Il 7 dicembre è esploso, di fronte davanti alla stazione dei carabinieri San Giovanni in via Britannia, a Roma, un ordigno rudimentale, un termos d’acciaio con 1,6 kg di esplosivo. Un attacco per contro il potere e i suoi aguzzini. Un attacco che mi vede completamente affine. La rivendicazione è firmata dal gruppo anarchico fai/fri Cellula Santiago Maldonado (segue link con la rivendicazione https://anarhija.info/library/roma-italia-cellula-santiago-maldonado-fai-fri-rivendica-l-attacco-esplosivo-contro-c-it)
A pochi giorni di distanza sulle pagine di Umanità Nova viene pubblicata la risposta e la critica a questo attacco, “Disfattismo pirotecnico”, di seguito propongo due contribuiti di compagni che vogliono contribuire al dibattito in maniera costruttiva proponendo nuovi spunti di lettura.
S.Z
Dal Blog Perifusi-risposta anarchica
In chi è la salute? – Contributi ad un dibattito interno all’anarchismo italiano (1)
Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il primo dei due contributi inviati a Umanità Nova.
“La Salute è in voi!”, recitava un opuscolo uscito nel 1906 con il settimanale anarchico italoamericano “Cronaca Sovversiva”.
Si trattava, fondamentalmente, di un manuale pratico per sabotaggi, fabbricazione di esplosivi e guerriglia che, seppur oggi decisamente datato a fronte della pubblicistica anche solo degli anni ’70 (si pensi agli scritti della Rote Armee Fraktion o di Carlos Marighella), rappresenta un dato storico fondamentale per capire cosa fosse l’anarchismo di lingua italiana.
Facciamo un breve passo avanti: nel 1927 vengono giustiziati Sacco e Vanzetti, accusati di rapina e omicidio al calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree.
Giustiziati perchè anarchici e immigrati, innocenti di quello specifico atto.
Si trattava infatti non di due “piccoli angeli”, come per molti anni li ha dipinti la vulgata anche anarchica, ma di due combattenti rivoluzionari avvezzi al far saltare le case dei questori e all’uso delle armi [1] tanto quanto alla propaganda di massa, all’agitazione sindacale e allo sciopero.
Un’altro salto in avanti: nell’articolo “Disfattismo pirotecnico” di T. A., pubblicato su Umanità Nova il 17 dicembre [2] si prende in esame l’attacco ad una caserma romana dei carabinieri, fra il 6 e il 7 dicembre, facendo una serie di affermazioni che mettono insieme di tutto e un po’ in una spergiura pressochè totale dell’evento, delle persone idealmente coinvolte e di tutti i significati che vi sono legati.
Per capirci, chi scrive non è un sostenitore dell’insurrezionalismo inteso come impalcatura ideologica, poichè l’ “insurrezione” è solo uno dei tanti passaggi in cui un percorso rivoluzionario si può snodare, e caricarlo di significati eccessivi è quantomeno miope, anche perchè la realtà attuale ci dimostra che la “Guerra sociale [3]” non è materia di insurrezioni, ma di lente e altamente complesse guerre di logoramento, che nei momenti più conflittuali diventano guerre di trincea [4].
Insomma la risibilità dell’opzione insurrezionale non significa che scompaia il dato del conflitto, né quello militare, ma che passano dall’essere una “gioia” ad essere qualcosa di estremamente serio e sporco [5].
E’ centrale quindi distinguere fra Insurrezionalismi e pratiche insurrezionali.
Questa parentesi vuole essere introduttiva ad un altro concetto: se dobbiamo criticare gli insurrezionalismi, bisogna farlo innanzitutto da un dato politico, quindi da un dato pratico (ovvero proponendo alternative credibili) ma soprattutto sempre mantenendo il rispetto per chi lotta, anche in modo estremamente diverso dal nostro.
L’articolo del compagno su Umanità Nova pone tre critiche fondamentali:
Innanzitutto si afferma che azioni di guerriglia urbana sono per loro stessa natura settarie, aristocratiche e opposte ad un lavoro sociale, rifiutando un qualsiasi confronto con chi non si pone sullo stesso piano.
Lo scritto centra molti punti: innanzitutto che la chiusura in sé stessi e la mancanza di un confronto con quelle soggettività non così radicali, è un freno per la penetrazione nel tessuto sociale, così come è invece fondamentale immergersi nelle masse, avviarvi un rapporto simbiotico e di progressiva infezione.
Ma si tratta di punti diversi. Innanzitutto l’azione di guerriglia non è per forza alienante rispetto ad un lavoro di massa: la consistente simpatia di cui godettero formazioni lottarmatiste in Italia e Germania Ovest, per non parlare di quella che perdura tutt’ora in Grecia, sono una dimostrazione del contrario. Allo stesso modo, le riflessioni della prima Prima Linea [6] sul ruolo del militante pubblico e del militante armato, così come quelle dell’Autonomia organizzata sul “doppio livello”, posso dare spunti importanti.
Semmai, si può criticare l’opportunità e le modalità di uno specifico atto, la sua convenienza e il suo svolgimento. Infatti, per esempio, se la lotta armata non è assolutamente un’opzione, qui, il discorso del doppio livello si può applicare anche a chi partecipa a pratiche insurrezionali di altro tipo, quali il Blocco Nero e gli scontri di piazza.
Ma anche qui, al netto di tutto, va mantenuto l’adeguato rispetto per chi si pone in rischio per proseguire una lotta: no, nessuno ha piazzato una bomba davanti ad una caserma dei carabinieri apposta per fare un dispetto ad altri anarchici, anche perchè non serve certo l’insurrezionalismo per mandare in crisi l’anarchismo comunista/sociale in Italia: lo dimostrano i numeri scarsi, l’irrilevanza politica, i circoli che chiudono, il ricambio che non c’è, i congressi sempre più deserti. Ci si può raccontare che va tutto bene, ma farlo non lo rende vero.
E no, non bisogna dare acqua al mulino degli scazzi, provando semmai semmai ricucire, nel possibile, i rapporti personali, amicali e politici con quei/lle militanti che dimostrano di agire in buona fede, ponendo domande, critiche e risposte alternative, e non controscomuniche.
Quindi su “Disfattismo pirotecnico” si afferma che il clima di “pace sociale” in Italia non è così reale, poichè ci sarebbe un fiorire di mobilitazioni sempre più forti e radicali.
Si torna anche qui all’uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani e che per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene”.
La verità è che la riscrittura genetica della società sta andando avanti spedita: i centri città sono completamente trasformati, e ora i processi di gentrificazione e normalizzazione si stanno allargando ai quartieri a latere. Gli sgomberi e i sequestri hanno avuto un ritmo terrificante negli ultimi due anni, arrivando ad annichilire intere aree, proprio mentre il recupero riformista riusciva ad inglobare numerosi settori di movimento. Le destre hanno ormai tutte un respiro nazionale, anche quelle più neonaziste quali Lealtà&Azione e il VFS, forti di una lento ma progressivo radicamento nelle classi popolari.
La debolezza del cosiddetto “movimento” è provabile numericamente guardando due appuntamenti “nazionali” a meno di quattro anni di distanza: se nel 15 ottobre 2011 si portarono in piazza 300.000 persone, nel NoExpo del 2015 ve ne erano 50.000.
Anche qui si può tirare in ballo la solita storia degli “scontri che oscurano il corteo” a livello mediatico; c’è da dire però che se il corteo avesse sfilato pacifico, ci sarebbe stato giusto giusto un articoletto distratto, per plaudere la pacificità dei manifestanti e la bravura della polizia.
Un problema centrale emerge quasi involontariamente da un passaggio secondario dell’articolo di T.A.: “La via di uscita è […] imparare dalle masse quali sono i temi che le toccano maggiormente e, coerentemente con il nostro ideale e la nostra prassi, possano dar vita a movimenti di ribellione, imparare dalle masse quali sono gli organismi che possono divenire strumenti di autorganizzazione e di azione diretta, imparare dalle masse quali sono i linguaggi che possano rendere più accessibile la propaganda anarchica.”.
Insomma, ci si pone sempre e comunque come soggetti che (a discapito del nome di “minoranza agente”) paiono quasi cadere dal pero nei rapporti con la popolazione, subendoli e non essendovi attivi.
Qualcosa di completamente diverso da ciò che andrebbe fatto, poiché l’anarchismo è stato grande quando è stato politico, quando in tutta la sua storia ha preso in mano le redini del discorso e ha inziato percorsi di largo respiro e forte intensità, razionalmente e strategicamente pensati, in all’interno e in simbiosi con la popolazione, e non come soggetti “a servizio” della stessa, partendo dalla logica perdente dell’autodissoluzione qual’ora le cose andassero bene.
Si tratta semmai di porsi come i germi delle istituzioni del “mondo nuovo” che portiamo nei nostri cuori, come Murray Bookchin (ideologo a monte dell’unica rivoluzione contemporanea), giustamente esponeva: le assemblee di movimento devono diventare le assemblee di gestione della comune, i servizi d’ordine le sue milizie e i gruppi politici i suoi organi esecutivi.
Questo stesso percorso è stato alla base del movimento anarchico di maggior successo oggi, quello greco, che ha scelto durante il 2008 di spargersi sul territorio e di diventare il punto di riferimento delle proprie comunità, partecipandole a livello di sicurezza, di sanità, di lotte lavorative, e molto altro.
Esemplare è l’attività del K*Box, caffetteria occupata ad Exarchia, che oltre ad essere un luogo di socialità ha aperto l’ambulatorio autogestito, sostiene occupazioni abitative, combatte attivamente contro le narcomafie in quartiere e il cui collettivo politico, Rouvikonas, si è reso noto per molteplici azioni contro problemi concreti della società greca, quali la corruzione delle autorità ospedaliere, le agenzie di “liste nere” per i morosi nei confronti delle banche, o le missioni di aiuto nelle zone alluvionate di Madra.
E’ così che si può porre una critica all’insurrezionalismo: da pari. Da pari portando rispetto verso chi lotta e viene represso (e potendo così rivendicare per sé lo stesso tipo di rispetto), da pari proponendo un anarchismo competitivo ed efficace, contemporaneo e accattivante, che sia realmente quello che vuole essere.
Si tratta di fare la cosa giusta, indipendentemente che venga fatta dall’altra parte, perchè se siamo anarchici e anarchiche lottiamo per ciò che è giusto.
“[visto che] Sembra il momento di far uscire una qualche tipo di conclusione, dirò che – suppongo – non credo che le strutture o le forme di associazione volontaria che adottiamo controllino deterministicamente i nostri risultati (pur avendo una forte influenza, come la hanno tutti gli strumenti, su chi le adotta), ma che tutte le strutture e le strategie sviluppate fino ad oggi dagli anarchici abbiano serie debolezze e che queste carenze saranno letali, a meno che non si sia più onesti, flessibili, ricettivi alle critiche ed energici di quanto si sia stati finora. [7]”
Nikos Fountas
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[1] Per una storia più completa, il fondamentale libro di Paul Avrich, Ribelli In Paradiso. Sacco, Vanzetti e il movimento anarchico negli Stati Uniti, 2015, Nuova Delfi Libri, Roma, traduzione a cura di Antonio Senta.
[2] http://www.umanitanova.org/2017/12/17/disfattismo-pirotecnico/
[3] Termine molto usato da uno dei più interessanti autori anarchici dei giorni nostri, lo statunitense Peter Gelderloos, che con esso indica una condizione di vero e proprio conflitto bellico fra oppressi e oppressori, con il dispiegamento di strategie (la controinsorgenza), risorse (militarizzazione dei territori e delle forze di polizia) e legittimazioni (diritto penale del nemico, leggi anti-terrorismo, cultura del “degrado” come pericolosità…) militari.
[4] Si pensi al ruolo che hanno assunto i luoghi nei conflitti sociali contemporanei, dalla difesa di territori rurali (Zad, Bure, Hambach, Val Susa) e metropolitani (Exarchia, Gezi park, piazza Maidan) alla lotta per eradicare, mantenere o guadagnare edifici fisici (sedi fasciste, centri sociali, occupazioni).
Da notare che in Italia si è sempre affrontato il problema da un punto di vista etico-filosofico e mai da un punto di vista strategio e pratico, come per esempio sulla necessita di mantenere strutture logistiche e basi sicure.
[5] Già Nestor Makhno lo notava quando scriveva: “In una rivoluzione sociale il momento più critico non è il momento del crollo del Potere, ma il momento immediatamente successivo, il momento in cui quanti sono stati spodestati attaccheranno i lavoratori e questi ultimi dovranno difendere le conquiste appena realizzate” poichè “la classe dominante conserverà a lungo una grande capacità di resistenza e per molti anni sarà in grado di sferrare attacchi contro la rivoluzione cercando di riconquistare il potere e i privilegi che le sono stati sottratti” (in Delo Truda, n16 p. 5-4, riportato in Alexander Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), p. 190-191, Elèuthera, 2012).
Stessa cosa di cui parlerà cinquant’anni dopo Adriano Sofri su Giovane Critica, n19, 1968-1969, seppur in termini operaisti. Insomma, l’operaismo e l’autonomia riprendono concetti anarchici decenni dopo e, al contrario nostro, riescono a tenerli a mente.
[6] Si spera che si riesca a discutere con il necessario distacco di temi come P.L., analizzandoli da un punto di vista storico e politico, senza inutili emotività.
[7] Peter Gelderloos,“Insurrection vs. Organization. Reflession on a pointless schism.“, 2007, recuperabile a http://theanarchistlibrary.org/library/peter-gelderloos-insurrection-vs-organization
https://perifrourisisocialanarchism.noblogs.org/post/2017/12/23/davanti-alla-rivoluzione-contributi-a-un-dibattito-interno-allanarchismo-italiano-2/
Davanti alla rivoluzione – Contributi a un dibattito interno all’anarchismo italiano (2)
Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il secondo contributo.
In an abandoned houseboat
I’ll wait there, I’ll be waiting forever
Waiting, waiting, waiting, waiting, waiting….
(Pavement-Summer Babe)
Davanti alla rivoluzione c’è un guardiano.
Davanti a lui viene un* anarchic* e chiede di entrare nella rivoluzione.
Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’anarchic* dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. “Può darsi” dice il guardiano, “ma adesso no”.
Il 7 dicembre 2017 un bomba a bassa potenza esplode davanti alla caserma dei CC San Giovanni di Roma, cui segue la rivendicazione della “Cellula Santiago Maldonado” a firma FAI/FRI, in cui si dichiarano le volontà di spezzare la pace sociale con attentati diretti alle strutture di potere e repressive.
Dieci giorni dopo esce su Umanità Nova in merito a questi fatti esce l’articolo “Disfattismo pirotecnico”, ovvero un modo davvero un modo poco equilibrato di contribuire al noioso dibattito “organizzazione informale distruttiva vs organizzazione sociale”.
Chiariamo subito che chi scrive si identifica come “anarco-comunismo”, seppur proveniente da una tradizione molto differente da quella della Federazione Anarchica Italiana & affini (oh no! Forse questo non si può dire), e che non si ritiene vicino alle posizioni solitamente espresse dalle soggettività che si firmano FAI/FRI.
Nell’articolo sopracitato, al di là di alcuni spunti condivisibili, c’è un errore strutturale che alimenta un manicheismo inutile che divide l’anarchic* “che pensa ed euca” e quelllo “che attacca”.
La reificazione, non solo degli esseri viventi ma addirittura delle loro idee, ha cristallizzato in figure estetizzate e-soprattutto- nettamente separate, l’atto insurrezionale violento e quello comunicativo, rendendo fondamentalmente innocuo e funzionale allo spettacolo narcisista un’ anarchismo sempre più lontano dalle possibilità di aprire percorsi realmente di rottura con l’esistente.
L’attacco e l’autogestione sono due condizioni egualmente necessarie per farlo, scegliere una sola di queste due possibilità ci presenta un anarchismo azzoppato e, fondamentalmente, inadatto ad affrontare le contraddizioni del presente: il/la nihilista antisociale e il /l’ anarchic* che fa gli spettacolini a teatro sulla vittoriosa (?) insurrezione del ’36 sono le due categorie spettacolari con cui si alimenta un processo autistico completamente slegato dalle masse cui si parla tanto.
A proposito, nel succitato articolo si dice che piuttosto che gettarsi in “aristocratici avventurismi” (parafrasi mia) è preferibile imparare dalle masse per poterle poi aiutare a costruire le condizioni oggettive per la rivolta; ma cosa sono queste masse? Noi anarchici e anarchiche non ne facciamo forse parte anche noi? Ancora una volta ci si crede diversi, magari meno alienati, dalla cosiddetta massa, quando invece ne facciamo parte, e quindi nulla abbiamo da imparare da noi stessi, ma piuttosto disimparare quell’immobilismo cui siamo preda dopo anni di dominio dello spettacolo.
Ha ragione l’autore T.A. nel dire che viviamo in tempi di guerra.
Purtroppo questa guerra noi non la stiamo combattendo, perché chi rimane pacificato sono praticamente tutti i movimenti radicali.
E’ questo forse che intendevano i compagni e/o le compagne della cellula Santiago Maldonado, rompere con la pacificazione che è stata imposta all’esterno dalla repressione e all’interno dall’immobilismo di gesti ritualistici e sclerotizzati, che poco riescono a incidere nelle pratiche di nuovi movimenti di massa come Non Una Di Meno che se anche avesse un potenziale libertario- e questo è ancora da dimostrare- nasce da se’ e non certo da qualche solone anarchico.
Attenzione: ovviamente chiunque compia azioni dirette non è esente da critiche, anzi, ma cerchiamo di porle nei confronti delle strategie, non da prese di posizione meramente ideologiche.
L’anarchico Belgrado Pedrini, a dispetto della repressione e della pacificazione imposta dal regime fascista, cominciò la sua attività sovversiva già alla metà degli anni ’30, e verrà incarcerato un anno prima della formazione del CNL, anche lui un aristocratico sprezzante verso le masse?
Quante altre volte dopo un azione diretta si vedrà la solita pioggia di accuse di “avanguardismo”?
Quanto altri arresti, sgomberi, quante altre violenze e ingiustizie sociali ci vorranno per scuoterci da questo torpore?
Grazie al ministro Marco Minniti innumerevoli migranti stanno venendo torturat* in qualche lager libico proprio mentre tu, fratello e/o sorella, stai leggendo, e sotto sotto solo il fatto che sai che non può capitare a te ti spinge a non rivoltarti con tutte le tue forze verso questa violenza assurda.
Non possiamo continuare a giustificarci dicendo che “Non è il momento”, che quando “le masse si rivolteranno noi saremo con loro”, perché ogni mese in un CPR scoppiano rivolte distruttive e sequestri degli operatori-secondini nel quasi più totale silenzio.
Non sono forse parte della massa pure i/le migranti reclus*?
E’ giunto il momento di scegliere: o il nulla autistico della doppia medaglia della falloforia violentista e del nostalgismo attendista e innocuo, oppure comiciare un percorso comune che abbracci, nel rispetto delle sensibilità individuali, tutte le modalità d’azione contemplate (e quelle ancora da contemplare) per poter ricominciare a non pensare all’insurrezione come a un’utopia lontana.
L’attesa finisce quando lo decidiamo noi, basta essere vittime del Tempo.
“Che cosa vuoi sapere ancora?” domanda il guardiano, “Sei proprio insaziabile.”
“Tutti si sforzano di arrivare alla rivoluzione” dice l’anarchic*, “E come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?” Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.”
L. G.