verso una vita migliore, ma solo a condizione che sia costruito con gli stessi materiali della vita nuova che vogliamo costruire. La rivoluzione è lo specchio dei giorni che seguiranno; è il bambino che annuncia l’uomo di domani.