Firenze – Sullo sgombero annunciato di Villa Panico

Manifesto Web

SULLO SGOMBERO ANNUNCIATO DI VILLA PANICO

I recenti arresti di tre persone molto vicine a Villa Panico, un partecipato presidio in solidarietà conclusosi con un corteo selvaggio per le vie dell’Oltrarno e tutti i fatti attribuiti agli anarchici ultimamente hanno scatenato, com’era prevedibile,  le ire e le condanne trasversali a ogni fazione politica. In primis il PD e il suo sindaco Nardella: pronti a difendere l’operato dell’Arma (curioso per una città che ha visto, solo per citarne una, l’omicidio di una persona per le vie dell’Oltrarno proprio per mano di quattro carabinieri) e il decoro dei muri, a detta loro “oltraggiati” da scritte. Finendo poi con le classiche merdine fascistoidi tipo Torselli, ben contente di cavalcare qualsiasi crociata anti-degrado e anti-anarchica per dare a se stessi e ai propri agonizzanti fratelli d’italia un minimo di visibilità.

“Villa Panico dev’essere sgomberata” tuonano i giornali in questi giorni, Corriere Fiorentino e La Nazione in testa, dando ampio spazio alle dichiarazioni del tale Assessore alla Polizia Municipale Gianassi, che avrebbe assicurato che all’ultima riunione del Comitato per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica il comune abbia dato piena disponibilità per finanziare l’impresa, ritenuta più che mai urgente. Apprendiamo, sempre dai giornali di regime, che la patata bollente è stata consegnata alla Prefettura, trattandosi lo sgombero di una questione di ordine pubblico, che ha risposto, per la delusione di tutti, prendendo tempo, per via di una situazione cittadina che ora sarebbe “troppo calda” per uno sgombero.
Villa Panico, nella sua attuale sede di San Salvi, è un’occupazione anarchica che esiste dal 2007: ha subìto uno sgombero, è stata occupata nuovamente, ha resistito sui tetti a un nuovo tentativo di sgombero nel 2009, è sopravvissuta a incendi, crolli e uragani. Ci hanno definito teppisti, punkabbestia e soprattutto violenti. Noi siamo innanzitutto individui che lottano contro ogni autorità, che sperimentano forme di vita collettiva in direzione ostinata e contraria al destino impostoci di docili produttori-consumatori atomizzati e segregati ognuno nei propri cubicoli. Siamo individui che rovinano i piani di chi vorrebbe una città completamente rassegnata al ruolo di cartolina per turisti, linda e decorosa, riqualificata ed esclusiva, ovvero un lucroso luna park per ricchi. Non ci facciamo abbindolare dai climi terroristici sempre utilizzati (se non creati) dai media di regime, che ci vogliono presentare i militari in città come un indispensabile incremento della sicurezza pubblica, consapevoli del fatto che altro non sono che una delle massime espressioni della volontà dello stato di conservare il proprio potere tramite la violenza delle armi. Sappiamo riconoscere il ruolo degli sbirri nella dittatura della maggioranza e le responsabilità di politici, banchieri e dirigenti che hanno reso questa città invivibile e ci batteremo sempre contro questi e contro ogni forma di repressione\oppressione e sorveglianza, perché abbiamo la nostra vita da difendere. In un mondo in cui lo Stato, nell’ottica di preservare la propria autorità detiene il sedicente “legittimo” monopolio della violenza, che chiama legge, mentre invece l’azione o reazione violenta dell’individuo contro tutti i loro organi e ingranaggi lo definisce crimine, ci rivendichiamo fieramente sia l’illegalità che la violenza, chiarendo che quest’ultima non è mai fine a se stessa o indiscriminata, ma impiegata quando necessario in un percorso che mira alla nostra liberazione individuale e collettiva.

A chi stiamo a cuore chiediamo di tenersi pronti a qualsiasi eventualità.
A chi crede che uno sgombero basterà per eliminarci da questa città vogliamo ricordare che siamo determinati a resistere e a lottare.

Con rabbia e con amore per Ale e Fra ai domiciliari e per Michele ancora in carcere.

I Panici

Udine, 2.5.16, Insurrezione o rivoluzione?

Spunti di riflessione.

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https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/05/02/udine-2-5-16-insurrezione-o-rivoluzione/

Udine, 2 maggio 2016

Si è generalmente abituati a considerare le parole “insurrezione” e “rivoluzione” come sinonimi. Ma hanno proprio lo stesso significato?
Una rivoluzione è un cambiamento radicale dell’ordine esistente. È come il riformismo, vuole cambiare l’ordine esistente, solo che il riformismo è gradualista, da che il suo cambiamento sarà graduale, anziché radicale. Teoricamente questi tre metodi, la riforma, la rivoluzione e l’insurrezione, potrebbero, o meglio dovrebbero, presupporre la stessa pulsione di base di negazione dell’esistente, dal momento che, logica vuole, se si desidera qualcosa di altro, se lo si afferma, si nega il presente. Il futuro, oltre a non esistere, è come teorizzazione la negazione del presente. L’orizzonte rivoluzionario, nel contesto storico attuale – altro discorso sarebbe da porre nel dibattito abortito fra insurrezione e rivoluzione nella configurazione di prospettive rivoluzionarie del passato –, è un’astrazione del presente altro, cioè del futuro, il non luogo per assoluto, essendo un tempo assolutamente altro, assolutamente altro anche rispetto al piano dell’esistenza in atto, per impiegare una categoria aristotelica. In ogni caso, distinguo a parte, riguardo cui si tornerà in seguito, riforma, rivoluzione e insurrezione non ci dicono nulla sull’altro che vorrebbero, ma soltanto che a un altro si aspira e il metodo con il quale si vuole tentare il suo conseguimento.
Tutto quanto sopra e quanto si dirà ancora concerne uno dei due elementi che si tratteranno qui, e cioè il perché preferire l’insurrezione alla rivoluzione. Ma vi è un altro aspetto che è quello contestuale e porta alle medesime conclusioni, volenti o nolenti. Si sta qui parlando dell’impossibilità storica di una rivoluzione.
Perché lottare, dunque?, sarà l’interrogativo del militante, del rivoluzionario. Ma questo interrogativo resterà sospeso ancora per un po’.
Piuttosto, vi è da premettere che – di rivoluzione o di insurrezione si tratti – la teorizzazione rivoluzionaria della società futura, cioè dell’utopia (senza connotazione di sorta) a nulla vale senza l’azione del presente o se toglie energie all’azione nel presente. Raoul Vaneigem scriveva negli anni Settanta, quando la possibilità rivoluzionaria aveva un minimo di credibilità in più (sebbene forse solo nella possibilità schiacciata nel bipolarismo geopolitico): «D’altro canto, non c’è nulla di più urgente per chi prepara […] l’autogestione generalizzata, di intervenire senza esitazioni né riserve contro un sistema che non si distrugge da solo se non distruggendoci allo stesso tempo»1.
L’unica prospettiva rivoluzionaria credibile oggi, cioè l’unica prospettiva di cambiamento radicale credibile oggi, è quella di un sistema che se si distruggerà sarà «da solo» e «distruggendoci allo stesso tempo». Con «da solo» intendo per mezzo di fenomeni, elementi e/o reazioni che gli sono propri in quanto prodotti da esso stesso o costituenti reazioni auspicate o almeno prevedibili dallo stesso. Si pensa per esempio a una distruzione del sistema o a un suo mutamento radicale causato da una guerra mondiale, dall’I.S.I.S., dall’impatto di un meteorite, da un’epidemia, da un disastro ecologico, da un disastro nucleare o a una presa del potere politico da gruppi neo-fascisti (Salvini, CasaPound, Le Pen, Trump, Alba Dorata, i nazionalisti britannici, i neo-nazisti tedeschi, ecc.). In ogni caso il cosiddetto Movimento, le forze che lavorano per una rivoluzione nel senso socialista, sebbene il termine oggi non vada più di moda o non venga impiegato nel suo significato storico, non avrebbero alcuna voce in capito, dal momento che sono incomparabilmente esigue rispetto a uno qualsiasi degli elementi citati dello scenario attuale. Illudersi del contrario è una delle cause maggiori della cristallizzazione dell’impossibilità.
Anche Alfredo Maria Bonanno sembra indicare qualcosa di simile, parlando a questo proposito delle «illusioni di un tempo, le quali, una volta scomparse, si sono portate con sé anche le disponibilità coraggiose, gli impegni (engagements) al di là di ogni limite, l’odore del sangue e perfino le lacrime di pietà»2.
Quanto affermava Vaneigem però, al di là del carattere illusorio dell’ipotesi rivoluzionaria in senso tradizionale, era chiaro: se si vuole mettere in pratica un mondo altro (di autogestione) bisogna prima distruggere questo.
Per di più, la morte di fatto, sebbene non nei sogni e nelle utopie dei militanti rivoluzionari, dell’ipotesi rivoluzionaria tradizionale non deve per questo portarsi nella tomba anche il coraggio, un coraggio che non sarebbe più rivoluzionario bensì semplicemente insurrezionale.
A questo punto il dato di fatto storico e l’orizzonte preferibile cui si accennava più in alto si congiungono. Non possiamo fare la rivoluzione, se anche avessimo voluto, e l’unico cambiamento radicale possibile verrebbe da cause altre da noi, sebbene sarebbe comunque preferibile all’esistente. Una catastrofe per esempio potrebbe porre fine al sistema tecno-industriale. In ogni caso, anche se potessimo fare la rivoluzione, gli sarebbe preferibile l’insurrezione.
La rivoluzione è un cambiamento radicale, si diceva. Al di là della sua radicalità, è prima di tutto un cambiamento. Si tratta di un cambiamento politico. Un cambiamento non implica solo una distruzione dell’ordine esistente, come l’insurrezione, ma anche una sostituzione di questo ordine con un altro ordine, una società con un’altra società. Ma poiché ogni società sarà per sua natura autoritaria, una rivoluzione anarchica non è possibile. Una rivoluzione marxista, leninista, stalinista, maoista, in altri periodi storici era perfettamente possibile e coerente: è l’imposizione, armi in pugno, quindi in maniera radicale, di un ordine, quello del capitalismo di Stato, a un altro ordine precedente, il capitalismo del libero mercato. Una rivoluzione anarchica porterà invece sempre a risultati autoritari, quindi, a differenza del caso della rivoluzione marxista, a una contraddizione di termini.
Alfredo Cospito rifiuta così l’idea di rivoluzione: «Non aspiro ad alcuna futura “paradisiaca” alchimia socialista, non ripongo fiducia in nessuna classe sociale; la mia rivolta senza rivoluzione è individuale, esistenziale, totalizzante, assoluta, armata»3. Un chiaro distinguo fra rivoluzione e rivolta/insurrezione viene posto come sempre molto bene anche da Max Stirner.
Una società futura, per essere altra da quella presente dovrà fondarsi su dei principi che i rivoluzionari le daranno. Nel momento in cui la rivoluzione sarà finita, gli ex rivoluzionari dovranno assicurarsi l’applicazione di quei valori. Ovviamente tali valori e tale società avranno dei nemici, poiché fortunatamente ci sono e – spero – ci saranno sempre (questa è la vittoria del qui e ora contro il totalitarismo di ogni autorità!) nemici di qualsiasi ordine esistente, come sosteneva Renzo Novatore, annoverandosi tra questi. Ci saranno sempre amanti appassionati del chaos. Così gli ex rivoluzionari fonderanno una polizia ex rivoluzionaria. E dal momento che vi saranno anche dei nemici esterni finché la rivoluzione non sarà divenuta globale verrà istituito un esercito ex rivoluzionario. Ma una volta individuati questi nemici della rivoluzione, che farne? Ecco sorgere le carceri ex rivoluzionarie. E se qualche nemico della rivoluzione non fosse ritenuto consapevole di esserne nemico? Perché lasciarsi sfuggire la possibilità di edificare – macché, riaprire! – anche i manicomi ex rivoluzionari?
In breve la società rivoluzionaria, per quanto anarchica nei proclami iniziali, diverrebbe esattamente uguale a quella esistente oggi. Quando dico uguale non mi riferisco a una misurazione con il termometro libertario. Il grado di libertarismo di una rivoluzione è una truffa. Se esiste ancora il germe dell’autorità, sebbene non configurabile a parole come autoritarismo, assolutismo, ecc., l’autorità c’è e la libertà no. La libertà o è totale o non esiste. Non si può ritenersi liberi perché si è un po’ meno schiavi. La tigre o è libera nella giungla oppure è prigioniera in un circo o in un giardino zoologico. Il fatto che nella gabbia abbia o non abbia anche le catene alle zampe è una caratteristica che può esserci o non esserci nella tortura inflitta dall’autorità, ma non c’entra con l’essere o non essere libera. Se sei in una gabbia non sei libero. E se nella gabbia prima aveva pure le catene e poi te le tolgono, cioè non fa della tua gabbia una gabbia anarchica.
Esempi di ciò sono l’Ucraina makhnovista e la Spagna della Guerra Civil. Nel primo caso, giusto per citare qualche orrore del passato, i makhnovisti avversarono Maria Grigor’evna Nikiforova che continuava a praticare l’azione diretta contro l’autorità anche dopo la rivoluzione dei bolscevichi, alleati di Makhno e Aršinov (nonostante qualche litigata sulle catene della tigre dentro la gabbia). In Spagna invece, sotto il dominio della Federazione Anarchica Iberica (F.A.I.) e della Confederazione Nazione del Lavoro-Associazione Internazionale dei Lavoratori (C.N.T.-A.I.T.), fra anarchici-ministri e altre perle della Storia, venne applicata addirittura la pena di morte alla catena di montaggio4.
L’impossibilità storica di una rivoluzione socialista e il disgusto di un nemico di ogni forma di autorità verso l’ipotesi rivoluzionaria e l’idea di una società rivoluzionaria, non implicano in alcun modo che con la rivoluzione debba morire anche il coraggio di attaccare il nemico, l’autorità. Con la morte della rivoluzione dovrebbe morire invece la politica, la tecnica di elemosinare consenso per gestire la polis. Ma, se non c’è nessuna polis e nessuna società da gestire, la politica non avrebbe ragion d’essere. Scongiurata una rimodulazione volontaria dell’autorità (rivoluzione), perché cessare di combattere?
La lotta è qui e ora. La vittoria è qui e ora. Perché la nostra vittoria è la sconfitta della volontà di pace sociale del nemico. È il gesto di ribellione, è il fuoco, la distruzione, l’annichilimento, la ferita inferta alla moralità di questo mondo, l’iconoclastia, le fiamme che dipartono da un punto qualsiasi del mostro tecnologico. Perché la ragion d’essere di ogni autorità è il poter garantire se stessa, il poter esercitare l’autorità. L’esistenza stessa del grido negatore di ogni autorità, del nichilismo attivo armato contro questa galera a cielo aperto, pertanto è la più grande vittoria, qui e ora, che si possa desiderare. Perché l’esistenza della sovversione implica la sconfitta della volontà di essere totale del dominio.
Perché l’ordine non è ordine se qualcuno, fosse anche solo uno, unico, gioisce, folle, della Guerra Totale, nella notte del chaos!

1. R. VANEIGEM, Terrorismo o rivoluzione, Edizioni Anarchismo, Trieste 2015, p. 11.
2. A.M. BONANNO, Nota introduttiva, in R. VANEIGEM, op. cit., p. 5.
3. A. COSPITO, in «Croce Nera Anarchica», n. 0, 2014.
4. H.M. ENZENSBERGER, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Feltrinelli.

Udine, 1.5.16, Contro il I maggio

 

 

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Udine, 1° maggio 2016

«Il massimo compito dell’uomo non è il lavoro, ma la libera creatività».
Max Stirner

Rintanato in casa per non sentirli, li immagino, quasi li odo, gli schiamazzi della folla festante. Evviva il lavoro! Schiavi moriremo, e felici! Evviva la schiavitù salariata! Folle informi, dove l’uno si confonde con l’altro, gli è speculare, gli si sovrappone, dove l’unico è molti perché ha scelto di morire, così nella morte meccanizzata, del corpo come dello spirito, della fabbrica, così nel passeggiare beati sotto stendardi di corporazioni vigliacche, idolatranti il lavoro e, come se non bastasse, collaborazioniste di professione con il nemico, con lo Stato e il suo Capitale, fagocitanti sezione apposite per aguzzini in divisa, di dentro e di fuori le mura delle galere, come se si trattasse di un qualunque lavoro.
È il lavoro, la schiavitù salariata il perno per l’ingranaggio chiamato Società. Ma forse fa più comodo urlare “A more il padrone!”, e costruirne, produrne scientificamente, il ruolo sociale giorno dopo giorno, legittimandone l’esistenza, facendola, permettendola, determinandola, con il proprio sacrosanto lavoro. In questo come in mille altre cose la democrazia del regime italiano e le folle, ormai nemmeno così tanto folle, elemosinanti diritti e croccantini, vanno a braccetto: la Repubblica Italiana è una repubblica fondata sul lavoro.
Che miseria, che tristezza, vedere la tigre odiare, solo nei proclami peraltro, l’addestratore del circo, ma amare – che dico, identificarsi! – con le sbarre della sua gabbie. La classe operaia, il proletariato…, di cui oggi probabilmente l’immagine più fedele sono gli operai leghisti che imprecano contro i migranti che “ci rubano il lavoro”. Ma di che stiamo parlando? Ma quale classe operaia! Ma quale classe!
Forse che la povertà è una virtù? Forse che l’essere sfruttati è una virtù? Forse che essere dei servi volontari ‘sì ben tratteggiati da La Boétie è una virtù? Forse che costruire questo necromondo, l’incubo tecno-industriale del presente e del futuro, in quelle fucine di nocività chiamate fabbriche è una virtù? Forse che il lavoro è una virtù?
Il lavoro è una merda, è solo questo e come tale va considerato. Oggi è un giorno di lutto, di lutto per tutto il tempo e tutta la creatività di cui parlava Stirner uccisi dai lavoratori.
In odio al I maggio, al lavoro, ai sindacati (più o meno di base, rivoluzionari o finanche “anarco”) e alla società tecno-industriale, qualche parola di disprezzo non si può fermare, al cospetto dell’ennesima festa ridicola, dell’ennesima farsa.