Spunti di riflessione.

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https://alcunianarchiciudinesi.noblogs.org/post/2016/05/02/udine-2-5-16-insurrezione-o-rivoluzione/

Udine, 2 maggio 2016

Si è generalmente abituati a considerare le parole “insurrezione” e “rivoluzione” come sinonimi. Ma hanno proprio lo stesso significato?
Una rivoluzione è un cambiamento radicale dell’ordine esistente. È come il riformismo, vuole cambiare l’ordine esistente, solo che il riformismo è gradualista, da che il suo cambiamento sarà graduale, anziché radicale. Teoricamente questi tre metodi, la riforma, la rivoluzione e l’insurrezione, potrebbero, o meglio dovrebbero, presupporre la stessa pulsione di base di negazione dell’esistente, dal momento che, logica vuole, se si desidera qualcosa di altro, se lo si afferma, si nega il presente. Il futuro, oltre a non esistere, è come teorizzazione la negazione del presente. L’orizzonte rivoluzionario, nel contesto storico attuale – altro discorso sarebbe da porre nel dibattito abortito fra insurrezione e rivoluzione nella configurazione di prospettive rivoluzionarie del passato –, è un’astrazione del presente altro, cioè del futuro, il non luogo per assoluto, essendo un tempo assolutamente altro, assolutamente altro anche rispetto al piano dell’esistenza in atto, per impiegare una categoria aristotelica. In ogni caso, distinguo a parte, riguardo cui si tornerà in seguito, riforma, rivoluzione e insurrezione non ci dicono nulla sull’altro che vorrebbero, ma soltanto che a un altro si aspira e il metodo con il quale si vuole tentare il suo conseguimento.
Tutto quanto sopra e quanto si dirà ancora concerne uno dei due elementi che si tratteranno qui, e cioè il perché preferire l’insurrezione alla rivoluzione. Ma vi è un altro aspetto che è quello contestuale e porta alle medesime conclusioni, volenti o nolenti. Si sta qui parlando dell’impossibilità storica di una rivoluzione.
Perché lottare, dunque?, sarà l’interrogativo del militante, del rivoluzionario. Ma questo interrogativo resterà sospeso ancora per un po’.
Piuttosto, vi è da premettere che – di rivoluzione o di insurrezione si tratti – la teorizzazione rivoluzionaria della società futura, cioè dell’utopia (senza connotazione di sorta) a nulla vale senza l’azione del presente o se toglie energie all’azione nel presente. Raoul Vaneigem scriveva negli anni Settanta, quando la possibilità rivoluzionaria aveva un minimo di credibilità in più (sebbene forse solo nella possibilità schiacciata nel bipolarismo geopolitico): «D’altro canto, non c’è nulla di più urgente per chi prepara […] l’autogestione generalizzata, di intervenire senza esitazioni né riserve contro un sistema che non si distrugge da solo se non distruggendoci allo stesso tempo»1.
L’unica prospettiva rivoluzionaria credibile oggi, cioè l’unica prospettiva di cambiamento radicale credibile oggi, è quella di un sistema che se si distruggerà sarà «da solo» e «distruggendoci allo stesso tempo». Con «da solo» intendo per mezzo di fenomeni, elementi e/o reazioni che gli sono propri in quanto prodotti da esso stesso o costituenti reazioni auspicate o almeno prevedibili dallo stesso. Si pensa per esempio a una distruzione del sistema o a un suo mutamento radicale causato da una guerra mondiale, dall’I.S.I.S., dall’impatto di un meteorite, da un’epidemia, da un disastro ecologico, da un disastro nucleare o a una presa del potere politico da gruppi neo-fascisti (Salvini, CasaPound, Le Pen, Trump, Alba Dorata, i nazionalisti britannici, i neo-nazisti tedeschi, ecc.). In ogni caso il cosiddetto Movimento, le forze che lavorano per una rivoluzione nel senso socialista, sebbene il termine oggi non vada più di moda o non venga impiegato nel suo significato storico, non avrebbero alcuna voce in capito, dal momento che sono incomparabilmente esigue rispetto a uno qualsiasi degli elementi citati dello scenario attuale. Illudersi del contrario è una delle cause maggiori della cristallizzazione dell’impossibilità.
Anche Alfredo Maria Bonanno sembra indicare qualcosa di simile, parlando a questo proposito delle «illusioni di un tempo, le quali, una volta scomparse, si sono portate con sé anche le disponibilità coraggiose, gli impegni (engagements) al di là di ogni limite, l’odore del sangue e perfino le lacrime di pietà»2.
Quanto affermava Vaneigem però, al di là del carattere illusorio dell’ipotesi rivoluzionaria in senso tradizionale, era chiaro: se si vuole mettere in pratica un mondo altro (di autogestione) bisogna prima distruggere questo.
Per di più, la morte di fatto, sebbene non nei sogni e nelle utopie dei militanti rivoluzionari, dell’ipotesi rivoluzionaria tradizionale non deve per questo portarsi nella tomba anche il coraggio, un coraggio che non sarebbe più rivoluzionario bensì semplicemente insurrezionale.
A questo punto il dato di fatto storico e l’orizzonte preferibile cui si accennava più in alto si congiungono. Non possiamo fare la rivoluzione, se anche avessimo voluto, e l’unico cambiamento radicale possibile verrebbe da cause altre da noi, sebbene sarebbe comunque preferibile all’esistente. Una catastrofe per esempio potrebbe porre fine al sistema tecno-industriale. In ogni caso, anche se potessimo fare la rivoluzione, gli sarebbe preferibile l’insurrezione.
La rivoluzione è un cambiamento radicale, si diceva. Al di là della sua radicalità, è prima di tutto un cambiamento. Si tratta di un cambiamento politico. Un cambiamento non implica solo una distruzione dell’ordine esistente, come l’insurrezione, ma anche una sostituzione di questo ordine con un altro ordine, una società con un’altra società. Ma poiché ogni società sarà per sua natura autoritaria, una rivoluzione anarchica non è possibile. Una rivoluzione marxista, leninista, stalinista, maoista, in altri periodi storici era perfettamente possibile e coerente: è l’imposizione, armi in pugno, quindi in maniera radicale, di un ordine, quello del capitalismo di Stato, a un altro ordine precedente, il capitalismo del libero mercato. Una rivoluzione anarchica porterà invece sempre a risultati autoritari, quindi, a differenza del caso della rivoluzione marxista, a una contraddizione di termini.
Alfredo Cospito rifiuta così l’idea di rivoluzione: «Non aspiro ad alcuna futura “paradisiaca” alchimia socialista, non ripongo fiducia in nessuna classe sociale; la mia rivolta senza rivoluzione è individuale, esistenziale, totalizzante, assoluta, armata»3. Un chiaro distinguo fra rivoluzione e rivolta/insurrezione viene posto come sempre molto bene anche da Max Stirner.
Una società futura, per essere altra da quella presente dovrà fondarsi su dei principi che i rivoluzionari le daranno. Nel momento in cui la rivoluzione sarà finita, gli ex rivoluzionari dovranno assicurarsi l’applicazione di quei valori. Ovviamente tali valori e tale società avranno dei nemici, poiché fortunatamente ci sono e – spero – ci saranno sempre (questa è la vittoria del qui e ora contro il totalitarismo di ogni autorità!) nemici di qualsiasi ordine esistente, come sosteneva Renzo Novatore, annoverandosi tra questi. Ci saranno sempre amanti appassionati del chaos. Così gli ex rivoluzionari fonderanno una polizia ex rivoluzionaria. E dal momento che vi saranno anche dei nemici esterni finché la rivoluzione non sarà divenuta globale verrà istituito un esercito ex rivoluzionario. Ma una volta individuati questi nemici della rivoluzione, che farne? Ecco sorgere le carceri ex rivoluzionarie. E se qualche nemico della rivoluzione non fosse ritenuto consapevole di esserne nemico? Perché lasciarsi sfuggire la possibilità di edificare – macché, riaprire! – anche i manicomi ex rivoluzionari?
In breve la società rivoluzionaria, per quanto anarchica nei proclami iniziali, diverrebbe esattamente uguale a quella esistente oggi. Quando dico uguale non mi riferisco a una misurazione con il termometro libertario. Il grado di libertarismo di una rivoluzione è una truffa. Se esiste ancora il germe dell’autorità, sebbene non configurabile a parole come autoritarismo, assolutismo, ecc., l’autorità c’è e la libertà no. La libertà o è totale o non esiste. Non si può ritenersi liberi perché si è un po’ meno schiavi. La tigre o è libera nella giungla oppure è prigioniera in un circo o in un giardino zoologico. Il fatto che nella gabbia abbia o non abbia anche le catene alle zampe è una caratteristica che può esserci o non esserci nella tortura inflitta dall’autorità, ma non c’entra con l’essere o non essere libera. Se sei in una gabbia non sei libero. E se nella gabbia prima aveva pure le catene e poi te le tolgono, cioè non fa della tua gabbia una gabbia anarchica.
Esempi di ciò sono l’Ucraina makhnovista e la Spagna della Guerra Civil. Nel primo caso, giusto per citare qualche orrore del passato, i makhnovisti avversarono Maria Grigor’evna Nikiforova che continuava a praticare l’azione diretta contro l’autorità anche dopo la rivoluzione dei bolscevichi, alleati di Makhno e Aršinov (nonostante qualche litigata sulle catene della tigre dentro la gabbia). In Spagna invece, sotto il dominio della Federazione Anarchica Iberica (F.A.I.) e della Confederazione Nazione del Lavoro-Associazione Internazionale dei Lavoratori (C.N.T.-A.I.T.), fra anarchici-ministri e altre perle della Storia, venne applicata addirittura la pena di morte alla catena di montaggio4.
L’impossibilità storica di una rivoluzione socialista e il disgusto di un nemico di ogni forma di autorità verso l’ipotesi rivoluzionaria e l’idea di una società rivoluzionaria, non implicano in alcun modo che con la rivoluzione debba morire anche il coraggio di attaccare il nemico, l’autorità. Con la morte della rivoluzione dovrebbe morire invece la politica, la tecnica di elemosinare consenso per gestire la polis. Ma, se non c’è nessuna polis e nessuna società da gestire, la politica non avrebbe ragion d’essere. Scongiurata una rimodulazione volontaria dell’autorità (rivoluzione), perché cessare di combattere?
La lotta è qui e ora. La vittoria è qui e ora. Perché la nostra vittoria è la sconfitta della volontà di pace sociale del nemico. È il gesto di ribellione, è il fuoco, la distruzione, l’annichilimento, la ferita inferta alla moralità di questo mondo, l’iconoclastia, le fiamme che dipartono da un punto qualsiasi del mostro tecnologico. Perché la ragion d’essere di ogni autorità è il poter garantire se stessa, il poter esercitare l’autorità. L’esistenza stessa del grido negatore di ogni autorità, del nichilismo attivo armato contro questa galera a cielo aperto, pertanto è la più grande vittoria, qui e ora, che si possa desiderare. Perché l’esistenza della sovversione implica la sconfitta della volontà di essere totale del dominio.
Perché l’ordine non è ordine se qualcuno, fosse anche solo uno, unico, gioisce, folle, della Guerra Totale, nella notte del chaos!

1. R. VANEIGEM, Terrorismo o rivoluzione, Edizioni Anarchismo, Trieste 2015, p. 11.
2. A.M. BONANNO, Nota introduttiva, in R. VANEIGEM, op. cit., p. 5.
3. A. COSPITO, in «Croce Nera Anarchica», n. 0, 2014.
4. H.M. ENZENSBERGER, La breve estate dell’anarchia. Vita e morte di Buenaventura Durruti, Feltrinelli.