PROCESSO NO TAV. CONSIDERAZIONI INATTUALI di Friederich Niciuno

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Sembra ormai giunto alla fine il processo sull’attacco al Compressore. A meno di improbabili sorprese in Cassazione, che per la verità si è già espressa più volte contro l’ipotesi di terrorismo, i vari tribunali hanno confermato una verità giudiziaria: attaccare un compressore non è terrorismo. Era quello che sostenevano i movimenti, che infatti cantano vittoria. Ma di quale vittoria parliamo?

In questi anni la lotta contro la TAV in Val Susa e altrove è andata via via scemando, a favore di un impegno sempre più sul piano della difesa giudiziaria e sempre meno capace di proposta offensiva. Non solo, la stessa vittoria giudiziaria, ammesso che di “vittoria” si possa parlare in un’aula di tribunale, è ben lungi dall’assolvere il movimento rivoluzionario dall’accusa di terrorismo: non si dice affatto che il terrorismo è la strage di “innocenti”. I giudici pongono piuttosto lo spartiacque sul colpire le persone o colpire le cose. E su questo, giudici e un pezzo di movimento, sono in preoccupante sintonia. Ed è sintonizzato sulle stesse onde anche Matteo Renzi, che dopo alcuni attaccati alla rete ferroviaria ha gettato acqua sul fuoco dichiarando che sono solo sabotaggi, non terrorismo.

Intanto, altri anarchici, come Alfredo e Nicola, che hanno sparato alle gambe ad un industriale ingegnere nucleare, sono stati, loro sì, condannati per terrorismo. Nonostante la loro azione sia stata tutt’altro che “pluridirezionale” come reciterebbe lo stesso codice penale. Quella era la gamba, nessun altro si sarebbe fatto male. La gamba destra per l’esattezza. Lo Stato è dotato di una invidiabile chiarezza che a volte a noi manca. Esiste una gerarchia fra le merci: produrre un compressore ha un certo costo per il Capitale, un costo in costante calo parallelamente allo sviluppo tecnologico; produrre un Adinolfi, un Biagi, un D’Antona ha un consto economico e sociale infinitamente maggiore. Di più, colpire un uomo che ha dedicato la vita a studiare il modo per sfruttarci meglio, che ha cercato di riportare il nucleare in Italia, o piuttosto che ha brillato fra le stelle della repressione, significa questo sì “terrorizzarne cento”. Quindi lo Stato ti punisce in maniera differente. Poi quando vuole lo Stato fa pure finta di essere scemo e ti punisce con lo stesso articolo del codice penale che usa per le stragi di fascisti e islamisti (art. 280, attentato terroristico) – ma questa è un’altra storia, perché in questo caso lo fa per infangare la guerriglia.

Qui non si tratta di fare una apologia pomposa e cazzodurista della violenza, quanto però di osservare i fatti pubblici con uno spirito minimamente critico. Incredibilmente invece una sorta di black out neurologico ha spento ogni spirito di osservazione, anche a compagni che in passato non sprecavano occasione per puntare il dito e giudicare il modo con cui gli altri si facevano la galera. Chi dissente è stato semplicemente oscurato.

E’ il caso dell’articolo di Alfredo Cospito Su “etica”, “sabotaggio” e “terrorismo” uscito nel numero 2 di Croce Nera Anarchica nell’estate del 2015 e semplicemente ignorato dal movimento NO TAV, dal movimento anarchico, da tutti. Un articolo che tra l’altro è stato scritto da una cella nella sezione speciale per anarchici nel carcere di Ferrara. Non per una sorta di feticismo del prigioniero, ma giusto per chiarire che non è lo sfogo di rete di un cyber-bullo. Non c’è stata una sola persona, fosse solo per attaccarlo, che si è degnato di rispondere ai problemi che Alfredo poneva in questo articolo. Come minimo mi sembra intellettualmente disonesto, visto i temi affrontati e la radicalità delle critiche.

Alfredo scriveva:

Possiamo dire senza enfasi, che il “movimento” ha assestato la sua ennesima vittoria. Non solo è riuscito a far digerire una versione annacquata, inoffensiva e piagnucolosa del sabotaggio ma contemporaneamente ha messo all’indice della sua “etica” superiore qualunque azione diretta violenta che vada oltre il colpire un compressore, con una molotov. Hanno vinto anche i tribunali riuscendo ad imporre limiti oltre i quali i bravi ragazzi non devono andare, se non vogliono incorrere in qualcosa di più di una sonora sculacciata.

A dirla tutta i tribunali più che vinto hanno stravinto riuscendo con la terroristica prospettiva di anni e anni di galera a fare in modo che fossero gli stessi compagni con le loro dichiarazioni a mettere i paletti oltre cui non andare. Possiamo quindi dire, sempre senza enfasi, che il “movimento” ha retto cogliendo a pieno i limiti che il potere voleva imporre, trasformando l’incendio del compressore in spettacolo, mediazione, politica, in un pieno e totale recupero del sabotaggio. Tutto quello che va oltre questa visione democraticamente accettata, non violenta del sabotaggio si fà, agli occhi di gente e giudici, terrorismo. Nicola ed io, che abbiamo sparato ad un uomo non limitandoci a distruggere delle cose, in quest’ottica siamo terroristi. Gli anarchici no tav con le loro dichiarazioni hanno avvallato di fatto questa visione, dandogli valore confermandola.

Chi, armi in pugno colpisce le persone per l’“etica” superiore di una parte grossa del “movimento” è terrorista.

 

A proposito di terrorismo Alfredo ricorda:

Chiunque conosca un po’ di storia dell’anarchia, sa bene che a volte gli anarchici hanno praticato il terrorismo, colpendo nel mucchio di una classe sociale, quella borghese, qualche volta anche in maniera indiscriminata.

 

Qui siamo molto prima di un eventuale dibattito sull’antigiuridismo. Il problema non è la difesa tecnica, il dire o far dire all’avvocato che l’imputato non ha colpito le persone ma solo le cose. Ma l’imposizione di “coordinate etiche”, il dire “oltre non si va”. Il dire “nessuno deve andare oltre”.

Io non uso gli stessi toni di Alfredo ma di fronte ad una dichiarazione del tipo “le armi da guerra appartengono agli stati e ai loro emulatori”, cosa abbiamo se non una evidente presa di distanze, in tribunale per giunta, rispetto a tutta la storia della lotta armata? Dai partigiani alle Brigate Rosse, da Alfredo e Nicola fino al Kurdistan, da Gaetano Bresci e Nestor Machkno, fino ad arrivare alla mitica e sempre osannata spagna del ’36 dove gli operai in armi autogestivano Barcellona e la Colonna Durruti marciava su Saragozza con (troppi pochi) fucili, bombe a mano, cannoni e pezzi di artiglieria, e anche qualche bombardamento aereo. La storia dell’anarchismo, di più la storia del movimento operaio in generale è storia di guerra sociale, di sfruttati in armi contro i loro oppressori.

Sei mesi dopo l’uscita dell’ultimo numero di Croce Nera, l’articolo di Alfredo trovava una sorprendente conferma, questa volta sì nelle aule di tribunale, ma in senso inverso. Infatti la condanna di Graziano è risultata essere la più alta in assoluto, sia fra suoi tre coimputati che anche con i primi quattro, se si considera il rito abbreviato.

Anche questa una notizia passata quasi silente, racchiusa in una news da agenzia di stampa, senza un minimo di riflessione, senza che ci fosse un solo compagno rompi scatole che provasse a fare delle domande. Graziano infatti è stato l’unico imputato che non ha fatto dichiarazioni in aula. Possibile che non ci sia nessuno a domandarsi: in quale altro processo della storia dell’antiterrorismo chi rivendica in aula prende meno di chi non lo fa? Nessuno che provasse a dire…forse Cospito aveva ragione…forse.

E non si può nemmeno dire di voler aspettare i 90 giorni come un consumato principe del foro. Perché è evidente che se chi ha taciuto, al contrario di ogni precedente storico, ha preso di più di chi ha rivendicato, che qualcosa non torna lo si può dire sin da subito. Almeno, proprio il minimo sindacale, si sarebbe potuto esprimere solidarietà a Graziano, dichiarare con un po’ di sana retorica che “non ci divideranno”, che si rigetta al mittente il tentativo di far passare Graziano come il “cattivo” e gli altri come “buoni”. Nemmeno questo si è scritto. Il silenzio tombale! Su Graziano, sull’articolo di Alfredo, in precedenza sulle posizioni di Alessio. Persone molto diverse tra di loro, come sono diversi dalle posizioni di chi scrive queste note, ma che in comune hanno il difetto di non essere “fedeli alla linea” del soviet di Venaus.

E passati questi famosi 90 giorni delle motivazioni sia chiaro sin da ora che non ci si potrà aggrappare magari a qualche nota di paraculismo giudiziario dell’estensore della sentenza che per non scrivere di aver fatto lo sconto a chi ha rivendicato magari citerà i precedenti penali, l’atteggiamento in aula e in carcere, ecc. Perché fino ad ora le stesse pene sono state date a tutti (quarantenni e ventenni, con precedenti diversi, che hanno partecipato e che non hanno partecipato a disordini in carcere), sarebbe solo una scusa del Giudice Estensore, non cerchiamo alibi.

Graziano ha preso di più non per ragioni giudiziarie (ad esempio la non ammissione di colpevolezza), ma politiche (un brigatista mica prende lo sconto quando rivendica!). Quali sono? Il fatto di non aver detto che lui le armi da guerra non le userebbe mai? Che lui non si sarebbe mai sognato di colpire delle persone? Non pretendiamo le risposte, ma almeno le domande qualcuno vuole farsele?

E’ evidente che qualcosa che non va c’è. Speriamo qualcuno o qualcuna abbia il coraggio di rifletterci su.

 

Friederich Niciuno

 

 

 

Progresso e illegalità

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tratto da: https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/03/07/progresso-e-tecnologia/

Il progresso ha portato l’umanità a vette mai raggiunte di conoscenza e capacità, per contro gettando le persone in abissi di miseria prima ignoti. Infatti, se come umanità siamo andati sulla Luna e siamo in grado di creare la vita in provetta, come persone non solo non siamo in alcun modo padroni della nostra esistenza, ma non siamo neanche in grado di comprendere appieno i meccanismi che regolano il funzionamento della società nella quale viviamo, incapaci di influenzarne l’andamento e quindi costretti a subirne passivamente ritmi e regole. Chi, infatti, potrebbe affermare di conoscere e comprendere tutti i retroscena dell’economia e della politica nazionale e mondiale ed il modo in cui essi si riflettono sulle nostre vite? Ed anche ammettendo di conoscere e comprendere appieno questi meccanismi, quale influenza possiamo avere in quanto individui su di essi?
Attraverso il progresso la società tecnologica procede verso la propria naturale evoluzione, ovvero verso un mondo sempre più efficiente.
È facile cadere nell’errore di identificare la tecnologia con i congegni sempre più evoluti che fanno via via la loro comparsa, come ad esempio il telefonino di ultima generazione o un computer particolarmente potente, ma questi sono soltanto manifestazioni della tecnologia. La tecnologia è un insieme di interazioni tra le diverse branche della scienza e tra le diverse istituzioni: la tecnologia è un vero e proprio ordinamento sociale.
Per progredire rapidamente la tecnologia ha bisogno di efficienza, ad esempio nello scambio di informazioni o nella raccolta di dati, ma al contempo man mano che progredisce essa scopre metodi e strumenti sempre nuovi per ottimizzare le energie. Dunque il progresso tecnologico si nutre e genera efficienza.
Qual è il ruolo dell’essere umano in una società ispirata all’efficienza? Una macchina per funzionare al meglio non ha bisogno di teste pensanti ma di ingranaggi docili. Il cittadino ideale di una simile società è una persona prevedibile, abitudinaria, senza distrazioni, pienamente calata nella propria routine, capace di soffocare le proprie aspirazioni in nome del bene comune. Sappiamo però che l’essere umano non può facilmente essere costretto entro questi ristretti limiti. Esistono delle forze, proprie di un essere umano, che lo spingono ad agire in maniera non prevedibile e non razionale. Queste forze sono i sentimenti, le emozioni, i desideri e le convinzioni, siano esse etiche, religiose o politiche: la rabbia, la paura, l’odio, l’amore, la tristezza, la gioia, ognuno per un motivo diverso possono influenzare negativamente la nostra concentrazione e la nostra dedizione nei confronti del ruolo assegnatoci nella società.
Dunque per far sì che l’essere umano diventi finalmente il perfetto ingranaggio di una macchina ben oliata i sentimenti, le emozioni e le convinzioni dovranno pian piano sbiadire fino a scomparire. I mezzi per raggiungere questo obiettivo non mancano e molti trovano già largo impiego, come la pubblicità, l’educazione, la propaganda, gli psicofarmaci o le droghe. Tuttavia trasformare gli esseri umani da animali sociali in atomi disgregati non è semplice. Prima è stata indebolita la fiducia in sé stessi e negli altri, dipingendo il mondo come un luogo minaccioso nel quale sentirsi sempre in pericolo, poi sono stati introdotti dei surrogati, qualcosa che sostituisse il rapporto con le altre persone e con ciò che ci circonda. E per chi nonostante tutto sentisse montare dentro l’ansia, la rabbia, la paura, lo stress, la noia o la disperazione per una vita piatta e priva di attrattiva, ci sono farmaci e droghe in abbondanza.
Una caratteristica umana a cui in particolare è stata dichiarata una guerra feroce è l’egoismo. Per funzionare bene come ingranaggio infatti una persona deve desiderare il bene comune, da anteporre a qualsiasi interesse personale. È necessario sacrificare i propri desideri e le proprie aspirazioni al bene superiore della società, in modo che questa possa prosperare. Essere definiti egoisti è infatti ritenuto generalmente offensivo e difficilmente le persone ammettono anche davanti a sé stesse di desiderare qualcosa solo per sé stesse.
Uno dei punti principali dell’efficienza è che essa richiede ordine, che viene imposto attraverso regole e leggi. Ma che valore possono avere regole e leggi se non vengono rispettate? È quindi indispensabile per la società tecnologica assicurarsi che le leggi che essa emana vengano osservate. Dobbiamo perciò aspettarci che progredendo essa diminuisca gradualmente la tolleranza nei confronti di ogni forma di illegalità e di devianza, mettendo in campo strumenti di controllo e repressione sempre più efficaci. Tuttavia questi strumenti per poter essere impiegati hanno bisogno di essere accettati dalla gente, ed a questo riguardo si sta opportunamente diffondendo una vera e propria ideologia della legalità, che ha trasformato le persone in onesti cittadini, forcaioli e spietati ne condannare qualunque tipo di reato.
Del resto in un mondo percepito come ostile e pericoloso le leggi, le regole e le restrizioni cessano di essere viste come limitazioni alla propria libertà e diventano sicure recinzioni all’interno delle quali sentirsi protetti.
Se dunque la tecnologia è anche e soprattutto un ordinamento sociale basato sull’ideologia dell’efficienza, e quindi dell’ordine e della legalità, potrebbe essere utile sviluppare e incentivare la contro-ideologia dell’illegalità. Da un lato supportare i contesti in cui le persone infrangono la legge, dall’altro contrastare le tesi legalitarie e cittadiniste che sempre più vanno prendendo piede, giustificando il crimine davanti alla gente, dimostrando che legalità non è sinonimo di giustizia ma negazione di libertà, con l’obiettivo di dissipare l’alone di tabù e di rifiuto che nell’epoca del lagalitarismo circonda qualsiasi attività che vada contro la legge.
Gettare, nei limiti del possibile, i semi del caos e dell’egoismo laddove dovrebbero regnare ordine ed abnegazione nei confronti del bene collettivo.
Infatti l’illegalità, e nello specifico quel tipo di illegalità che esula dall’ambito militante o politico, quel tipo di illegalità che scaturisce da un desiderio egoista di soddisfare le proprie necessità ed i propri capricci materiali, prima ancora di rappresentare una sfida all’ordine costituito ed alle sue regole è una messa in discussione della supremazia del bene collettivo sugli interessi personali.
Chi delinque è incompatibile con una società tesa all’efficienza proprio perché il criminale mette il proprio interesse al di sopra di quello della società.
Inoltre infrangere la legge taglia molti dei fili che normalmente ci legano: istruiti fin da piccoli a determinati schemi di comportamento, spesso incapaci di infrangerli più per la forza d’inerzia dell’abitudine e per la profondità con cui essi sono radicati in noi che per la reale paura delle ritorsioni legali, vederli cadere potrebbe aprirci gli occhi sulle infinite possibilità di interazione con la realtà che ci circonda.
Questo ovviamente non vuol dire che tutto ciò che è illegale sia per questo condivisibile o anche solo accettabile, anche perché nell’illegalità possono comunque replicarsi schemi autoritari o di dominio non dissimili da quelli che caratterizzano questa società, tuttavia l’illegalità, rappresentando un margine al di fuori del controllo totalitario che la società tecnologica aspira ad esercitare su ogni individuo ed ogni sua azione come su ogni risorsa, specialmente economica, è per essa una spina nel fianco, anche perché rappresenta una riserva di valori che la società tecnologica vorrebbe annientare, come il coraggio, la refrattarietà alla disciplina, la capacità di provvedere alle proprie necessità e via dicendo.
Non si abbatterà la società tecnologica praticando il crimine o spingendo le persone a delinquere, ma è certo uno strumento che crea smagliature nelle reti dell’ordine e del totalitarismo tecnologico, utile per sottrarre terreno all’ideologia dell’efficienza che si sta facendo strada nelle persone e nella società in generale lasciando dentro di noi solo aridi deserti di diritti e doveri.

Anonimo, Progresso e illegalità, in «Croce Nera Anarchica», n. 0, aprile 2014.

LO STAGNO MORTO E L’ACQUA FRESCA di Michele Fabiani

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Sono convinto da tempo che il cosiddetto “movimento “, definizione di cui ho sempre poco compreso il significato, sia ridotto ormai ad uno stagno morto. Penso che non sarà dal “mondo dei compagni” politicizzati che potrà mai scaturire quel terremoto auspicabile per impensierire seriamente il sonno dei padroni.

Molti pesci nello stagno sono già stecchiti, altri sono emigrati o si sono rintanati. I più attivi passano il tempo a “beccarsi” a vicenda, puntualizzando, rispondendo e criticando gli altri. Il dibattito ruota su tematiche che capiscono solo gli addetti ai lavori. Sociale/anti-sociale; anonimato/rivendicazione; rivoluzione/rivolta, quando non trascende alla critica di quello che ci mangiamo a cena (vegan contro tutti) o al nostro modo di scrivere (i/e, x e altri neologismi antisessisti); ecc.

Quella che manca è una spinta propulsiva e distruttiva (per il nemico). Non sono un nemico della teoria: tutt’altro! Per certi aspetti sono un vero secchione (non uso il termine nerd perché poco internettaro e grande amante del profumo dei libri), un pervertito del dibattito, dell’analisi, dello studio. Siccome sono anarchico, penso però che la teoria debba essere sembra appiccicata alla pratica. Non nel senso che sono due binari paralleli, e nemmeno in senso di “danza” marxiana prassi-teoria-prassi; ma nel senso che Teoria/Pratica devono essere già unite.

Il dibattito però, e quindi anche l’azione (che è appunto la stessa cosa, oppure è accademia), dovrebbe occuparsi di cose, per così dire, interessanti – mi si perdonerà se sono un po’ antipatico.

Nell’anarchismo d’azione non c’è stata alcuna seria analisi su quella che viene generalmente considerata una delle più grandi crisi della storia del capitalismo. E se questo può sembrare troppo economicista, non c’è stato nemmeno alcuno studio degno di questo nome su quello che da sempre è il campo privilegiato dagli anarchici: la natura dello Stato e i mutamenti fondamentali che questa sta maturando.

E siccome pensiero e azione dovrebbero essere la stessa cosa per gli anarchici, anche l’azione risente di queste deficienze. Perché mentre il capitale era claudicante, noi non gli abbiamo fatto lo sgambetto; e mentre lo Stato si sta riformando noi non sappiamo individuare i gangli principali della sua nuova macchina, e annientarli.

 

Lo stato c’è. O ci fa?

Mentre i soliti giovani autonomi, ormai ottuagenari, da 40 anni ci scassano i coglioni sull’estinzione dello Stato, sull’Impero e su altre amenità, lo Stato ben lungi a morire è vivo e vegeto, anzi fa proprio quello che fanno gli organismi in buona salute: si rinnova e con un metabolismo di tutto rispetto.

Non che non ci sia una crisi delle istituzioni costituite, ma questa crisi viene gestista dall’organismo statale come una malattia della crescita, da curare e da cui uscire più forte. O almeno ci prova.

Lo Stato è anzitutto potere. Potere politico ed economico. Chi ha provato a rovesciare il secondo, senza distruggere il primo, ha finito per rinnovarli entrambi. Il potere è ovunque, nella famiglia e nelle assemblee, nei rapporti affettivi, ecc. E ovunque si forma del potere si rinnova lo Stato.

Lo Stato è potere, è vero. Ma non è semplice potere: lo Stato è potere organizzato. Lo Stato, quindi, è un organismo.

Mi hanno sempre fatto incazzare i leaderini di “movimento” (il Movimento, questa entità fantasmagorica! A differenza dello Stato!) che si mettevano a fare le pulci a chi usava la slogan “colpire il cuore dello Stato”; sostenendo che lo Stato è “diffuso”, è “ovunque” e non ha un cuore. Lo Stato, in quanto organismo vivente, ha un cuore, una testa, degli artigli e dei denti ben affilati. Lo Stato è diffuso ovunque, certo, anche nelle nostre case, ma è diffuso ovunque in una certa maniera, ha una organizzazione, è una macchina vivente. In quanto vivente ha dei punti deboli che sono mortali, ed altri che possono fare molto male. Altrimenti dire che lo Stato è diffuso diventa un pretesto per fare un po’ come ci pare, sprecando le nostre potenzialità con anni di galera (quando si tratta di compagni dignitosi) oppure colpire dove si rischia meno.

 

Il nuovo super-Stato europeo

Come abbiamo detto lo Stato vive un momento di forte trasformazione. Questa trasformazione delle volte produce febbri e momenti di crisi, quasi tutte generate dal suo interno (i rivoluzionari al momento non sembrano in grado di impensierirlo).

Da questa parte del mondo, stanno sperimentando la costituzione di un nuovo super-Stato europeo. La costruzione di questo mostro non è lineare e segna momenti di discontinuità con le varie nazioni che si scazzano tra di loro sui propri interessi contraddittori. L’ipotesi generale del progetto sembra però delineata.

Lo Stato, come sempre, è il cane da guardia dei padroni. In termini estremamente semplicistici l’idea sembra essere quella di allargare la recinzione a difesa della ville dei ricconi e mettere più cani e sempre più incattiviti a loro difesa (che poi a volte si mordono tra di loro o pisciano sull’albero sbagliato, ma sono cose che capitano).

L’aspetto più affascinante del progetto sembra essere la sua schiettezza. Vengono a saltare quei meccanismi scenici che reggevano il teatrino politico e che si sono così accuratamente sviluppati negli ultimi due secoli: tenderanno a perdere di importanza i parlamenti, i partiti, i sindacati. Il rapporto di forza sembra abbastanza semplice: qui ci sono i nostri interessi, le banche, la moneta, le industrie, le multinazionali, insomma qui c’è il nostro “orto”; e questi sono i “cani”, questi sono i fucili con cui accoglieremo gli intrusi. I migranti li hanno già visti, sia i cani che i fucili.

Allora gli anarchici dovrebbero dibattere su questo, invece che su tante amenità: come si arriva al cuore della nuova macchina statale? e più vicino casa dove sono i nodi principali della rete? chi la sta tessendo? cosa gli facciamo?

 

Sociale o anti-sociale? Una questione storica

La gran parte dei pesci nello stagno invece che affrontare queste ed altre questioni di sostanza, per andare a mordere la carne viva dell’organismo statale, si impantano nelle solite diatribe. Sopra ne ho citate alcune, l’unica di cui vale la pena parlare è la dicotomia fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Un dualismo che attraversa il nostro movimento fin dalle sue origini.

Spesso semplicemente ci si schiera con uno dei due “partiti”. Qualcuno cambia idea, passando da una sponda all’altra dello stagno, ma è raro che la contraddizione venga risolta positivamente. Il caso più importante nella storia dell’anarchismo forse è rappresentato dagli anarchici italo-americani che si raccoglievano intorno a Luigi Galleani, i quali erano anti-organizzatori nella struttura e comunisti o comunque classisti nella lettura della società. Dei compagni e delle compagne che hanno fatto molto male al capitalismo americano proprio negli anni in cui emergeva come potenza mondiale.

Io credo che la dicotomia fra sociale e anti-sociale non vada affrontata come una questione di identità. Che non valga ora e per sempre. Penso che l’unico modo per superare la contraddizione sia affrontandola storicamente: ci sono momenti in cui si deve essere sociali e altri in cui non si può che essere anti-sociali.

Quando ci sarà l’insurrezione, nel senso proprio del termine di milioni di persone armate per strada, sarà necessario essere pronti all’intervento sociale ed essere organizzati per combattere, per difenderci, per prevenire le derive autoritarie dei moti rivoluzionari. In quel caso dire “io la mia rivoluzione la faccio ogni giorno” diventerà solo una masturbazione, perché sarà evidente che quello che sta accadendo è qualcosa di qualitativamente diverso.

Viceversa, in un periodo contro-rivoluzionario (come quello odierno) non possiamo che essere anti-sociali. Perché l’intervento sociale diventa una foglia di fico che nasconde solo il nostro nudo attendismo. Diventa la scusa per non fare un cazzo di niente. Altro che avanguardismo, qui siamo alla retroguardia! La “gente” si modera sempre più e i rivoluzionari adeguano sempre più in basso i proprio sogni di rivolta. La degenerazione di tanti movimenti (no global, no tav, lotta per la casa, ecc.) sta lì ad indicarlo.

In sintesi, in qualunque momento, anche nel più buio, un singolo individuo o una piccolissima minoranza di affini può rappresentare una spina nel fianco dietro le linee nemiche. Può anche fare molto male e non essere solo uno sfogo esistenziale. Però può anche rappresentare, da un punto di vista esistenziale, un momento di formazione. Questa non va messa nel cassetto personale, ma può diventare un fatto storico se in un periodo più favorevole la si usa per far avanzare un movimento che è diventato di massa (senza però aspettarla la massa, come fosse il Messia).

 

Storia e Volontà

C’è dunque una questione ancora più teorica da affrontare. Perché fare dibattito è importante, purché si dibatta di temi intelligenti e interessanti. Capire quanto è forte lo Spirito della Storia e quanto la nostra Volontà.

Si collega perfettamente a quanto detto nel paragrafo precedente, anche se un gradino più in astratto.

Io ritengo che le grandi questioni storiche siano piuttosto indipendenti dalla nostra volontà di singoli individui. C’entra la ricchezza, la povertà, le guerre. Non in un senso meccanicistico: talvolta la crisi genera reazione e la guerra genera nazionalismo. Ma comunque l’emergere o meno di un periodo rivoluzionario è un qualcosa in larghissima parte indipendente da noi.  Al contrario, se un gruppo di sfruttati questa sera esce e fa un’azione violenta contro i loro sfruttatori, questo rappresenta (quasi) un puro atto di Volontà. A meno che non si voglia fare del becero psicologismo: tipo la figura del padre, l’insoddisfazione sessuale, o altre stronzate delle pseudo-scienze che la borghesia stressata si è inventata.

Questa questione, apparentemente filosofica, assume una sua importanza se la si usa per affrontare ad esempio la frattura fra anarchismo sociale e anarchismo anti-sociale. Cioè se la si vuole affrontare con serietà e non come polemicuccia fra pesci nello stagno morto.

Qual è l’arcano? Trovare la formula soggettiva con cui un gruppo di rivoluzionari, legati da una qualche affinità, possano agire senza attendismi nelle condizioni date. Questa formula non vale ora e per sempre, ma deve essere capace di rigenerarsi, magari anche auto-archiviarsi, col divenire della realtà

 

Fuori dallo stagno, verso la fonte di acqua fresca

Non credo che tutto il movimento potrà uscire dallo stagno morto. I pesci, dopo un po’ di tempo nell’acquario non sopravvivono se rimessi in libertà. Non è detto che nemmeno il sottoscritto ci riesca.

Quello che è certo è che la ricerca della fonte di acqua fresca sta un’altra parte. Sta nella sperimentazione di nuove prospettive di azione. Sta nello studio dello Stato e nel colpirlo nei nodi principali della sua rigenerazione. Sta nello studiare le crisi del Capitale per aggravarle.

Chi vuole rimanere nello stagno morto, va lasciato marcire. Fuori c’è tutto un mondo da sovvertire.

 

[GRECIA] TESTO DELLA COSPIRAZIONE DELLE CELLULE DI FUOCO – CELLULA DI GUERRIGLIA URBANA

 

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IL PIANO

 

Per lo “spazio” anarchico.

 

1) La chiamata.

Ogni chiamata all’azione, come il dicembre nero, è un intento di coordinare le nostre forze. E’ uno sforzo per interrompere il flusso normale della realtà. E’ un piano per invaderla con le nostre proprie caratteristiche e sovvertirla.

E’ una sonda del nostro desiderio per l’anarchia, qui e ora, e della nostra capacità di far fronte alle forze dell’ordine.

E’ un’occasione perchè gli individui, si conoscano o meno, si riuniscano nel terreno dell’azione e cerchino di attaccare i palazzi del potere, organizzata e all’improvviso.

E’ un segnale internazionale di complicità per tutt* i/le compagn*, dentro e fuori le mura, che rafforza la nostra solidarietà.

E’ un accordo anarchico che conferma che ci sono persone in tutti gli angoli della terra che senza parlare la stessa lingua, coordinano il battito del proprio cuore, allineano la vista verso il nemico, stringono i pugni, usano un cappuccio e realizzano attacchi contro il motore sociale dell’autorità, le sue strutture e i suoi affiliati. La chiamata al “dicembre nero” è stato questo momento.

E adesso? Tornare alla normalità?

Ogni chiamata all’azione può essere solo una fotografia della rivolta riflessa su sè stessa, aspettando il prossimo anniversario, la prossima opportunità, la prossima “chiamata” o può essere un incontro con la storia.

Per tutt* quell* per cui l’anarchia significa “incendio tra me e i ponti della responsabilità e la pace sociale”, l’azione anarchica non ha nessuna data d’inizio nè di fine.

Pertanto la sfida del “dicembre nero” apre in realtà una sfida più grande. Una sfida per quell* il cui calendario di attacco è rimasto inchiodato alla costante dell’oggi, qui e ora.

La sfida di creare un polo anarchico autonomo per l’organizzazione della guerriglia urbana anarchica.

 

2) La memoria non è spazzatura.

Il dicembre nero è stata una convocazione aperta a tutto il mondo, però si è registrato principalmente come un punto di riferimento per gli/le insort*, gli/le anarco-nichilist*, i/le giovani compagn*, gli/le indecis*, i “facinorosi”, contro lo stato (e in parte contro l’inattività del campo anarchico, contro la sua trasformazione pacifista)**

Non ci riferiamo tanto alla chiamata per il dicembre nero.

Ogni chiamata all’azione è un’istanza di una storia più grande che l’ha preceduta e talvolta l’accelerazione dello scenario che la segue.

Non ci sarebbe dicembre nero se non ci fosse un novembre, ottobre, settembre. Non ci sarebbe guerriglia urbana anarchica se non ci fossero tafferugli ai cortei, barricate e molotov, non ci sarebbe stata nessuna rivolta nel 2008 se non ci fossero stati incendiar* e squadre d’attacco nei 3 anni precedenti. Non ci sarà futuro se non c’è memoria.

Attraverso il tempo, l’anarchia dà alla luce – internamente – al proprio superamento anarchico.

Si dà la luce a tendenze con gli estremi più affiliati (individualismo anarchico, nichilismo anarchico, insurrezionalismo anarchico) che optano per muoversi ai limiti del movimento, dello “spazio” rivoluzionario.

A volte queste tendenze agiscono come detonatore dell’anarchia, sollevando la lancia dell’attacco anarchico e a volte vengono fagocitate riempitesi di presunzione e arroganza.

In Grecia, l’apparizione di tendenze “eretiche” all’interno dello “spazio” anarchico è tanto antica quanto lo spazio in sé.

Tendenze che, nel bene si ridussero e si convertirono in circoli di intellettual* artistic* (per esempio i/le situazionisti) o furono assimilate e integrate nello “spazio” ufficiale. Tutte loro tuttavia, hanno lasciato la loro traccia nella storia che non finirà mai.

 

Nel 2005 un circolo di persone apre al pubblico in modo molto visibile (manifesti, riviste, partecipazioni ad assemblee) la sfida di potenziare la violenza anarchica, con la parola d’ordine “pensa rivoluzionario – agisci offensivo”. Una tendenza insurrezionale che mira non solo allo stato e autorità se non anche alla complicità dell’apatia sociale apparsa ora più organizzata e con una presenza pubblica costante. Nel frattempo la questione della negazione del lavoro si mostra in pubblico, con attacchi armati alle banche, come suo filo affilato.

Di fatto, la tematica parziale del rifiuto del lavoro, strizzando gli occhi è in realtà il prologo delle discussioni sulla diffusione della guerriglia urbana anarchica.

Fuori da questa mobilità diffondibile (incendi dolosi, rapine, attacchi comandati, assemblee come il coordinamento d’azione) fu il gennaio del 2008 quando nacque la C.C.F.

La C.C.F. appare come l’espressione organizzata di una tendenza anarchica eretica con un chiaro orientamento verso la lotta armata e alle relazioni con l’individualismo anarchico, al nichilismo, la rivoluzione della vita quotidiana e la critica al complesso stato-società.

Ovviamente, non fu questa tendenza che diede origine all’insurrezione del dicembre 2008.

Una rivolta non può essere appropriata da nessuno né tiene diritti di autore.

Però fu soprattutto la tendenza che ha avuto i riflessi per accelerare alcuni degli eventi più conflittuali che si produssero nel dicembre 2008, poiché le piccole strutture basilari stavano già operando con attacchi coordinati regolari.

 

3) Aggiornandosi con il presente.

 

Le prime detenzioni per CCF nel settembre del 2009 (caso Halandri) crearono una tempesta dei media.

La maggior parte delle tendenze eretiche (anarco-nichiliste, anarco-individualiste, antisociali ecc…) si piegarono per il panico della repressione infiltratasi nella sicurezza del movimento anarchico ufficiale, e le belle parole sulla “rivoluzione o morte” finirono come un cadavere in putrefazione, con l’aspetto del tradimento.

Alcuni compagni furono indistruttibili e volevano continuare quel che si era iniziato.

Però riguardo tutto questo, molto s’è detto e molto s’è scritto.

Ad ora, una gran parte del movimento anarchico sta vivendo con l’impronta della sconfitta, con lo strumento della repressione, con l’opportunità persa di una sollevazione che non portò a nulla in questi tempi di crisi, isolamento ed egemonie informali.

Tuttavia la parola d’ordine che si è diffusa non può stabilirsi e certamente nulla si perde per sempre.

Negli ultimi due anni, una nuova tendenza anarchica sta facendo la sua apparizione dai resti del passato, seguendo il proprio corso.

Una tendenza che non si è creata tanto per caratteristiche politiche reciproche, fino al desiderio reciproco di qualcos’altro di differente di quello che già esiste nel movimento anarchico in Grecia. Una tendenza che sembra più omogenea di quel che realmente è dovuto a quelli che la criticano. In realtà si tratta di un’ondata di persone che comprende dai compagni coscienti fino alle persone che semplicemente odiano la polizia e vogliono eruttare.

 

  1. La collisione tra vecchio e nuovo

 

Ogni nascita è violenta. Ogni nuovo fronte che nasce sta mettendo in dubbio e scontrandosi con il ventre dal quale proviene, tentando di recidere il cordone ombelicale. Attraverso la natura temporanea, tutte le eresie che nascono all’interno del movimento anarchico hanno diretto la propria critica incandescente contro le vecchie strutture. Per quanto riguarda il senato del movimento anarchico, se non prende nel nuovo per progettare nell’infallibilità della loro irriducibilità, alla fine lo combatteranno con la paura senile del cambiamento. Specialmente oggi, sembra che la comunicazione fra vecchio e nuovo sia persa per sempre.  Le ragioni sono molteplici, ma la storia non aspetta la nostra introversione. Ciò che è urgente è una nuova idea, un piano per la continuazione della lotta. Ogni piccolo nuovo fronte anarchico si trova ad affermare ciò che esso odia nel movimento anarchico “ufficiale”. La critica contro l’immobilità del movimento soppianta spesso la critica alla tirannia dell’autorità. Ora pensiamo che la situazione interna del movimento anarchico si sia più che mai polarizzata. E’ per questo che è il momento per il passo successivo. La nuova tendenza anarchica può abolire l’introversione, autodeterminarsi e creare il suo proprio movimento anarchico autonomo.

 

La memoria è una componente fondamentale di questo sforzo. Ricordiamo le nostre esperienze passate, non per imitarle, ma per superarle. Il fatto che il nuovo fronte anarchico stia soffrendo la carenza di organizzazione nell’azione e nei momenti assembleari, perché pensano che essa sia una caratteristica della burocrazia del movimento anarchico ufficiale, è come se gliela stessero cedendo.

 

L’organizzazione, l’assemblea, l’agire politico non hanno diritto d’autore. Sono mezzi di lotta che vengono determinati attraverso le persone politiche che vi partecipano… La massima e l’atteggiamento considerati non conformisti del tipo “non mi interessa dei procedimenti, faccio quello che voglio…” è un timore e una conservazione perversa di fronte alla puntualità e alla responsabilità di cui un anarchico necessita per partecipare alla guerra della guerriglia urbana. Uno strumento non ha connotati positivi o negativi, ma al contrario tale connotazione si determina a seconda dell’uso che di tale strumento viene fatto. Un’assemblea politica è burocratica quando le persona che vi partecipano sono burocrati. Senza dubbio un’assemblea può essere un meccanismo di formazione, di coordinazione e di propulsione per l’analisi, un mezzo di sviluppo personale e collettivo. Creiamo ora i nostri propri meccanismi politici, senza burocrazia, le nostre proprie assemblee senza pettegolezzi, le nostre proprie organizzazioni senza ranghi… Conserviamo le nostre proprie infrastrutture per la rivolta armata contro il dominio dell’autorità.

 

  1. I 5 punti per una tendenza anarchica autonoma e offensiva.

 

L’anarco-nichilismo, l’anarco-individualismo e, in generale, le eresie anarchiche più offensive, non sono “incidenti” nella storia dell’anarchia, ma al contrario ne sono la parte più stimolante. Queste tendenze possono adesso formare un movimento politico autonomo.

 

Un movimento che non cerca la completa unità di vedute nella verità del vangelo teorico e negli statuti della chiarezza ideologica. Un movimento che non ricatti per ottenere la totale condivisione dei suoi punti di vista, ma che riconosce l’affinità politica dei gruppi che partecipano e si incontrano in cinque caratteristiche basilari.

 

Prima di tutto siamo anarchici, indipendentemente dalla nostra particolare denominazione (nichilisti, insurrezionalisti, individualisti, etc.). Come anarchici non rifiutiamo di riconoscere soltanto lo Stato e l’autorità, ma neanche alcun comitato centrale della “rivoluzione”, alcun esperto ideologo, né alcuna relazione gerarchica al nostro interno. Ci organizziamo su base informale e nel coordinamento di gruppi ed individui con affinità politica.

 

In secondo luogo, la polemica contro lo Stato e l’autorità non tralascia la complicità sociale del silenzio, dell’apatia e della sottomissione. Attacchiamo con azioni contro lo Stato, i suoi rappresentanti e le sue strutture, ma allo stesso tempo vogliamo infrangere le relazioni sociali che li rendono accettabili e che a volte riproducono l’autorità nella vita quotidiana.

 

In terzo luogo, appoggiamo la Federazione Anarchica Internazionale. Desideriamo che le nostre ostilità all’interno degli Stati nei quali viviamo si connettano a livello internazionale come momenti di una guerra anarchica globale. Stiamo scambiando idee, stiamo condividendo esperienze, stiamo creando relazioni di solidarietà e vogliamo costruire una federazione anarchica internazionale in cui i frammenti di una esplosione a Santiago del Cile arrivino fino ad Atene e si moltiplichino…

 

Quarto, noi non ci diamo per vinti con i nostri compagni arrestati. La nostra solidarietà offensiva é la vendetta per la loro prigionia. Questo non significa identificarci nella loro visione. I prigionieri non sono idoli sacri né simboli della lotta, ma sono coloro che non sono più al nostro fianco… La coerenza di tutti quei compagni prigionieri che restano irriducibili nelle carceri e che non vacillano é una prova che la lotta vale la pena…

 

Infine, promuoviamo la diversità nell’agire anarchico. Siamo capaci di creare i nostri propri squat, le nostre proprie istanze politiche, assemblee, gruppi, i nostri progetti editoriali, i nostri mezzi di informazione. Senza dubbio, poiché spesso l’invocazione di diversità si trasformo in una scusa per emarginare le pratiche anarchiche armate, dobbiamo mettere in chiaro che la diversità non si produce da sola. Gli squat, i manifesti, gli eventi, il materiale stampato, i mezzi di informazione asserragliati sulla linea della perseveranza dei propri progetti si stanno trasformando in isole di presunta libertà senza minacciare l’autorità. La diversità autentica della lotta deve essenzialmente appoggiare e promuovere il confronto armato con il sistema. É l’incontro del movimento con il campo insorgente. É il rituale del passaggio dalla teoria all’azione, dal rischioso all’organizzato, dal fortuito al pianificato.

 

É la propaganda col fatto.

 

Questi cinque punti chiave (alcuni sono stati esposti precedentemente in testi della Cospirazione delle Cellule di Fuoco e della FAI – vedere “Fuoco e Polvere”) sono gli elementi di una proposta aperta a tutti gli interessati a partecipare, ad arricchirla, a criticarla, a metterla in atto.

 

In nessun caso si tratta di un recinto ideologico, ma di un’occasione per la discussione pratica. La consapevolezza é nel nucleo della proposta per la formazione di uno spazio autonomo delle tendenze anarchiche eretiche.

 

Il primo progetto collettivo nel quale la consapevolezza viene realmente messa alla prova, é un gruppo anarchico. Nell’ottica di stimolare questa discussione, nei prossimi mesi pubblicheremo una serie di testi personali di alcuni compagni prigionieri della Cospirazione delle Cellule di Fuoco (Olga Economidou, Georgios Polidoro, Christos e Gerasimos Tsakalos).

 

Le esperienze, inquietudini e la prospettiva del progetto di un gruppo anarchico attraverso la narrazione personale non sono istruzioni per la pratica armata, ma senza dubbio possono contribuire al dibattito sulla guerriglia urbana e il suo sviluppo.

Allo stesso modo, l’esperienza non può essere trasferita. É per questo che la scommessa é quella di passare dalla teoria all’azione.

 

Come inizio di questa discussione divulgheremo tra pochi giorni l’opuscolo del compagno della Cospirazione delle Cellule di Fuoco Gerasimos Tsakalos “Individualità e gruppi anarchici” che stamperemo presto…

Dalla lettura… alla complicità…

 

Cospirazione delle Cellule di Fuoco – Cellula di Guerriglia Urbana

Federazione Anarchica Informale – F.A.I.

Conspiracy of Cells of Fire – Urban guerilla cell.

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Ricevo e pubblico. Al più presto la traduzione del testo 

 

The plan.

To the anarchist “space”

  1. The call.

Every call for action, like “Black December”, is an attempt to coordinate our forces. It is an effort to

interrupt the normal flow of reality. It is a plan to invade it with our own characteristics and subvert

  1. It is a poll of our desire for anarchy here and now, and of our ability to confront the forces

of order. It is an occasion for people acquainted or not, to meet in the action field and try to raid to

the palaces of the state, organized and abruptly. It is an international signal of complicity to all the

comrades within and outside the walls that strengthens our solidarity. It is an anarchist agreement

which confirms that there are people in all corners of the earth, that without speaking the same

language, they coordinate the pulse of their hearts, align their gaze facing the enemy, clench their

fists , wear a hood and attack against the social engine of authority, its structures and its relations.

The call of “Black December ” had such moments …

And now what? Back to normality?

Each call for action may be just a snapshot of revolt repeating itself, waiting for the next

anniversary, the next opportunity , the next ” Call ” or it maight turn to an appointment with

history …

To all those for whom anarchy means “I burn behind me the bridges of capitulation and of social

peace”, the anarchist action has not any date of beginning or end…

Thus, the bet of “Black December ” actually unlocks a larger bet. A bet for those whose

calendar of attack is constantly stuck in today, here and now. The challenge of creating an

autonomous anarchist pole for the organization of the anarchist urban guerrilla.

2) Memory is not garbage.

« Black December ” was an open call to everyone, but was mainly recorded as a point of reference

for the insurrectionary, the anarchist-nihilists,the young comrades, the non aligned, the

“troublemakers” against the state ( and partly against the inactivity of the official ‘anarchst space’,

against its pacifist transformation).

We are not going to refer that much to the call of “Black December”.Each call for action is an

instance of a more comprehensive history that preceded and perhaps the accelerator of a

perspective that follows.

There would be no “Black December” if there was no November, October, September … there

would be no anarchist urban guerrilla if there were no clashes in demos, barricades and

molotov cocktails, there would be no revolt in 2008 if there were no arsonists and commando

attacks the three previous years, there will be no perspective if there is no memory.

Through time, anarchy gives -internally- birth to its anarchist overcoming. It gives birth to

trends (anarchist individualism, anarshist nihilism, insurrectionary anarchy e.t.c.) with the most

sharpened corners, which choose to move at the edge of the movement, of the “space”, of

revolution… Sometimes such trends act as a detonator for anarchy, raising the bar of the

anarchist attack and sometimes cannibalizing each other full of conceit and arrogance…

In Greece the appearance of heretic trends within the “space” is as old as the “space”itself.. Trends

that either declined and turned into circles of artistic intellectuals (eg situationists) or were

assimilated and integrated in the official “space”… All of them though, have left their mark in a

story that’s never ending.

In 2005, a circle of people opens in public, in a very visible way (posters, magazine, participation in

meetings) the challenge of upgrading the anarchist violence, with the slogan “think revolutionary –

act offensive”. Appears, now more organized and constant public presence An insurrectionary

tendency that aims not only at the state and the authority but also at the complicity of social

apathy, appears now, more organised and with a constant public presence. Meanwhile, the issue of

work refusal opens in public, with armed bank robberies as its cutting edge… In fact, the partial

thematic of work refusal, twinkles the eye and is actually the prologue of discussions on the

diffusal of the anarchist urban guerrilla. Out of this diffusible mobility (arsons, robberies,

commando attacks, assemblies such as Coordination of Action) was in January 2008 the

Conspiracy of Cells of Fire was born. The Conspiracy of Cells of Fire emerges as the

organized expression of an heretic anarchist trend with a clear orientation to the armed

struggle and references to anarchist individualism, to nihilism, the revolution of everyday life

and criticism in the state-society complex.

There was, Of course, it was not this trend that gave birth to the insurrection of December 2008. A

revolt cannot be cpyrighted or owned.

But it was mainly the trend that had the reflexes to accelerate some of the most conflicting

events which occurred in December 2008, since the small core structures were already

operating regular coordinated attacks.

iii) Catching up with today

The first arrests for Conspiracy of Cells of Fire at September 2009(the case of Chalandri) created a

storm of fear. The majority of the heretic trend (anarcho-nihilists, anarcho-individualists, antisocials

etc) bowed at the panic of oppression, integrated at the security of the “official” anarchist

movement, and their big words about “revolution or death” were left behind like a rotting carcass,

looking like betrayal. Those who were realizable, were a few comrades who remained unshakeable

and wanted to continue what has been started… But for all these things, many has been said and

written… Today, a big part of the anarchist movement has been living with the imprint of defeat, the

fear of oppression, with the lost opportunity of an uprising that never came to be in these times of

economic crisis, of introversion, of informal hegemonies. However, the consignment that’s been left

cannot be determined when will be of use and certainly nothing is lost forever. The last two years, a

new generation of our anarchist trend is making an appearance from the debris of the past, making

their own course. A trend that has been created not so much because of the mutual political

characteristics but because of the mutual desire for something different from what it already exists

in the anarchist movement in Greece. A trend that appears more homogenized than it really is due to

those who criticize with depiction. In reality it’s a wave of people that includes from conscious

comrades to persons that just hate police and want to make an outbreak..

  1. iv) The clash of old and new

Every birth is violent. Every new wave that is born is questioning and clashing against its womb,

wanting to cut the umbilical cord. Intertemporarily, all heresies that are born inside the anarchist

movement have targeted with their incandescent critique the old structures. Respectively, the senate

of the anarchist movement, if they cannot take in the new by projecting the infallible of their

inveteracy, then they will fight it with the senile fear of change. Especially today, it seems that the

connection of communication between old and new has been lost permanently… The reasons are

many, but history doesn’t wait for our introversion. What is urgent is a new idea, a plan for the

continuation of the struggle. Every new anarchist wave is often discovering itself by stating what

they hate in the “official” anarchist movement. The critique against the immobility of the movement

many times supplanters the critique against the tyranny of authority. We now think that the inner

situation of the anarchist movement is polarized more than ever. That’s why it’s the time for the next

step. The new anarchist trend can abolish the introversion, be self-determined and create its own

autonomous political anarchist movement.

Remembrance is a basic component of this effort. We remember our past experiences, not to imitate

them, but to exceed them. The fact that the new anarchist wave is suffering from lack of

organization in procedures and assemblies, because they think that this is a characteristic of the

bureaucracy of the official anarchist movement, it’s like they are bestowing this to them.

The organization, the assembly, the political procedures don’t have copyrights. They are means of

struggle that are determined through the political persons who are taking part in them… The

aphorism and the supposedly unconventional attitude like “I don’t care about the procedures, I’ll do

what I want…” is a perverse conservation and a fear against the punctuality and responsibility that

an anarchist needs in order to partake in the urban guerrilla warfare. A tool doesn’t have a positive

or negative hue, contrariwise, they way that tools are used has. A political assembly is bureaucratic

when the people that are taking part are bureaucrats. Nevertheless, an assembly can be a living

procedure of conformation, coordination and propulsive analysis, a mean of personal and collective

development. Let us now create our own political procedures, without bureaucracy, our own

assemblies without jabbers, our own organizations without ranks… Let’s us construct our own

infrastructures for the armed bust against the empire of authority.

  1. v) The 5 points- for an autonomous and offensive anarchist trend

Anarcho-nihilism, anarcho-individualism and in general the more offensive anarchist heresies, are

not “accidents” in the history of anarchy, but on the contrary, they are the most promoted parts of it.

These trends can now constitute an autonomous political movement.

A movement that doesn’t seek the absolute agreement in theoretical gospel truth and the statutes of

ideological clarity. A movement that doesn’t blackmail for an aggregate identification of views, but

one that recognizes the political kinship of the groups and individuals who take part and meet in 5

basic characteristics First of all, we are anarchists regardless of our particular mentions (nihilists,

insurgents, individualists etc). As anarchists we do not recognize not only the state and authority,

but also not any central committee of “revolution”, no ideological expert, not any hierarchical

relationship in our interior. We organize based on aformalism and coordination of groups and

individuals of political kinship. Secondly, the polemic against the state and authority doesn’t leave

beyond approach the social connivance of silence, the apathy and obsequiousness. We attack with

actions against the state of officials and their structures, but at the same time we want with our

address to blow up the social relationships that make acceptable and sometimes procreate the

authority in everyday life. Thirdly, we support the International of Anarchists Federation. We desire

that our hostilities in the interior of the states we are living to be connected as moments of an

overall anarchist war internationally. We are exchanging ideas, we are sharing experiences, we are

creating solidarity relationships and we pursue to constitute an international anarchist federation

where the fragments of an explosion in Santiago Chile will reach to Athens and then multiply…

Fourthly, we do not give up on our imprisoned comrades. Our offensive solidarity is the retaliation

for their captivity. This doesn’t mean identification with their views. The prisoners are not sacred

idols, nor symbols of struggle, BUT they are those who are missing from our sides… The

consequence of all these imprisoned comrades who remain unrepentant in the prisons and don’t

grow thin, is a proof that the struggle is worth… Finaly, we promote the diversity in anarchist

actions. We are able to create our own squats, our own political procedures, assemblies, groups, our

publishing ventures, our means of information media. Howbeit, because often the invocation of

diversity becomes the alibi of marginalization of armed anarchist practices, we need to make clear

that diversity doesn’t reproduce itself. The squats, the posters, the events, the printings, the media of

information that are retrenching in the borders of perseverance of their ventures, are turning to

island of supposedly-freedom without threatening authority. The authentic diversity of the struggle

essentially has to support and promote the armed clash with the system. It is the encounter of the

movement with the insurgent realm. It is the rite of passage from theory to action, from the

serendipitous to the organized, from the fortuitous to the planned.

It is propaganda through action.

These five key points (some have been reported previously in texts of the Conspiracy of Cells of

Fire and the FAI – see “Fire and Gunpowder”) are the elements of a proposal that is open to all those

interested in participating, in enriching, in criticizing, in working it out.

In no case does it constitute an ideological fence, but instead an occasion for practical discussion. At

the core of the proposal for the establishment of an autonomous space of heretic anarchist trends, is

consciousness.

The first collective project where consciousness is actually tested, is an anarchist group. In the

context of this discussion’s propulsion, we will cite in public in the coming months a number of

personal texts of some imprisoned comrades of the Conspiracy Nuclei of Fire (Olga

Economidou, George Polydoros, Christos and Gerasimos Tsakalos).

The experiences, concerns and the prospect of the project of an anarchist group through personal

narratives are no instructions for the armed practice, but certainly have to contribute to the debate

on the urban guerrilla and its propulsion. Besides, the experience cannot be transferred. That ‘s why

the bet is to move from theory to action.

As an initiation of this discussion we ‘ll publicize in a few days the pamphlet of comrade in

Conspiracy of Cells of Fire Gerasimos Tsakalos ”Individualities and Anarchist Groups “which will

soon be released in print … From reading … to complicity …

Conspiracy of Cells of Fire – Urban Guerilla Cell.

Informal Anarchist Federation – F.A.I.

RISPOSTA AD HANNIBAL

ANTI

Sono stato molto indeciso sul rispondere o meno a questo scritto, ma solo per il semplice fatto che certe “amenità” (riciclando il tuo termine) non meriterebbero nemmeno risposta. Rispondo con la speranza di aprire qualche spunto di riflessione, perché dal tuo scritto non escono né spunti di riflessione, né critiche costruttive sulle quali ragionare, anche se so che sarà difficile, perché quando bisogna cambiare le proprie abitudini personali si tende spesso (a volte inconsciamente, a volte no) a resistere al cambiamento. Partiamo dalla frase con la quale cominci: “Cattiverie gratuite a parte, chi scrive queste note ha scelto una vita di lotta, scontro, violenza, galera perché sente dentro si sé un senso di empatia verso tutti gli oppressi e di odio verso tutti i padroni, a partire dai miei.” Già qua ci sono contradizioni. Dove senti quest’empatia verso TUTTI  gli oppressi mentre ti nutri ed appoggi lo sfruttamento proprio dei piú oppressi tra gli oppressi?(e difendi pure questa idea…).Quale odio verso i tutti i padroni se ti ergi proprio a padrone delle vite e dei corpi degli animali non umani?

Per quel che riguarda  il tuo discorso sul fatto che i vegani siano “a Milano” o comunque provenienti da grandi città ti devo contraddire ancora. Il maggior numero di vegani è nelle zone degli appennini toscani  e nella bassa bergamasca, luoghi non proprio “metropolitani”. Poi essendo io stesso un “montanaro” posso dirti che forse tra “i montanari” è piú difficile fare passare certi messaggi, proprio per il discorso fatto nel comunicato sui benefit sulle  “strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società” che sono ancora piú radicate  in noi “montanari”. Altra considerazione da fare è che spessissimo la scelta di diventare vegani spinge all’autoproduzione e allo “scappare dalle città” scegliendo per l’appunto la campagna o la montagna. L’uscita da te fatta “sui sentieri tracciati dai cacciatori utilizzabili come vie di fuga dopo le azioni ” non la commenterei neanche, solo che è una scusa che non avevo mai sentito, quindi ti do voto 10 per l’originalità.

Il veganismo come atto politico è una scelta anticapitalista ed antiautoritaria e non si pone come “obbligo morale” perché nessuna lotta antiautoritaria potrebbe porsi in questo modo. Non si tratta di amore verso gli animali non umani, non si dice che bisogna amarli per forza, ma riconoscerli come individui con lo stesso diritto alla libertà che auspichiamo per tutt* noi. Conosco compagn* che degli animali se ne fregano altamente e non hanno i un minimo di empatia verso di essi, ma nonostante ció sono vegani solo ed unicamente come atto politico (discorso che forse non è chiaro  a molt* compagn*).

Come ci si puó dichiarare antiautoritari e cibarsi di brandelli di individui imprigionati,sfruttati ed uccisi? Perchè l’autoritarismo e le gerarchie le vogliamo distruggere,o sbaglio?

Poi nel tuo quadro generale noto nettamente che hai le idee molto,molto confuse( per non dire totalmente errate) su cosa sia l’antispecismo. Non è assolutamente un “Peace & Love” come  da te descritto ,non è roba da freakkettoni, non so dove tu ti sia informato, ma sei informato veramente male.

Le pratiche d’azione sono le medesime degli anarchici, perché l’antispecismo ha le sue radici anche nell’anarchismo verde .Tenti di  creare una sorta di divisione con una frase tipo “Insomma abbiamo di fronte due realtà. Da una parte l’antagonismo, col suo modo di vestire, col suo modo di mangiare, col suo modo di parlare; dall’altra chi è rivoluzionario e lotta con le armi per abbattere lo Stato e sterminare i padroni. Da un lato la forma, dall’altro la sostanza ”scordandoti che peró gli antispecisti sono anche compagn* con i quali si dividono le strade, le lotte, la repressione, la prigionia, le azioni ed anche le modalità di agire. Una differenza forse potrebbe essere nel fatto che nelle azioni di sabotaggio a volte, oltre che cercare di causare il maggior danno economico possibile,si porti in salvo qualche vita. Parlo per me personalmente, ma anche per quei fratelli e sorelle di lotta con i quali ho il piacere di confrontarmi. Nessuno di noi è contro l’uso della forza o della violenza per distruggere lo stato ed il capitalismo. Ed ora veniamo alla conclusione del tuo scritto, la parte sui prigionieri, cosa che sinceramente mi ha spiazzato di piú :  tu contrapponi  una tipologia di prigionier* con quella che secondo te è la mentalità antispecista, come se da una parte ci fossero i duri che agiscono con la forza e dall’altra i pacifisti che vogliono solo parlare e teorizzare. Come se da parte antispecista mancasse solidarietà e complicità verso i prigionieri anarchici (lo siamo noi stessi anarchici!) e come se a marcire in quelle galere non ci fossero anche compagn* antispecist*.Ci sono forse prigionier* di serie A e prigionier* di serie B? Per me rimangono fratelli e sorelle imprigionati, in un certo modo e per motivazioni differenti, proprio come gli animali non umani imprigionati negli allevamenti. Questo farà storcere il naso, ma la realtà è questa, se si vogliono abbattere le gabbie, bisogna volerle abbattere tutte, cominciando da quelle mentali che non ti fanno vedere l’essere a tua volta lo sfruttatore ed il boia.

Concludo riportando un pezzo di un volantino che distribuiamo con il collettivo al quale appartengo alle nostre iniziative:

“Solo riconoscendo loro lo status di soggetti, e non di oggetti, non ci si comporterà da sfruttatore e nemmeno ci si renderà complici di siffatte torture. E il mangiar brandelli di una animale in questo preciso contesto storico, politico e culturale, non è compiacere le logiche di dominio che trovano negli animali non umani schiavi incapaci di ribellarsi, non per condizione mentale ma fisica? Non è forse su di essi che lo sfruttato diventa a sua volta sfruttatore come per una sorta di rivalsa? Il ritornello “Io voglio mangiare quello che mi piace” sarebbe ammissibile in un mondo privo da ogni forma di dominio, un mondo di cui delle gabbie sono rimaste solo le macerie ma dovremmo essere realisti e constatare che è impossibile in questa società rimanere neutrali, che “ogni singolo individuo può cambiare le cose, il modo in cui le cambiamo dipende da noi, perchè la scelta è nostra.” E’ il nostro agire quotidiano che permette alla teoria di svestire i panni della retorica per divenire azione, quell’incantevole parola in bocca a tanti anarchici. Il veganismo non rappresenta altro se non un’azione di libertà in questo mondo di prigioni.”

 

Le lotte non sono separate

Liberazione totale

 

Un veganarchico

 

DISSOCIAZIONE-A-DELINQUERE

 

dissociazione

Il primo Febbraio, l’agenzia ANSA ha battuto una notizia nella quale si comunicava che Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ex militanti delle Brigate Rosse, avrebbero a breve presenziato ad un seminario della Scuola della Magistratura, intervenendo sul tema della giustizia ripartiva e sulle alternative alla pena (per inciso, il polverone suscitato dalla notizia ha fatto sì che venisse cancellato l’intervento di Faranda e Bonisoli).

Curiosamente, più o meno contestualmente – nel silenzio di piombo degli organi di comunicazione di movimento – il militante anarchico Alfredo Cospito batteva dal carcere una lettera aperta intitolata “Su etica, sabotaggio e terrorismo” nella quale si rivolgeva ad alcuni giovani no-tav e, per estensione, all’area variegata e magmatica dei “compagni” sollevando una questione mica da poco: la presa di distanza, da parte della totalità degli imputati per azioni di sabotaggio legate alla questione della tav, nei confronti di tutto ciò che vada oltre la categoria del “sabotaggio”; un “tutto” che andrebbe a finire dritto dritto nel calderone del “terrorismo” e quindi, nemmeno troppo implicitamente, nella pentola della criminalizzazione, facendo buon gioco alla borghesia ed alla sua pletora di giudici, magistrati, tribuni e novelli Torquemada.

Al di là dell’apparente distanza (generazionale, ma anche ideologica) tra i soggetti coinvolti nei due episodi sopra citati, appare a mio avviso significativo il “filo nero” che lega i fatti sollevati da Cospito alla proposta di collaborazione con le istituzioni offerta dal duo Faranda/Bonisoli: la dissociazione.

Non che la dissociazione sia un tema di cui non si sia ampiamente parlato nell’ultimo trentennio, ma ciò che rileva è l’introiettamento di tale categoria negli interstizi stessi delle soggettività che, apparentemente, vorrebbero porsi come l’alternativa sistemica allo stato di cose presente.

E’ben noto, a chi ha qualche capello bianco come me, l’impatto devastante che la dissociazione, ben più del pentitismo, e la legge Gozzini che di essa è subdola propaggine, abbia avuto rispetto allo smantellamento delle organizzazioni combattenti all’alba degli anni Ottanta. Quando il terzetto Curcio/Moretti/Balzerani dichiarò nel clamore dei media che le Brigate Rosse si estinguevano con la loro resa, fottendosene bellamente di chi dentro quell’organizzazione continuava a militare, tenendo botta in una situazione durissima caratterizzata anche da sistematiche torture nei confronti di chiunque fosse anche solo sospettato di “flirtare” con la lotta armata; ebbene quando i tre moschettieri della sconfitta usarono le telecamere per entrare in sinergia con quello da loro un tempo chiamato Stato Imperialista delle Multinazionali per riconoscerne di fatto la vittoria e per cancellare un’esperienza contraddittoria e non lineare, ma comunque dignitosa e totalizzante per chi l’aveva vissuta sulla propria pelle, la valanga della dissociazione stava solo iniziando a travolgere quel che restava del movimento antagonista (non solo armato) del quale oggi non restano che macerie.

Oggi è del tutto normale che i figli ed i nipoti della componente più grettamente venduta di quel movimento (fu proprio Faranda ad indicare di fatto il nome di Maccari ai magistrati – e sappiamo che Maccari di carcere finì per morirci, a differenza della bella Adriana che è ancora viva e vegeta e zompetta allegramente di salotto in salotto – ) prendano le distanze dai “terroristi”, che essi siano anarchici, comunisti o semplicemente ribelli. E’ del tutto normale che personaggi come Curcio vengano idolatrati da vaste aree di movimento mentre il silenzio tombale cala su Cospito, su Lioce, sulla memoria di Mario Galesi e di chi ha combattuto armi in pugno lo stato pagandone lo scotto estremo.

Qui non si tratta di fare apologia di alcunché, ma di mettere i puntini sulle i.

Pur non entrando nel merito delle valutazioni politiche generali dell’autore del testo “su etica, sabotaggio e terrorismo”, il fatto è lampante agli occhi di chi non vuole farsi accecare dalle paillettes multicolorate dell’ipocrisia: lo Stato ha vinto e continuerà a vincere fino a quando non si recupererà un sentire comune, un afflato unitario fra le pur legittimamente diverse sensibilità che animano lo scontro politico e sociale. Un afflato unitario caratterizzato da due paletti imprescindibili: la rottura con lo stato e la solidarietà nei confronti di chi lo combatte.

Se la lotta alla tav è parte di un pluriverso di opzioni conflittuali, è bene che nessuno se ne arroghi l’esclusiva di mezzi e metodi d’intervento. E che nessuno esprima una opzione ad excludendum nei confronti delle soggettività che ritengano opportuno il salto di qualità sul piano del metodo prima ancora che sul terreno organizzativo.

La formula vincente non esiste ed il desolante quadro d’insieme del “movimento” e delle soggettività antagoniste ne è specchio implacabile. Ma certamente, la formula perdente è quella della criminalizzazione dell’altro da sé, dell’espulsione dell’opzione più combattiva dall’alveo di ciò che “è possibile”, dell’oggettiva convergenza con gli apparati istituzionali nel riconoscimento di ciò che è legittimo e di ciò che va indicato come estraneo, quindi di fatto come nemico.

Provocatori oggettivi, si sarebbe detto un tempo nei confronti di chi delegittimava.

Dissociati, dico io.

Proprio come Faranda e Bonisoli, quelli del seminario alla scuola dei magistrati.

Gli stessi magistrati sotto la cui toga si nasconde il volto putrescente dello stato.

Roberto, un compagno di Roma