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DISSOCIAZIONE-A-DELINQUERE

 

dissociazione

Il primo Febbraio, l’agenzia ANSA ha battuto una notizia nella quale si comunicava che Adriana Faranda e Franco Bonisoli, ex militanti delle Brigate Rosse, avrebbero a breve presenziato ad un seminario della Scuola della Magistratura, intervenendo sul tema della giustizia ripartiva e sulle alternative alla pena (per inciso, il polverone suscitato dalla notizia ha fatto sì che venisse cancellato l’intervento di Faranda e Bonisoli).

Curiosamente, più o meno contestualmente – nel silenzio di piombo degli organi di comunicazione di movimento – il militante anarchico Alfredo Cospito batteva dal carcere una lettera aperta intitolata “Su etica, sabotaggio e terrorismo” nella quale si rivolgeva ad alcuni giovani no-tav e, per estensione, all’area variegata e magmatica dei “compagni” sollevando una questione mica da poco: la presa di distanza, da parte della totalità degli imputati per azioni di sabotaggio legate alla questione della tav, nei confronti di tutto ciò che vada oltre la categoria del “sabotaggio”; un “tutto” che andrebbe a finire dritto dritto nel calderone del “terrorismo” e quindi, nemmeno troppo implicitamente, nella pentola della criminalizzazione, facendo buon gioco alla borghesia ed alla sua pletora di giudici, magistrati, tribuni e novelli Torquemada.

Al di là dell’apparente distanza (generazionale, ma anche ideologica) tra i soggetti coinvolti nei due episodi sopra citati, appare a mio avviso significativo il “filo nero” che lega i fatti sollevati da Cospito alla proposta di collaborazione con le istituzioni offerta dal duo Faranda/Bonisoli: la dissociazione.

Non che la dissociazione sia un tema di cui non si sia ampiamente parlato nell’ultimo trentennio, ma ciò che rileva è l’introiettamento di tale categoria negli interstizi stessi delle soggettività che, apparentemente, vorrebbero porsi come l’alternativa sistemica allo stato di cose presente.

E’ben noto, a chi ha qualche capello bianco come me, l’impatto devastante che la dissociazione, ben più del pentitismo, e la legge Gozzini che di essa è subdola propaggine, abbia avuto rispetto allo smantellamento delle organizzazioni combattenti all’alba degli anni Ottanta. Quando il terzetto Curcio/Moretti/Balzerani dichiarò nel clamore dei media che le Brigate Rosse si estinguevano con la loro resa, fottendosene bellamente di chi dentro quell’organizzazione continuava a militare, tenendo botta in una situazione durissima caratterizzata anche da sistematiche torture nei confronti di chiunque fosse anche solo sospettato di “flirtare” con la lotta armata; ebbene quando i tre moschettieri della sconfitta usarono le telecamere per entrare in sinergia con quello da loro un tempo chiamato Stato Imperialista delle Multinazionali per riconoscerne di fatto la vittoria e per cancellare un’esperienza contraddittoria e non lineare, ma comunque dignitosa e totalizzante per chi l’aveva vissuta sulla propria pelle, la valanga della dissociazione stava solo iniziando a travolgere quel che restava del movimento antagonista (non solo armato) del quale oggi non restano che macerie.

Oggi è del tutto normale che i figli ed i nipoti della componente più grettamente venduta di quel movimento (fu proprio Faranda ad indicare di fatto il nome di Maccari ai magistrati – e sappiamo che Maccari di carcere finì per morirci, a differenza della bella Adriana che è ancora viva e vegeta e zompetta allegramente di salotto in salotto – ) prendano le distanze dai “terroristi”, che essi siano anarchici, comunisti o semplicemente ribelli. E’ del tutto normale che personaggi come Curcio vengano idolatrati da vaste aree di movimento mentre il silenzio tombale cala su Cospito, su Lioce, sulla memoria di Mario Galesi e di chi ha combattuto armi in pugno lo stato pagandone lo scotto estremo.

Qui non si tratta di fare apologia di alcunché, ma di mettere i puntini sulle i.

Pur non entrando nel merito delle valutazioni politiche generali dell’autore del testo “su etica, sabotaggio e terrorismo”, il fatto è lampante agli occhi di chi non vuole farsi accecare dalle paillettes multicolorate dell’ipocrisia: lo Stato ha vinto e continuerà a vincere fino a quando non si recupererà un sentire comune, un afflato unitario fra le pur legittimamente diverse sensibilità che animano lo scontro politico e sociale. Un afflato unitario caratterizzato da due paletti imprescindibili: la rottura con lo stato e la solidarietà nei confronti di chi lo combatte.

Se la lotta alla tav è parte di un pluriverso di opzioni conflittuali, è bene che nessuno se ne arroghi l’esclusiva di mezzi e metodi d’intervento. E che nessuno esprima una opzione ad excludendum nei confronti delle soggettività che ritengano opportuno il salto di qualità sul piano del metodo prima ancora che sul terreno organizzativo.

La formula vincente non esiste ed il desolante quadro d’insieme del “movimento” e delle soggettività antagoniste ne è specchio implacabile. Ma certamente, la formula perdente è quella della criminalizzazione dell’altro da sé, dell’espulsione dell’opzione più combattiva dall’alveo di ciò che “è possibile”, dell’oggettiva convergenza con gli apparati istituzionali nel riconoscimento di ciò che è legittimo e di ciò che va indicato come estraneo, quindi di fatto come nemico.

Provocatori oggettivi, si sarebbe detto un tempo nei confronti di chi delegittimava.

Dissociati, dico io.

Proprio come Faranda e Bonisoli, quelli del seminario alla scuola dei magistrati.

Gli stessi magistrati sotto la cui toga si nasconde il volto putrescente dello stato.

Roberto, un compagno di Roma

Il digiuno prima della battaglia – Intorno alla polemica sulla carne durante i benefit

 

 

 

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Questo contributo è in riferimento al comunicato:https://thehole.noblogs.org/post/2016/02/06/benefit-per-lei-prigionier-solidali-con-alcun-oppressori-con-altr/

 

“Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

dove ognuno sia gia` pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore

e vedere di nascosto l’effetto che fa”

Jannacci

 

Cattiverie gratuite a parte, chi scrive queste note ha scelto una vita di lotta, scontro, violenza, galera perché sente dentro si sé un senso di empatia verso tutti gli oppressi e di odio verso tutti i padroni, a partire dai miei.

A spingermi a polemizzare però è l’ennesima esternazione di apparente estremismo vegan che pretenderebbe di decidere cosa devono mangiare le compagne ed i compagni che partecipano ad una iniziativa benefit. Il prossimo passo quale sarà? Decidere pure cosa debbono mangiare i prigionieri? Altrimenti niente soldi, così che con quel denaro non si commettano assassinii?

Siamo alla teologia!

Mi ritornano in mente le parole di un compagno più grande dell’appennino tosco-emiliano che si divertiva a traumatizzare le giovani leve vegane dicendo loro: se non hai mai sgozzato un agnello come potrai mai sgozzare un uomo?

Sì perché, al netto della brutalità, è di questo che parliamo.

Da qui ne discendono tante amenità sul “colpire le cose e non le persone”.

Naturalmente ci sono tantissime e tantissimi vegan che sono dei combattenti indomiti, ma il mio timore è che, in termini generali, tutto questo amore verso la vita si traduca questo sì in una civilizzazione dei nostri rapporti con il nemico.

Perché un industriale, un magistrato, un poliziotto, è anche lui un animale (probabilmente un porco – facile battutaccia). Quindi non è antispecista fargli del male. Di questo livello anche gli scontri di piazza diventeranno nella retorica pseudo-radicale una espressione di specismo. Povere bestie in divisa! (c’è già chi lo ha detto dopo il Primo Maggio NO EXPO).

Insomma abbiamo di fronte due realtà. Da una parte l’antagonismo, col suo modo di vestire, col suo modo di mangiare, col suo modo di parlare; dall’altra chi è rivoluzionario e lotta con le armi per abbattere lo Stato e sterminare i padroni. Da un lato la forma, dall’altro la sostanza.

Tutto questo ben lungi dal radicalizzare davvero lo scontro provoca invece una civilizzazione dei rapporti col nemico. Non sarà un caso se la gran parte dei vegan vivono nelle metropoli, mentre i luoghi che più resistono alla civilizzazione sono anche pieni di pastori, cacciatori, pescatori.

So che alcuni fra i più montanari dei lettori capiranno quel che dico quando chiedo: quante volte ci siamo avvicinati ad un obbiettivo, l’abbiamo attaccato e siamo fuggiti, mano nella mano, dopo l’azione, passando per i boschi, seguendo i sentieri dei cacciatori che abbiamo imparato col nonno? quanti di noi, sempre fra i più montanari, hanno sparato letteralmente i loro primi colpi con quel vecchio schioppo che teneva in cantina? quanti hanno fantasticato sulla guerriglia partigiana mentre camminavano, strisciavano, si appostavano lungo i sentieri dell’appennino con i proprio vecchi a caccia?

Queste sono cose che possono capire solo quei ribelli che sono cresciuti fra le montagne. Chi è cresciuto nel cemento può solo fantasticare su una natura che non esiste. Coloro che ancora oggi vivono lontano dalla civiltà sono coloro che meno aderiscono alla dommatica prescritta dal veganesimo metropolitano nel loro vivere quotidiano.

Se qualcuno crede sinceramente alla lotta alla civilizzazione dovrà pur sentire la necessità di domandarsi: come mai ci sono più vegan a Milano che nei Monti Sibillini?

C’è un passaggio in particolare molto importante del comunicato contro la carne alle iniziative benefit.

 

“I nostri spazi, liberati dal mondo e dalla società capitalistica, fino a che punto sono veramente liberi?

La lotta non è, e non deve essere, rivolta solo contro l’esterno. Deve essere rivolta anche al nostro interno, contro le pratiche di abuso e di potere che spesso, più o meno inconsciamente, reiteriamo a nostra volta nei confronti di noi stess*, delle/dei compagn* e negli spazi liberati. Quella contro noi stess*, contro le strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società, è forse la lotta più difficile da combattere.”

 

 

Queste sono frasi profonde che in molti sentono loro. Ebbene sono totalmente errate. Perché che la lotta più difficile da combattere sia quella interiore lo si vada a dire a quei rivoluzionari che sono morti, che marciscono in galera, che sono stati torturati (ad esempio durante il sequestro Dozier, quando dei BR vennero torturati, una compagnia stuprata con una bottiglia e un compagno costretto a guardare). E basta con queste menate frikkettone sulla lotta interiore!

Spesso anzi la coerenza diventa un alibi per non fare di più. Perché se io devo aspettare di essere coerente nel linguaggio, nel mangiare, nel pensare e solo POI agire…ebbene allora, poiché la coerenza assoluta non esiste, non farò mai un cazzo.

Io invece agisco PRIMA non DOPO aver conquistato la coerenza. La coerenza la costruisco nella battaglia. Io sono un individuo pieno di contraddizioni che non aspetta di risolverle, astrattamente, col digiuno, per diventare migliore. Io le contraddizioni me le porto dentro ed agisco QUI ED ORA. Sono portatore di contraddizioni, esplodono con la dinamite.

La loro soluzione è un fatto concreto, reale; avviene nel mondo della lotta reale, il mondo dove un oppresso si arma contro il proprio sfruttatore. Non è preliminare allo scontro.

D’altronde non è questione di lana caprina. La questione del “prima cambio dentro e poi fuori” o del “qui ed ora mi armo con altri oppressi a me affini per farla pagare ai padroni” è da sempre la questione che ha diviso il mondo dell’autonomia, dell’antagonismo, del femminismo, dell’antagonismo, dell’animalismo, ecc., … dal mondo della lotta armata.

E siccome stiamo parlando di compagni che la lotta con le armi, e non con la dieta, l’hanno fatta o sono accusati di averla fatta, pregherei di avere un po’ meno arroganza nel pretendere di imporre agli altri cosa devono mangiare o non mangiare.

 

Hannibal Lecter

Benefit per le/i prigionier*: solidali con alcun*, oppressori con altr*

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“…le ossa, il grasso, i muscoli e i tessuti di esseri che un tempo sono stati vivi e che sono stati massacrati per assicurarsi parti dei loro corpi. Questa scena vi travolge e, di colpo, scoppiate a piangere. Il dolore, la tristezza, lo shock vi sopraffanno, magari anche soltanto per pochi istanti. E, per un attimo, siete in lutto, siete in lutto per tutti gli animali senza nome che stanno di fronte a voi.”

 

James Stanescu, Questione di specie

 

 

La catena alimentare, la legge della natura, l’oppressione del più forte verso il più debole, la disuguaglianza, il dominio: il nostro è un mondo basato sulla prevaricazione che noi non accettiamo.

 

C’è chi dona la propria vita per un mondo liberato: tant* sono le/i compagn* che ci hanno lasciato e che ci lasceranno, uccis* o schiacciat* da una realtà che ci opprime ogni giorno. Tant* altr*, sacrificando la propria vita, finiscono in carcere: in gabbia. Dedichiamo la nostra esistenza a combattere le ingiustizie messe in atto dai più forti e spesso ci sentiamo impotenti di fronte a tanta violenza. Mentre siamo impegnati nelle nostre lotte, dobbiamo fare i conti anche con la repressione, facendo sentire meno soli le/i prigionier* con lettere, presidi sotto le carceri, iniziative e benefit per pagare le spese legali. Spesso, però, in questi benefit si serve carne, probabilmente perché ci si dimentica, o forse, più superficialmente, non si pensa che il contenuto di questo o quel piatto prima era un animale, un essere vivo e senziente come noi e come noi pieno di aspettative di vita, pensieri, felicità, tristezze e desideri. Istinto di libertà.

 

Come si può lottare per la libertà sfruttando la schiavitù di altri esseri che, come noi, desiderano solo essere liberi?

 

Finiamo in carcere perché non vogliamo un mondo di oppressione, senza renderci conto che, spesso, siamo noi gli oppressori. Accettare questo dato di fatto è il primo passo verso una consapevolezza generale che può permettere di realizzare un cambiamento, il cambiamento: quello verso la liberazione totale. La società in cui viviamo rende impossibile una vera coerenza, ma ciò non può e non deve sminuire i piccoli e i grandi passi che facciamo, possiamo e dobbiamo fare, se davvero vogliamo che la liberazione totale non sia un semplice slogan, ma diventi una realtà.

 

I nostri spazi, liberati dal mondo e dalla società capitalistica, fino a che punto sono veramente liberi?

 

La lotta non è, e non deve essere, rivolta solo contro l’esterno. Deve essere rivolta anche al nostro interno, contro le pratiche di abuso e di potere che spesso, più o meno inconsciamente, reiteriamo a nostra volta nei confronti di noi stess*, delle/dei compagn* e negli spazi liberati. Quella contro noi stess*, contro le strutture di dominio che ci sono state inculcate dalla cultura e dalla società, è forse la lotta più difficile da combattere. Ci impegniamo con tutte le forze per cambiare modo di vivere, per adottare un linguaggio, per intrecciare relazioni dove non ci sia posto per idee razziste e fasciste, machiste e maschiliste, omofobe e capitaliste. Siamo empatici con i deboli e con chi viene sopraffatto, perché apparteniamo tutti a una grande categoria: quella delle/degli oppress*, delle/degli sfruttat*.

 

Il rifiuto di collocarsi e collocare altr* in una scala gerarchica non può essere la scelta individuale di un singolo. Se così fosse, ne conseguirebbe che potremmo accettare e perfino rispettare ogni tipo di comportamento fascista. È una scelta che coinvolge necessariamente le/gli altr*, una scelta politica. Decidere di non cucinare e mangiare cibo ottenuto dallo sfruttamento e dalla morte degli animali è prima di tutto, infatti, una scelta politica, un’azione diretta e concreta contro ogni dominio. In quei piatti ci sono violenza e sfruttamento, la stessa violenza e lo stesso sfruttamento che ci consumano ogni giorno, sottraendoci tempo, vita e salute, trasformandoci in prodotti selezionabili nei banchi di quel supermercato chiamato capitalismo.

 

Rifiutarsi di consumare qualsiasi prodotto derivato dalla schiavitù e dalla prigionia di altri individui, umani e non umani, è l’unico modo per sottrarsi alla struttura oppressiva di ogni gerarchia, per eliminare definitivamente ogni forma di sfruttamento e di dominio dalle nostre pratiche politiche. Distruggiamo tutte le prigioni, non solo quelle degli animali umani.

 

Perché fino a quando esisteranno gabbie e sbarre, nessun* potrà mai essere liber*.

 

Alcune individualità antispeciste – azione-antispecista@krutt.org

CIVITAVECCHIA – COMUNICATO FAI/FRI SU ATTACCO AL TRIBUNALE

Ritengo importante premettere questo testo di rivendicazione sull’Attacco al tribunale di Civitavecchia del Comitato pirotecnico per un anno straordinario, F.A.I/F.R.I.

Molto spesso chi diffonde notizie di attacchi, azioni e di tutto quello che concerne la realtà antagonista nel mondo lo fa in maniera quasi asettica, prendendo notizie, o ricevendole e facendole circolare nel web.

Oggi mi sento di dare pieno appoggio e affinità di pensiero e azione a questo gruppo che ha coniugato l’ideologia con la pratica, colpendo uno dei simboli più forti della repressione statale :Il TRIBUNALE luogo, dove ogni giorno vengono giudicate, sulla base di codici creati da uomini per gli uomini per la pacificazione e l’annullamento dell’individuo, migliaia di persone, dove capeggia sulle teste togate “ La Lagge è Uguale Per Tutti”,ma chi riconosce la vostra legge?

Come anarchica affermo che non riconosco la vostra legge e non riconosco i vostri tribunali di uguaglianza democratica, ma riconosco a me affini i fratelli che in quella notte hanno piantato il seme anarchico della disubbidienza .

S.Z.

luce

 

“ Il mio core aborre e sfida

I potenti della terra,

il mio braccio muove guerra al codardo all’oppressor”

(Amore ribelle – Pietro Gori)

 

Viviamo in un stato di guerra permanente globale, la guerra perenne tra oppressori, lo sappiamo noi e lo sanno protagonisti principali e secondari del dominio. Soprattutto lo sanno gli oppressi, che subiscono l’arbitrio del potere sulle loro vite.

Proprio in questo momento assistiamo nelle strade del ricco ed opulento Occidente al passaggio di carri armati e di militari, all’aumento di controlli e presidi di difesa dell’ordine del commercio e del consumo, alla militarizzazione del territorio.

Cambiamenti che saltano agli occhi anche del più assopito degli animi, ma che la strategia di controllo globale cercherà di renderci digeribili.

 

“Tra gli sfruttati, signori,

si possono distinguere due categorie:

gli uni non si rendono conto né di quel che sono né di quel che potrebbero essere,

prendono la vita come viene, convinti che sono nati per essere schiavi,

felici del boccone che a loro si butta in cambio del loro lavoro,

ma altri ve ne sono che pensano, che studiano

e gittando attorno lo sguardo vi colgono flagranti le iniquità sociali”

(Auguste Vaillant)

 

Non siamo così miopi da ritenere che questa guerra globale abbia schieramenti così netti e marcati. Così come riconosciamo bene nemici della libertà, non possiamo sopportare la rassegnazione e la tolleranza di chi è ogni giorno disposto a cedere un pezzo della propria vita. E’ per questo che non ci illudiamo di lavorare per alcuna rivoluzione, abbiamo chiaro in mente che l’unica anarchia realizzabile è quella che viviamo quando finalmente ci liberiamo di ogni giogo e decidiamo di attaccare il dominio. Esperienza che sentiamo di condividere con compagni/e di tutto il mondo aderenti al progetto di diffusione del seme anarchico F.A.I/F.RI.

 

Stanotte questo seme l’abbiamo piantato sotto forma di ordigno esplosivo piazzato in un dei luoghi chiave sparsi nel territorio della repressione statale: il tribunale di Civitavecchia. Noi la nostra libertà abbiamo deciso di prendercela. Abbiamo affilato strumenti, analizzato tattiche, perché abbiamo sete d’anarchia, e siamo impazienti.

 

Tribunali e carceri sono semplici avamposti del dominio; luoghi non solo simbolici, ma fisici, dove lo Stato e l’autorità sigillano con il marchio della condanna, della colpa, della reclusione ed esclusione quanti non si adeguano ai dettami del controllo globale.

 

Mentre si spalancano porte sante per diffondere sentimenti miseri come pietà e misericordia, noi abbattiamo muri ideologici e reali per permettere all’odio che ci anima di riconciliarsi con l’amore per una vita libera. Oggi abbiamo agito convinti che le esperienze dei/lle compagni/e che abbiamo perso, come quelle di chi è rinchiuso od in fuga, non vogliamo portarle con noi in qualche antro del cuore, ma liberarle lasciando che armino le nostre mani, scaldino la nostra carne.

Per questo il nostro saluto va ai/lle compagni/e prigionieri/e che con la loro non sottomissione contribuiscono al diffondersi di una sovversione gioiosa e consapevole.

 

LIBERTA’PER I/LE PRIGIONERI/E ANARCHICHI/CHE IN TUTTO IL MONDO! FUOCO ALLE CARCERI!! POLVERE NERA AI TRIBUNALI!!!

LUNGA VITA ALLA F.A.I/F.R.I.

 

Comitato pirotecnico per un anno straordinario, F.A.I/F.R.I.

Korydallos Prison, Grecia : Aggiornamento sulle nuove repressioni contro CCF & Nikos Romanos

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Via:https://insurrectionnewsworldwide.wordpress.com/2016/01/21/korydallos-prison-greece-update-on-new-repressions-against-ccf-nikos-romanos/

Prigione Koridallos, Grecia

Ieri,20 gennaio, ancora una volta  una perquisizione a sorpresa è stata  condotta  all’interno delle celle che ospitano i  membri dell’organizzazione anarchica Cospirazione delle Cellule di Fuoco (CCF), così come il prigioniero anarchico Nikos Romanos,  nella sezione A del carcere di  Korydallos.

La perquisizione è stata coordinata dal funzionario della prigione Vittoria Marsioni che già in precedenza aveva minacciato i membri della CCF di trasferimenti disciplinari in altre strutture, dopo che avevano esposto uno striscione in solidarietà con lo sciopero della fame dell’anarchica Evi Statiri.

È più che certo che la Marsioni non agisca indipendentemente, ma riceva ordini dall’alto, e questa recente perquisizione non è altro che un sistematico esercizio per fare pressione sui membri della CCF orchestrato dai funzionari“di sinistra” del Ministero di Giustizia e della polizia antiterrorismo.

Sulla lotta contro il Cie di Restinco-Brindisi

http://www.radiocane.info/cie_restinco/

 

L’autunno scorso riapriva il Cie di Restinco, Brindisi, restato a lungo chiuso grazie alla sete di libertà dei reclusi che, di ribellione in rivolta, lo avevano reso inagibile. Sin dalla sua riapertura, “alcuni nemici di ogni frontiera” hanno cominciato a muoversi per rompere l’isolamento cui vorrebbero costringere gli internati. Le misure repressive scattate successivamente ai danni di alcuni compagni (fogli di via, arresti domiciliari, obblighi di dimora) non fanno altro che ribadire la volontà di tenere nascosta e in silenzio la realtà dei lager della democrazia. Della funzione del Cie di Brindisi nell’odierno sistema di gestione degli immigrati, e delle azioni di lotta portate avanti negli ultimi mesi, ci siamo fatti raccontare da due compagni leccesi, anche in vista della tre giorni contro le frontiere prevista a Lecce e Brindisi tra il 18 e il 20 febbraio 2015.

 

http://www.radiocane.info/cie_restinco/

Atto di rivolta, bene privato?

Scelgo di pubblicare l’articolo di Finimondo, sottoscrivendo ogni parola, e preferendo questo “atto di rivolta scritto” a qualsiasi rivendicazione pubblicata in questi ultimi giorni e ai vari distinguo “in buona fede”. S.Z.

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Certo, fino allo scorso millennio le cose erano più semplici. Di fronte ad un atto di rivolta c’era chi condannava e prendeva pubblicamente le distanze, c’era chi metteva la testa sotto la sabbia e faceva finta di niente, e c’era chi lo sosteneva apertamente. E non si sta qui parlando delle rivendicazioni diffuse dagli autori di quegli atti. Stiamo parlando di tutti coloro che pubblicamente esprimevano la propria approvazione, il proprio sostegno, la propria solidarietà a quelle azioni. Prendere le difese della rivolta, darle tutte le ragioni, esprimerne tutte le passioni, non dovrebbe stare a cuore ad ogni sovversivo? E prendersi questa libertà di pensiero e di parola non dovrebbe essere il minimo da fare?
Essendo difficile individuare gli autori materiali di quegli atti, ma conoscendo bene l’identità di coloro che li sostenevano pubblicamente, non di rado gli inquirenti hanno iniziato a incriminare i secondi imputando loro la paternità del fatto. Basandosi su una ipotesi, naturalmente, dato che la coincidenza fra primi e secondi non può certo essere data per scontata. Forse sì, forse no, forse solo per alcuni, forse solo in qualche caso. Ma ad uno sbirro, cosa volete che importi? Uno sbirro non fa tante distinzioni ed in fondo frenare l’idea è già qualcosa, è già un primo passo per ostacolare ed arginare anche l’azione. A titolo di esempio, a quanti anarchici è capitato di essere inquisiti perché rei di redigere pubblicazioni in cui si gioiva davanti ad atti di rivolta o di disordine? È facile capire la domanda che passa per la mente di un inquisitore: perché costoro sostengono apertamente simili atti? È chiaro che nessuna persona dabbene lo farebbe. Un simile comportamento è losco, sospetto… insomma, devono essere stati loro, e se non sono stati loro poco ci manca!
Probabilmente l’incriminazione di quella idea, con tutte le noie che ciò comporta, non è estranea al dilagare nel corso degli anni di una abitudine un tempo poco presente. Oggi, di fronte ad un atto di rivolta, c’è ancora chi condanna e si dissocia (pavidità che per altro è sconfinata dai ranghi delle organizzazioni militanti più mummificate) e chi ostenta indifferenza. Per il resto, in molti hanno iniziato a dare notizia di ciò che considerano più entusiasmante limitandosi a riprodurre scrupolosamente quanto scritto dai giornalisti, specificando la provenienza della fonte. Il risultato è che oggi i sovversivi che prendono pubblicamente le difese degli atti di rivolta sono quasi scomparsi, mentre proliferano quelli che al massimo copiano-e-incollano quanto battuto dalle agenzie stampa.
Tutto ciò ha avuto come effetto un ulteriore rafforzamento della vecchia supposizione sbirresca secondo cui una infrazione della legge possa essere apertamente apprezzata solo da chi l’ha compiuta. Basti pensare ai giornalisti, che da qualche tempo sono soliti definire «rivendicazione» ogni testo favorevole ad un atto di rivolta. Oppure basti pensare a quei leaderini militonti che un anno fa ci hanno pubblicamente indicato quali responsabili di alcuni sabotaggi all’Alta Velocità in quanto animatori di un sito che ha sempre sostenuto tale pratica. Sta diventando quasi un luogo comune, solo chi compie determinati atti di rivolta può sostenere apertamente determinati atti di rivolta. Nessun altro. Chiunque altro deve  — se non condannare o dissociarsi — stare zitto, fare finta di niente, non esprimersi, al massimo riportare la notizia nella maniera più asettica possibile prendendola dalla stampa di regime.
Ebbene, abbiamo appena scoperto che a quanto pare questa brillante logica non rimbalza solo nel desolante cervello di sbirri e loro servitori, ma frulla anche nella testolina di qualche anarchico. La cosa — considerati i tempi — non ci ha stupito più di tanto.
Ne prendiamo atto. Ma per noi sostenere un atto di rivolta, non solo non ha nulla a che vedere col ripetere pari pari le parole dei mass media, non ha nulla a che vedere nemmeno col compiacere gli autori materiali di quell’atto. Men che meno quando questi avanzano la stessa, identica pretesa di chi vorrebbe che fuori dalle condanne, dal silenzio e dalle veline ci debbano essere solo e soltanto rivendicazioni (nemmeno se questa pretesa fosse sostenuta in «buona fede», impensato effetto collaterale di una bizza).
Ecco, ci mancava solo questa. Dopo il cittadinismo che vorrebbe trasformare i bagliori notturni collettivi in bene comune, arriva un certo nichilismo che vorrebbe trasformare i bagliori notturni individuali in bene privato. Anche in questo caso, no, non siamo affatto d’accordo. A nostro avviso sostenere gli atti di rivolta dovrebbe essere opera di tutti i compagni, non solo di chi li compie. E poiché è auspicabile che i singoli compagni non abbiano un pensiero unico ed un linguaggio unico, è altrettanto auspicabile che ognuno sostenga la rivolta come meglio preferisce. Le sue ragioni, come le sue passioni, non ne usciranno affatto scalfite o strumentalizzate in quanto poco rispettose dei diritti d’autore, ma arricchite, ampliate, differenziate. Sostenere, difendere, allargare le ragioni della rivolta significa metterla a disposizione di tutti, significa cercare una breccia per portarla nel cuore di ciascuno, significa tentare di farla estendere e generalizzare. Ipotesi che evidentemente non interessa ai contemplatori della propria immagine, secondo i quali ciò che fanno può essere apprezzato solo da loro stessi e da chi ne ricalca la singola lettera. Come se un atto di rivolta fosse un fatto privato, esclusiva proprietà di chi è in grado di certificarne la paternità.
Ma se la rivolta è come la poesia e deve essere fatta da tutti, se il modo migliore per difendere la libertà di pensiero e di parola è quello di esercitarla, allora da parte nostra ci auguriamo che si abbandoni l’insulso copia-e-incolla e si inizi (o si torni) a sostenere apertamente gli atti di rivolta usando ciascuno il proprio linguaggio e le proprie ragioni. I difensori dell’ordine pubblico andranno a caccia di streghe, è possibile. I capipopolo della militanza politica andranno a caccia di provocatori, è probabile. I rivoluzionari armati doc andranno a caccia di infedeli alla linea, è verosimile.
E allora?
[8/1/16]