Scritto in data 06/12/2018

SUL BATTELLO EBBRO DELLE NUOVE INSURREZIONI di Luca G.

 

C’è nell’aria nuova un vecchio odore di rivolta

Armi nelle mani di chi vive un’altra volta.

(Stigmathe)

 

Qualcosa di antico ma inaspettatamente nuovo scuote il vecchio mondo da qualche anno a questa parte.

Piazza Syntagma, Gezi Park, le rivolte in medio-oriente ieri, i “gilet jaunes” in Francia oggi: arriva di soppiatto, infetta distrugge e poi sparisce lasciando però segni indelebili sui muri delle città e sulle esistenze di chi la vive.

Brevemente e ancora incagliato fra l’ottusa stupidità delle narrazioni del tempo sulle contrapposizioni tra piazze di destra e piazze di sinistra vorrei provare a parlare del risveglio di una mai sopita voglia di libertà a dispetto di ogni dispositivo di potere e di ogni illusione di pacificazione, al di là delle “divise” e delle singole rivendicazioni.

Perché il punto non è la provincia o l’impero, la destra o la sinistra, l’organizzazione o lo spontaneismo, il punto è il fuoco.

 

AL FUOCO! o del perché la rivolta non bussa ma entra sicura

 

Marinus, Marinus, hörst Du mich?

Marinus, Du warst es nicht

es war König Feurio!

 

(Einsturzende Neubauten)

 

Partiamo dalla grigia cronaca del fatto: dopo l’aumento delle aliquote della benzina voluta da Macròn (ovvia operazione di greenwashing che va a discapito delle classi meno abbienti), in Francia grazie al tamtam di Facebook si sviluppa un grande movimento caratterizzato dal portare il giubbotto catarifrangente da indossare in autostrada.

Il 17 novembre questo strano movimento opera più di 2000 blocchi stradali, la settimana successiva una serie di cortei selvaggi si scontra con la polizia a Parigi, il movimento cresce in Francia assumendo di volta in volta connotati più fascistoidi (compresa l’infame e schifosa denuncia nei confronti di alcuni migranti nascosti in un camion) o più rivoluzionari. Successivamente, si sviluppa in maniera farsesca e reazionaria in Italia e più seriamente in Belgio, dove a Bruxelles si verificano grossi scontri con la polizia il 30 novembre.

Il giorno dopo a Parigi è sommossa generale: la polizia deve ripiegare più volte, macchine e negozi dati alle fiamme, licei occupati.

Il 4 dicembre Macròn decide di non aumentare più il prezzo della benzina.

In questa situazione di difficilissima da decifrare e problematica da rivendicare, si presenta l’ospite più inquietante: la rivolta.

Sei un lavoratore piccolo-borghese, forse di destra, forse liberale, che sta protestando perché oltre a subire da una vita lo sfruttamento, dovrà pagare ancora di più per andarci.

Sei una camionista che rischia la vita sulle autostrade ogni giorno, cui le aziende per cui lavori neanche rimborsano la benzina sprecata.

Sei una giovane studentessa che gli anni scorsi si è battuta contro gli sbirri per abolire la Loi Travail del socialista Hollande, e ancora ricordi i bei momenti di complicità coi tuoi compagni e le tue compagne a dispetto dello stato d’emergenza emanato nel 2015.

Sei un algerino di terza generazione e vivi in una banlieu un po’ come capita, nella tua memoria sono ben vivi i ricordi dei soprusi dei flics contro i tuoi amici, le tue amiche, i tuoi parenti.

Sei una compagna libertaria, una “zadista”, memore della strenua resistenza e del vivere altro di Notre Dame des Landes.

Parigi si blocca grazie ai camionisti e ai piccolo-borghesi – dei quali non si conosce il pensiero e che magari nutre in sè abissi spaventosi – ma quando arriva la polizia a disperderli ci sono tutte e tutti gli altri.

La rabbia per una vita passata a sopravvivere accomuna, per una volta, vite altrimenti distantissime.

Gli scontri con la polizia superano ben presto le loro rivendicazioni riformiste che i loro partigiani a distanza snocciolano a ogni piè spinto, in quell’assurda logica per cui le richieste siano più importanti della vita presente.

Non importa più il motivo in mezzo alla sommossa, giacché la rivolta parla una lingua a sé stante.

 

Nel 1778 il Parlamento Inglese emana il Catholic Relief Act, un provvedimento che attenua le discriminazioni nei confronti dei cattolici.

Il 2 giugno del 1780 il Lord conservatore George Gordon convoca una manifestazione per convincere la Camera a ritirare il provvedimento; al suo rifiuto, la folla si riversa nelle strade.

In 7 giorni di sommossa il carattere esplicitamente reazionario delle rivendicazioni originali viene superato e in larga parte abolito da una rivolta furiosa che assalta le caserme, distrugge le carceri e dà fuoco alle carceri: la plebe inizialmente fomentata da ingiuste richieste s’inebria della possibilità della distruzione.

Nei primi mesi del 1898 in Italia si verificano i “moti del pane”: dopo l’aumento del prezzo voluto dal governo Rudinì, fra gennaio e luglio ogni città verrà messa a ferro e fuoco dalla popolazione, tanto che a Milano il tristemente famoso Bava Beccaris ordinerà di cannoneggiare la folla in tumulto.

Nel gennaio 1921 la Russia viene scossa per 9 giorni dall’affaire Kronstadt, cittadella militare fortificata che tanto nel 1905 quanto nel 17 era stato, nelle parole di quel Trotskij che ne sarà boia, “valore e gloria della Russia rivoluzionaria”.

Affamati dal comunismo di guerra e stufi del controllo repressivo della Ceka i marinai di Kronstadt formano un comitato, in prevalenza menscevico e socialrivoluzionario, e stilano una serie di richieste di stampo socialdemocratico da proporre al governo bolscevico.

Come si sa, il potere alla mitezza risponde con il disprezzo più sdegnoso, ma ad esso Kronstadt risponde con un’insurrezione in cui la parola d’ordine supera in radicalità di gran lunga le iniziali richieste: “Tutto il potere ai soviet, non ai partiti!”

Come si può notare, non è raro che una grande rivolta sorga da un contesto banalmente riformista o chiaramente reazionario, e infatti non va scordato che alcuni moti del pane avevano carattere nazionalista e un certo numero di marinai russi avevano tensioni antisemite.

Eppure, la reazione e la riforma appartengono al potere e quando la rivolta scoppia è molto facile che ogni situazione si ribalti e assuma carattere rivoluzionario (molto facile ma non certo, ricordiamo i pogrom russi ad esempio).

Sembra stia accadendo ora in Francia, dove le sommosse stanno in parte superando le contraddizioni iniziali.

 

 SENTENZIARE E PUNIRE: miseria dell’ideologia

 

 Just because I dress like this doesn’t mean I’m a communist.

 

(Billy Bragg)

 

Ecco arrivare, ad ogni moderna sommossa, i recuperatori!

Tanto la fascista Marine Le Pen quanto il “populista di sinistra” Jean Luc Melenchon hanno cercato di tirare dalla loro parte un movimento che, inizialmente, sembrava poter venir indirizzato a scopi elettorali.

Così chi guardava da lontano l’ideologia ha creato due fazioni contrapposte: “i settari e le settarie”, come il sottoscritto, che inizialmente bollavano come completamente reazionarie piccoloborghesi e prefasciste queste mobilitazioni e “partigiani e partigiane” chi se le rivendicava acriticamente, tirando fuori dal cilindro qualche frase di Lenin.

Grida nel vuoto entrambe: la pretesa nei tempi odierni di egemonizzare in senso vetero-ideologico si frantuma sullo scoglio della vita quotidiana.

Il crollo delle ideologie ha portato sì i padroni a sedersi comodamente sui propri privilegi, ma allo stesso tempo ha visto le cosiddette masse impermeabili ai discorsi politicisti.

Certo, il monopolio del recupero ce l’ha ancora il capitale, ma almeno i recuperatori della sinistra controrivoluzionaria e i militantisti vengono per lo più ignorati.

E infatti tutti sono pronti a dissociarsi: Marine Le Pen, i vertici della CGT e Melenchon hanno in brevissimo tempo condannato le “violenza” ripetendo la vecchia solfa de “i casseurs infiltrati che spaccano tutto”.

Intanto, i ridicoli partiti dell’ “estrema sinistra” cortocircuitano sulle loro grottesche posizioni: per i rossi ieri le lotte LGBTQI erano borghesi perché interclassiste, oggi i gilet gialli sono interessanti perché interclassisti. I liberali intanto urlano al fascismo, la post-disobbedienza si rivendica tutto ma nessuno le crede.

Se si fosse letto e ancor più compreso Furio Jesi in Spartakus, si capirebbe cha la rivolta supera tanto i suoi ispiratori quanto chi la vuole imbrigliare.

Ma poco importa, gli ideologi crollano sotto il peso della realtà, ed è uno dei rari conforti di questi tempi: l’ideologo è il poliziotto che frena chi capovolge l’esistente.

 

 SAVE THE CITY BURN IT DOWN: del perché la rivolta è tale solo quando è distruttiva

 

Sembra più una festa

 che un massacro di innocenti.

 

(Plastic Surgery)

 

Durante il primo maggio 2015 a Milano un manifestante, prestatosi incautamente alla telecamera, dichiara: “È stata una bella esperienza.”

La prospettiva della distruzione è, in ultima istanza, una dialettica alla portata di chiunque e desiderabile per tutt*: per l’impiegato la banca diventa il simbolo del suo sfruttamento, per il camionista la concessionaria è genitrice dei suoi mali, per la studentessa un supermercato dove spende i pochi spicci che le danno i genitori, per l’algerino il negozio di lusso è lo specchio della sua povertà, per la zadista i simboli di un capitalismo che devasta e saccheggia.

La distruzione è un momento di riappropriazione totale, anche se temporaneo, di una vita pienamente vissuta.

Parafrasando Debord, il vandalismo contro le cose le riempie di linfa vitale, ridotte come sono ad altari del culto della merce.

Queste splendide città intoccabili con le loro belle vetrine, i loro bei monumenti, le periferie chimiche e i/le senzatetto morti assiderati sul marciapiede, queste città sono la linea di separazione fra l’umano e le sue possibilità di agire nello e sullo spazio che si vive.

Il vandalismo oltrepassa questa linea e il soggetto agente reimpara a modificare l’esistente.

Non è un caso che il vandalismo è urgenza adolescenziale, il momento più furioso della vita, l’età dell’urgenza, e si sopisce con l’obbedienza e l’abitudine al compromesso della maturità.

Citando ancora lo Jesi di Spartakus: “Si può amare una città, si possono riconoscere le sue case e le sue strade nelle proprie memorie più remote e segrete; ma solo nell’ora della rivolta la città è sentita veramente come l’“haut-lieu” e al tempo stesso come la propria città: propria poiché dell’io e al tempo stesso degli altri; propria, poiché campo di una battaglia che si è scelta e che la collettività ha scelto; propria, poiché spazio circoscritto in cui il tempo storico è sospeso e in cui ogni atto vale di per se stesso, nelle sue conseguenze immediate.”

 

        

MILLENIUM PEOPLE: del ceto medio impoverito e della composizione mista nelle nuove rivolte

 

Al netto dei toni trionfalistici di certi organismi della sinistra, i gilet jaunes sembravano realmente sovradeterminati dall’estrema destra.

Del resto, un “movimento” con rivendicazioni molto basse e con una composizione prevalentemente piccolo-borghese e bianca non può che far pendere l’ago della bilancia verso la reazione.

Gli ultimi anni hanno visto un continuo tentativo di larga parte del movimento alla disperata ricerca di una nuova classe di accodarsi al fenomeno populista per volgerlo in chiave rivoluzionaria: i forconi, il referendum, il malcontento l’UE, addirittura a volte alcune componenti hanno addirittura sostenuto la tesi dell'”esercito di riserva” pe strizzare l’occhio al nuovo fascismo.

Dicono che bisogna entrare nelle contraddizioni, ma anche se la prendessimo in esame nell’accezione puramente maoista del termine (che fine ha fatto il plusvalore?), non si riesce a scorgere nessun punto A o punto B, solo due borghesie- quella finanziaria e quella bottegaia- in lotta fra di loro quanto lo erano ai tempi di fascismo versus perfida Albione.

Dicono che andando incontro al malcontento popolare contro le istituzioni si può diventare massa, ma cos’è la massa? Un’idea e null’altro, un fantasma, l’equivalente del gregge cristiano. A ogni armata rossa si contrappone un’armata bianca, è il rapporto di forza a determinare la vittoria e questo non è regolato dal quantitativo, sennò ogni tentativo insurrezionale sarebbe fallito.

Se il proletariato non è altro se non la classe di chi “non ha altro da perdere se non le proprie catene” il ceto medio impoverito proletariato non è: ha ancora tutta una serie di privilegi da cui, per quanto si senta depredato dalle “elite”, non ha intenzione di staccarsi.

Oggi, se vogliamo trovare un nuovo proletariato, dobbiamo aprire gli occhi su una serie di sfruttamenti e discriminazioni diversificate e sulle soggettività che ne costituiscono la loro negazione: la persona migrante, proveniente dai ghetti del mondo, che in quanto tale porta sulle spalle il peso di secoli di sfruttamento e l’abolizione dell’istituzione autoritaria chiamata “Nazione”; la soggettività queer, vittima di discriminazione e recuperi continui, che con la sua stessa corporeità nega il dominio patriarcale e l’istituzione borghese della famiglia nucleare; la vittima del lavoro nero, fenomeno endemico nelle società valoriali e più alta contraddizione fra “Legge” e “mercato”; la persona disoccupata e/o precaria, simbolo di un mondo che obbliga al lavoro e al contempo costruisce le basi per far morire di fame.

Niente a che vedere con le moltitudini di negriana memoria però, perché tutte queste soggettività vanno a costruire una reale classe globale che s’inscrive perfettamente in quella del proletariato, e che può mutare facilmente un contesto a forte rischio reazionario in insurrezionale.

Infatti i gilet gialli sono cominciati a diventare attraversabili dalle soggettività in lotta – e quindi a costruire situazioni pre-insurrezionali – solo dove la composizione era più diversificata come a Parigi dove studenti e studentesse, militanti rivoluzionari/e e soprattutto abitanti delle banlieue hanno partecipato alle rivolte.

Questo non è successo in altre zone più “bianche” e più colonizzate dal Front National, e non è successo in Italia con il movimento dei forconi, proprio per la limitatezza della sua composizione.

Il fenomeno del proletariato misto è ben visibile anche in Italia, dove i momenti più radicali nelle lotte non “militanti” si verificano nella logistica, nel settore degli “smart works” (ad esempio i rider) dove la composizione “etnica” è molto diversificata, o dove la soggettività migrante è predominante come nei lager CPR e nelle carceri, in cui le rivolte, seppur di minor spessore dato il contesto e meno spettacolarizzate, non hanno nulla di invidiare a quelle francesi.

Un discorso di classe non può prescindere dalla presa d’atte che le classi sono mutate, pena il seguire le orme del populismo reazionario dimenticando un discorso di liberazione totale, la completa scomparsa, il trionfo della morte.

 

LANCIANDO IL SASSO PIÙ IN LÀ: come salire sul battello ebbro

Nothing ever burns down by itself, every fire needs a little bit of help.

 

(Chumbawamba)

 

I Gilet Jaunes hanno vinto, Macròn ha ritirato la tassa.

Se continueranno con le proteste non è dato saperlo, probabilmente i recuperatori reazionari congloberanno il movimento in una nuova – per la Francia – forma di populismo di destra per la gioia dei neo-sansepolcristi di tutto il mondo.

Vada come vada, sommossa chiama sommossa e i/le giovani che ieri si battevano contro la Loi Travail oggi lo facevano insieme ai gilet gialli: agire la libertà diventa un’abitudine, lo sa chiunque abbia partecipato a un riot e si trovi a passare davanti

Azione chiama azione e, malgrado questi tempi siano caratterizzati da una palese ondata di nuovi fascismi, questi momenti di parziale e temporanea destabilizzazione sono utili per trovare complicità e alzare il livello dell’attacco, costruire situazioni tra sfruttati e sfruttate che dissolvano i rapporti di micropotere e, quando verrà il momento in cui il fascismo si paleserà completamente, ed è molto vicino, rispondere con la dovuta preparazione.

Lanciare il sasso più in là, perché da queste rivolte non nasce la rivoluzione, ma da chi oggi porta il conflitto a un livello più alto nascerà l’insurrezione di domani.