IL FASCISTA, L’ANTIFASCISTA E IL ROBOT. QUASI UNA BARZELLETTA (IlVetriolo)

L’antifascismo sarà il peggior prodotto del fascismo

Amedeo Bordiga

Giornate di dolore, 

momenti di passione,

 ti scrivo cara mamma, 

domani ce’è l’azione

Dai monti di Sarzana, canto partigiano anarchico

 

Se questa volta scendiamo anche noi nell’agone delle insulse interpretazioni dei risultati di quell’evento miserrimo che sono le elezioni è perché, ci sembra, questa volta dalla natura dello spettacolo del teatrino della politica si possano fare delle riflessioni sui gusti di quegli spettatori che ancora si ostinano a partecipare, e quindi, in parte, sulla realtà che sta dietro la fiction. 

In primo luogo, osserviamo che quelle che sono state le elezioni con meno partecipazione della storia repubblicana, sono state anche quelle con la minore, per non dire quasi del tutto assente, “campagna astensionista”. Dopo anni di rotture di ovaie e palle su cos’è sociale cos’è antisociale, non siamo nemmeno riuscite a fare la cosa più facile: attaccare, ognuna e ognuno coi mezzi che preferisce, la fiction e provare a stare in mezzo al disgusto sempre più generale che molte persone ormai provano verso i politici; magari anche provando ad indirizzarlo verso i loro padroni.

L’unica cosa su cui si è percepito in giro un certo fermento combattivo è stato il fronte dell’antifascismo. E qui veniamo al secondo punto, cioè alla figura barbina che hanno fatto i partiti del fascismo elettorale. Dietro a tanto allarme, alla onnipresenza mediatica, alle pagine facebook, alle magliette, agli striscioni, ai manifesti, i concertini e i saluti sulle bare dei boia repubblichini…c’era solo una bolla mediatica. I partiti fascisti Forza NonnaChina Pound (quelli che hanno la sede nell’Esquilino, il quartiere cinese a Roma) hanno preso pochissimi voti, facendosi addirittura superare dai Centro-socialisti di Potere al polipo e dai sinistrati di Sinistra all’inGrasso di D’Alema. Scena patetica è stata quella di Di Stefano che piangeva su La7 perché era deluso e frignava che non lo avevano mai ospitato in televisione. Nel dubbio mena? No, nel dubbio piangi. Ahahahah!

Bisogna capirci quando si parla di “pericolo fascista”. Se si intende che c’è un “pericolo fascisti” che escono nelle strade e ti accoltellano per le tue idee politiche, di genere, per il colore della tua pelle, siamo d’accordo. Non c’è però un “pericolo fascismo”, ovvero non è, ancora, in corso una mobilitazione reazionaria di massa. Il razzista medio democratico sceglie ancora la Lega porn, non vuole mica tornare al Ventennio! Nella democrazia, nei lager in Libia, nell’esercito nelle strade trova la sua soddisfazione; di tornare ai fez e all’autarchia non ci pensa nemmeno. Il sabato si va in discoteca, non a piazza Venezia.

In altre parole, i fascisti del terzo millennio hanno lo stesso problema che abbiamo noi anarchici: il salto di livello dal consenso alla complicità. Un conto è fare un commento razzista durante l’aperitivo, altro conto è andare in piazza con caschi e bastoni. Ogni volta che ci provano, trovano dall’altra parte un numero di compagni di almeno dieci volte superiore. Meglio un Campari al bar che uno Scotch in piazza a Palermo.

Questo non significa che sminuiamo lo squadrismo fascista, che negli ultimi 15 anni ha provocato almeno una decina di morti fra i compagni e i migranti. Questi sacchi di merda, sull’onda del consenso razzista, stanno provando a tirare fuori la testa dalle fogne. Il fatto è che, fuori dalle loro cloache putrescenti, ci sono tanti bravi cittadini che applaudono, ma ben pochi che passano all’azione insieme a loro. Almeno per ora. Così come non c’è l’appoggio delle classi dominanti, condizione necessaria perché il fascismo vada al potere; classi dominanti che oggi preferiscono, alle famose leggi del 1926, le Leggi Democraticissime di Minniti e complici.

Come anarchici siamo caduti con tutte le scarpe dentro a questa fiction. A furia di dire che l’analisi è roba del passato e che ad essa preferiamo il desiderio, non analizzando niente, al solito, non ci abbiamo capito niente.

Perché il nuovo totalitarismo che sta arrivando – perché sta arrivan do – non sarà il totalitarismo di China Pound – nel dubbio piangi. Sarà il totalitarismo tecnologico. La nuova rivoluzione industriale, rappresentata dalla robotica, dalle stampanti 3D, dal digitale, dalle scienze convergenti (convergenti verso la nostra carcerazione tecnologica permanente). E questo totalitarismo lo stanno portando avanti quelli del partito di Krusty il Clown, il ricco comico immorale e moralista, vero vincitore delle elezioni a Springfield.

In questi mesi, mentre perdevamo tempo a disquisire sul sesso dei robot, mentre dibattevamo sulla questione davvero a-stringente se la tecnologia è de-realizzante o se la realtà piuttosto non esiste, il capitale stava dando una pesante accelerazione verso la sua riconversione all’industria 4.0.

E qui veniamo al terzo punto. Che il partito di Krusty il Clown sia oggi il partito dei robot, lo dimostrano non tanto le dichiarazioni di idolatria nei confronti della quarta rivoluzione industriale, della democrazia digitale o di altre panzane futuristiche. Lo dimostra il punto più dirimente del programma dei 5 stelle: il reddito di cittadinanza. Secondo studi di Oxford, la rivoluzione tecnologica distruggerà nel mondo 1 miliardo e 100 milioni di posti di lavoro. In Italia circa 12 milioni. Il progetto grillino al servizio del capitale è quello di rendere questa transizione il meno dolorosa possibile. Di sterilizzare il conflitto. Il reddito di cittadinanza avrà proprio questo come scopo principale, cioè allargare il consenso nei confronti dell’invasione delle macchine.

Il rimbecillimento comincia da piccoli. Oggi molte scuole hanno il registro elettronico, un tablet dove i prof segnano voti e assenze. Qualche giorno fa, i genitori di un nostro compagno che fanno i professori ci confessavano, con depressione, che i loro studenti non scioperavano nonostante i termosifoni fossero spenti durante l’ondata di freddo…perché avevano paura del registro che avrebbe inviato sul telefonino di mamma la notifica della loro assenza! Questi fra qualche anno saranno i nuovi sfruttati, i nuovi sbirri, i nuovi politici. Questo è il grado del totalitarismo tecnologico prossimo (prossimo?) venturo.

Il partito di Krusty il Clown è il partito che vuole realizzare, in maniera indolore, questa svolta tecnologica. Un partito che non a caso piace tanto a certi “autonomi” (o automi?) visto la sequela di luoghi comuni sul reddito, la fine del lavoro…e daje a ride!

Come se fosse vero che scomparirà lo sfruttamento dal pianeta e non che piuttosto saremo tutti più schiavi, come sta già avvenendo coi braccialetti elettronici di Amazon e i chip sulle tute degli operai FIAT.

Allora forse è il momento che oltre che continuare a fare a mazzate coi fascisti cominciassimo davvero a prendere a mazzate i grillini, magari partendo da quelli che popolano le assemblee e i cortei a cui spesso ci troviamo anche noi a partecipare – da Bussoleno a Melendugno, da Norcia a Nuoro. Forse sarebbe il momento di mettere nel cassetto della storia del Novecento l’esistenzialismo e le chiacchiere filosofiche franzose. E ricominciare con un nuovo, sano, luddismo.

Il problema non sono i grillini in sé, ma i grillini in me.

compagne compagni di campagna

La pirotecnia è un’arte. Davanti alla rivoluzione – Contributi a un dibattito interno all’anarchismo italiano

 

Il 7 dicembre è esploso, di fronte davanti alla stazione dei carabinieri San Giovanni in via Britannia, a Roma, un ordigno rudimentale, un termos d’acciaio con 1,6 kg di esplosivo. Un attacco per contro il potere e i suoi aguzzini. Un attacco che mi vede completamente affine. La rivendicazione è firmata dal gruppo anarchico fai/fri Cellula Santiago Maldonado (segue link con la rivendicazione https://anarhija.info/library/roma-italia-cellula-santiago-maldonado-fai-fri-rivendica-l-attacco-esplosivo-contro-c-it)

A pochi giorni di distanza sulle pagine di Umanità Nova viene pubblicata la risposta e la critica a questo attacco, “Disfattismo pirotecnico”, di seguito propongo due contribuiti di compagni che vogliono contribuire al dibattito in maniera costruttiva proponendo nuovi spunti di lettura.

S.Z

                                                                                                                            

 Dal Blog Perifusi-risposta anarchica     

 

 

https://perifrourisisocialanarchism.noblogs.org/post/2017/12/23/in-chi-e-la-salute-contributi-ad-un-dibattito-interno-allanarchismo-italiana-1/

In chi è la salute? – Contributi ad un dibattito interno all’anarchismo italiano (1)

Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il primo dei due contributi inviati a Umanità Nova.

 

“La Salute è in voi!”, recitava un opuscolo uscito nel 1906 con il settimanale anarchico italoamericano “Cronaca Sovversiva”.
Si trattava, fondamentalmente, di un manuale pratico per sabotaggi, fabbricazione di esplosivi e guerriglia che, seppur oggi decisamente datato a fronte della pubblicistica anche solo degli anni ’70 (si pensi agli scritti della Rote Armee Fraktion o di Carlos Marighella), rappresenta un dato storico fondamentale per capire cosa fosse l’anarchismo di lingua italiana.
Facciamo un breve passo avanti: nel 1927 vengono giustiziati Sacco e Vanzetti, accusati di rapina e omicidio al calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree.
Giustiziati perchè anarchici e immigrati, innocenti di quello specifico atto.
Si trattava infatti non di due “piccoli angeli”, come per molti anni li ha dipinti la vulgata anche anarchica, ma di due combattenti rivoluzionari avvezzi al far saltare le case dei questori e all’uso delle armi [1] tanto quanto alla propaganda di massa, all’agitazione sindacale e allo sciopero.

Un’altro salto in avanti: nell’articolo “Disfattismo pirotecnico” di T. A., pubblicato su Umanità Nova il 17 dicembre [2] si prende in esame l’attacco ad una caserma romana dei carabinieri, fra il 6 e il 7 dicembre, facendo una serie di affermazioni che mettono insieme di tutto e un po’ in una spergiura pressochè totale dell’evento, delle persone idealmente coinvolte e di tutti i significati che vi sono legati.

Per capirci, chi scrive non è un sostenitore dell’insurrezionalismo inteso come impalcatura ideologica, poichè l’ “insurrezione” è solo uno dei tanti passaggi in cui un percorso rivoluzionario si può snodare, e caricarlo di significati eccessivi è quantomeno miope, anche perchè la realtà attuale ci dimostra che la “Guerra sociale [3]” non è materia di insurrezioni, ma di lente e altamente complesse guerre di logoramento, che nei momenti più conflittuali diventano guerre di trincea [4].
Insomma la risibilità dell’opzione insurrezionale non significa che scompaia il dato del conflitto, né quello militare, ma che passano dall’essere una “gioia” ad essere qualcosa di estremamente serio e sporco [5].

E’ centrale quindi distinguere fra Insurrezionalismi e pratiche insurrezionali.
Questa parentesi vuole essere introduttiva ad un altro concetto: se dobbiamo criticare gli insurrezionalismi, bisogna farlo innanzitutto da un dato politico, quindi da un dato pratico (ovvero proponendo alternative credibili) ma soprattutto sempre mantenendo il rispetto per chi lotta, anche in modo estremamente diverso dal nostro.

L’articolo del compagno su Umanità Nova pone tre critiche fondamentali:
Innanzitutto si afferma che azioni di guerriglia urbana sono per loro stessa natura settarie, aristocratiche e opposte ad un lavoro sociale, rifiutando un qualsiasi confronto con chi non si pone sullo stesso piano.
Lo scritto centra molti punti: innanzitutto che la chiusura in sé stessi e la mancanza di un confronto con quelle soggettività non così radicali, è un freno per la penetrazione nel tessuto sociale, così come è invece fondamentale immergersi nelle masse, avviarvi un rapporto simbiotico e di progressiva infezione.
Ma si tratta di punti diversi. Innanzitutto l’azione di guerriglia non è per forza alienante rispetto ad un lavoro di massa: la consistente simpatia di cui godettero formazioni lottarmatiste in Italia e Germania Ovest, per non parlare di quella che perdura tutt’ora in Grecia, sono una dimostrazione del contrario. Allo stesso modo, le riflessioni della prima Prima Linea [6] sul ruolo del militante pubblico e del militante armato, così come quelle dell’Autonomia organizzata sul “doppio livello”, posso dare spunti importanti.

Semmai, si può criticare l’opportunità e le modalità di uno specifico atto, la sua convenienza e il suo svolgimento. Infatti, per esempio, se la lotta armata non è assolutamente un’opzione, qui, il discorso del doppio livello si può applicare anche a chi partecipa a pratiche insurrezionali di altro tipo, quali il Blocco Nero e gli scontri di piazza.
Ma anche qui, al netto di tutto, va mantenuto l’adeguato rispetto per chi si pone in rischio per proseguire una lotta: no, nessuno ha piazzato una bomba davanti ad una caserma dei carabinieri apposta per fare un dispetto ad altri anarchici, anche perchè non serve certo l’insurrezionalismo per mandare in crisi l’anarchismo comunista/sociale in Italia: lo dimostrano i numeri scarsi, l’irrilevanza politica, i circoli che chiudono, il ricambio che non c’è, i congressi sempre più deserti. Ci si può raccontare che va tutto bene, ma farlo non lo rende vero.
E no, non bisogna dare acqua al mulino degli scazzi, provando semmai semmai ricucire, nel possibile, i rapporti personali, amicali e politici con quei/lle militanti che dimostrano di agire in buona fede, ponendo domande, critiche e risposte alternative, e non controscomuniche.

Quindi su “Disfattismo pirotecnico” si afferma che il clima di “pace sociale” in Italia non è così reale, poichè ci sarebbe un fiorire di mobilitazioni sempre più forti e radicali.
Si torna anche qui all’uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani e che per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene”.
La verità è che la riscrittura genetica della società sta andando avanti spedita: i centri città sono completamente trasformati, e ora i processi di gentrificazione e normalizzazione si stanno allargando ai quartieri a latere. Gli sgomberi e i sequestri hanno avuto un ritmo terrificante negli ultimi due anni, arrivando ad annichilire intere aree, proprio mentre il recupero riformista riusciva ad inglobare numerosi settori di movimento. Le destre hanno ormai tutte un respiro nazionale, anche quelle più neonaziste quali Lealtà&Azione e il VFS, forti di una lento ma progressivo radicamento nelle classi popolari.

La debolezza del cosiddetto “movimento” è provabile numericamente guardando due appuntamenti “nazionali” a meno di quattro anni di distanza: se nel 15 ottobre 2011 si portarono in piazza 300.000 persone, nel NoExpo del 2015 ve ne erano 50.000.
Anche qui si può tirare in ballo la solita storia degli “scontri che oscurano il corteo” a livello mediatico; c’è da dire però che se il corteo avesse sfilato pacifico, ci sarebbe stato giusto giusto un articoletto distratto, per plaudere la pacificità dei manifestanti e la bravura della polizia.

Un problema centrale emerge quasi involontariamente da un passaggio secondario dell’articolo di T.A.: “La via di uscita è […] imparare dalle masse quali sono i temi che le toccano maggiormente e, coerentemente con il nostro ideale e la nostra prassi, possano dar vita a movimenti di ribellione, imparare dalle masse quali sono gli organismi che possono divenire strumenti di autorganizzazione e di azione diretta, imparare dalle masse quali sono i linguaggi che possano rendere più accessibile la propaganda anarchica.”.
Insomma, ci si pone sempre e comunque come soggetti che (a discapito del nome di “minoranza agente”) paiono quasi cadere dal pero nei rapporti con la popolazione, subendoli e non essendovi attivi.
Qualcosa di completamente diverso da ciò che andrebbe fatto, poiché l’anarchismo è stato grande quando è stato politico, quando in tutta la sua storia ha preso in mano le redini del discorso e ha inziato percorsi di largo respiro e forte intensità, razionalmente e strategicamente pensati, in all’interno e in simbiosi con la popolazione, e non come soggetti “a servizio” della stessa, partendo dalla logica perdente dell’autodissoluzione qual’ora le cose andassero bene.
Si tratta semmai di porsi come i germi delle istituzioni del “mondo nuovo” che portiamo nei nostri cuori, come Murray Bookchin (ideologo a monte dell’unica rivoluzione contemporanea), giustamente esponeva: le assemblee di movimento devono diventare le assemblee di gestione della comune, i servizi d’ordine le sue milizie e i gruppi politici i suoi organi esecutivi.
Questo stesso percorso è stato alla base del movimento anarchico di maggior successo oggi, quello greco, che ha scelto durante il 2008 di spargersi sul territorio e di diventare il punto di riferimento delle proprie comunità, partecipandole a livello di sicurezza, di sanità, di lotte lavorative, e molto altro.
Esemplare è l’attività del K*Box, caffetteria occupata ad Exarchia, che oltre ad essere un luogo di socialità ha aperto l’ambulatorio autogestito, sostiene occupazioni abitative, combatte attivamente contro le narcomafie in quartiere e il cui collettivo politico, Rouvikonas, si è reso noto per molteplici azioni contro problemi concreti della società greca, quali la corruzione delle autorità ospedaliere, le agenzie di “liste nere” per i morosi nei confronti delle banche, o le missioni di aiuto nelle zone alluvionate di Madra.

E’ così che si può porre una critica all’insurrezionalismo: da pari. Da pari portando rispetto verso chi lotta e viene represso (e potendo così rivendicare per sé lo stesso tipo di rispetto), da pari proponendo un anarchismo competitivo ed efficace, contemporaneo e accattivante, che sia realmente quello che vuole essere.
Si tratta di fare la cosa giusta, indipendentemente che venga fatta dall’altra parte, perchè se siamo anarchici e anarchiche lottiamo per ciò che è giusto.

“[visto che] Sembra il momento di far uscire una qualche tipo di conclusione, dirò che – suppongo – non credo che le strutture o le forme di associazione volontaria che adottiamo controllino deterministicamente i nostri risultati (pur avendo una forte influenza, come la hanno tutti gli strumenti, su chi le adotta), ma che tutte le strutture e le strategie sviluppate fino ad oggi dagli anarchici abbiano serie debolezze e che queste carenze saranno letali, a meno che non si sia più onesti, flessibili, ricettivi alle critiche ed energici di quanto si sia stati finora. [7]”

Nikos Fountas

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[1] Per una storia più completa, il fondamentale libro di Paul Avrich, Ribelli In Paradiso. Sacco, Vanzetti e il movimento anarchico negli Stati Uniti, 2015, Nuova Delfi Libri, Roma, traduzione a cura di Antonio Senta.

[2] http://www.umanitanova.org/2017/12/17/disfattismo-pirotecnico/

[3] Termine molto usato da uno dei più interessanti autori anarchici dei giorni nostri, lo statunitense Peter Gelderloos, che con esso indica una condizione di vero e proprio conflitto bellico fra oppressi e oppressori, con il dispiegamento di strategie (la controinsorgenza), risorse (militarizzazione dei territori e delle forze di polizia) e legittimazioni (diritto penale del nemico, leggi anti-terrorismo, cultura del “degrado” come pericolosità…) militari.

[4] Si pensi al ruolo che hanno assunto i luoghi nei conflitti sociali contemporanei, dalla difesa di territori rurali (Zad, Bure, Hambach, Val Susa) e metropolitani (Exarchia, Gezi park, piazza Maidan) alla lotta per eradicare, mantenere o guadagnare edifici fisici (sedi fasciste, centri sociali, occupazioni).
Da notare che in Italia si è sempre affrontato il problema da un punto di vista etico-filosofico e mai da un punto di vista strategio e pratico, come per esempio sulla necessita di mantenere strutture logistiche e basi sicure.

[5] Già Nestor Makhno lo notava quando scriveva: “In una rivoluzione sociale il momento più critico non è il momento del crollo del Potere, ma il momento immediatamente successivo, il momento in cui quanti sono stati spodestati attaccheranno i lavoratori e questi ultimi dovranno difendere le conquiste appena realizzate” poichè “la classe dominante conserverà a lungo una grande capacità di resistenza e per molti anni sarà in grado di sferrare attacchi contro la rivoluzione cercando di riconquistare il potere e i privilegi che le sono stati sottratti” (in Delo Truda, n16 p. 5-4, riportato in Alexander Shubin, Nestor Machno: bandiera nera sull’Ucraina. Guerriglia libertaria e rivoluzione contadina (1917-1921), p. 190-191, Elèuthera, 2012).
Stessa cosa di cui parlerà cinquant’anni dopo Adriano Sofri su Giovane Critica, n19, 1968-1969, seppur in termini operaisti. Insomma, l’operaismo e l’autonomia riprendono concetti anarchici decenni dopo e, al contrario nostro, riescono a tenerli a mente.

[6] Si spera che si riesca a discutere con il necessario distacco di temi come P.L., analizzandoli da un punto di vista storico e politico, senza inutili emotività.

[7] Peter Gelderloos,“Insurrection vs. Organization. Reflession on a pointless schism.“, 2007, recuperabile a http://theanarchistlibrary.org/library/peter-gelderloos-insurrection-vs-organization

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

https://perifrourisisocialanarchism.noblogs.org/post/2017/12/23/davanti-alla-rivoluzione-contributi-a-un-dibattito-interno-allanarchismo-italiano-2/
Davanti alla rivoluzione – Contributi a un dibattito interno all’anarchismo italiano (2)

 Dopo la rivendicazione dell’attacco alla caserma S. Giovanni è seguita la risposta di Umanità Nova.
Come anarchici slegati da aree o gruppi ci sentiamo di contribuire al dibattito con due scritti separati ma con la comune volontà di suggerire un approccio differente a un dibattito che si sta trascinando da troppi anni.
Questo è il secondo contributo.                                         

       

In an abandoned houseboat
I’ll wait there, I’ll be waiting forever
Waiting, waiting, waiting, waiting, waiting….
(Pavement-Summer Babe)

Davanti alla rivoluzione c’è un guardiano.
Davanti a lui viene un* anarchic* e chiede di entrare nella rivoluzione.
Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire. L’anarchic* dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. “Può darsi” dice il guardiano, “ma adesso no”.

Il 7 dicembre 2017 un bomba a bassa potenza esplode davanti alla caserma dei CC San Giovanni di Roma, cui segue la rivendicazione della “Cellula Santiago Maldonado” a firma FAI/FRI, in cui si dichiarano le volontà di spezzare la pace sociale con attentati diretti alle strutture di potere e repressive.
Dieci giorni dopo esce su Umanità Nova in merito a questi fatti esce l’articolo “Disfattismo pirotecnico”, ovvero un modo davvero un modo poco equilibrato di contribuire al noioso dibattito “organizzazione informale distruttiva vs organizzazione sociale”.

Chiariamo subito che chi scrive si identifica come “anarco-comunismo”, seppur proveniente da una tradizione molto differente da quella della Federazione Anarchica Italiana & affini (oh no! Forse questo non si può dire), e che non si ritiene vicino alle posizioni solitamente espresse dalle soggettività che si firmano FAI/FRI.

Nell’articolo sopracitato, al di là di alcuni spunti condivisibili, c’è un errore strutturale che alimenta un manicheismo inutile che divide l’anarchic* “che pensa ed euca” e quelllo “che attacca”.
La reificazione, non solo degli esseri viventi ma addirittura delle loro idee, ha cristallizzato in figure estetizzate e-soprattutto- nettamente separate, l’atto insurrezionale violento e quello comunicativo, rendendo fondamentalmente innocuo e funzionale allo spettacolo narcisista un’ anarchismo sempre più lontano dalle possibilità di aprire percorsi realmente di rottura con l’esistente.
L’attacco e l’autogestione sono due condizioni egualmente necessarie per farlo, scegliere una sola di queste due possibilità ci presenta un anarchismo azzoppato e, fondamentalmente, inadatto ad affrontare le contraddizioni del presente: il/la nihilista antisociale e il /l’ anarchic* che fa gli spettacolini a teatro sulla vittoriosa (?) insurrezione del ’36 sono le due categorie spettacolari con cui si alimenta un processo autistico completamente slegato dalle masse cui si parla tanto.
A proposito, nel succitato articolo si dice che piuttosto che gettarsi in “aristocratici avventurismi” (parafrasi mia) è preferibile imparare dalle masse per poterle poi aiutare a costruire le condizioni oggettive per la rivolta; ma cosa sono queste masse? Noi anarchici e anarchiche non ne facciamo forse parte anche noi? Ancora una volta ci si crede diversi, magari meno alienati, dalla cosiddetta massa, quando invece ne facciamo parte, e quindi nulla abbiamo da imparare da noi stessi, ma piuttosto disimparare quell’immobilismo cui siamo preda dopo anni di dominio dello spettacolo.

Ha ragione l’autore T.A. nel dire che viviamo in tempi di guerra.
Purtroppo questa guerra noi non la stiamo combattendo, perché chi rimane pacificato sono praticamente tutti i movimenti radicali.
E’ questo forse che intendevano i compagni e/o le compagne della cellula Santiago Maldonado, rompere con la pacificazione che è stata imposta all’esterno dalla repressione e all’interno dall’immobilismo di gesti ritualistici e sclerotizzati, che poco riescono a incidere nelle pratiche di nuovi movimenti di massa come Non Una Di Meno che se anche avesse un potenziale libertario- e questo è ancora da dimostrare- nasce da se’ e non certo da qualche solone anarchico.
Attenzione: ovviamente chiunque compia azioni dirette non è esente da critiche, anzi, ma cerchiamo di porle nei confronti delle strategie, non da prese di posizione meramente ideologiche.

L’anarchico Belgrado Pedrini, a dispetto della repressione e della pacificazione imposta dal regime fascista, cominciò la sua attività sovversiva già alla metà degli anni ’30, e verrà incarcerato un anno prima della formazione del CNL, anche lui un aristocratico sprezzante verso le masse?
Quante altre volte dopo un azione diretta si vedrà la solita pioggia di accuse di “avanguardismo”?
Quanto altri arresti, sgomberi, quante altre violenze e ingiustizie sociali ci vorranno per scuoterci da questo torpore?

Grazie al ministro Marco Minniti innumerevoli migranti stanno venendo torturat* in qualche lager libico proprio mentre tu, fratello e/o sorella, stai leggendo, e sotto sotto solo il fatto che sai che non può capitare a te ti spinge a non rivoltarti con tutte le tue forze verso questa violenza assurda.
Non possiamo continuare a giustificarci dicendo che “Non è il momento”, che quando “le masse si rivolteranno noi saremo con loro”, perché ogni mese in un CPR scoppiano rivolte distruttive e sequestri degli operatori-secondini nel quasi più totale silenzio.
Non sono forse parte della massa pure i/le migranti reclus*?
E’ giunto il momento di scegliere: o il nulla autistico della doppia medaglia della falloforia violentista e del nostalgismo attendista e innocuo, oppure comiciare un percorso comune che abbracci, nel rispetto delle sensibilità individuali, tutte le modalità d’azione contemplate (e quelle ancora da contemplare) per poter ricominciare a non pensare all’insurrezione come a un’utopia lontana.
L’attesa finisce quando lo decidiamo noi, basta essere vittime del Tempo.

“Che cosa vuoi sapere ancora?” domanda il guardiano, “Sei proprio insaziabile.”
“Tutti si sforzano di arrivare alla rivoluzione” dice l’anarchic*, “E come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?” Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: “Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.”

L. G.

                 

 

Emma Goldman sulla Rivoluzione Russa

Tratto da My disillusionment in Russia
1. I critici socialisti non bolscevichi del fallimento della Russia sostengono che la rivoluzione non poteva riuscire perché in questo paese l’industria non aveva raggiunto il livello di sviluppo necessario. Fanno riferimento a Marx, secondo cui la rivoluzione sociale è possibile solo in paesi con un sistema industriale altamente sviluppato, e con gli antagonismi sociali che ne derivano. Questi critici ne deducono che la rivoluzione russa non poteva essere una rivoluzione sociale, e che storicamente doveva passare attraverso una fase costituzionale, democratica, completata dallo sviluppo di una industria, al fine di rendere il paese economicamente maturo per un cambiamento fondamentale.
Questo marxismo ortodosso tralascia di considerare un elemento importante, forse ancor più essenziale di quello industriale, per la possibilità e il successo di una rivoluzione sociale. Mi riferisco alla coscienza delle masse in un dato momento. Perché la rivoluzione sociale non è esplosa, ad esempio, negli Stati Uniti, in Francia o addirittura in Germania? Questi paesi hanno certamente raggiunto il livello di sviluppo industriale stabilito da Marx come fase culminante. La verità è che lo sviluppo industriale e le potenti contraddizioni sociali non sono affatto sufficienti a dare vita ad una nuova società o a scatenare una rivoluzione sociale. La coscienza sociale e la psicologia di massa necessarie mancano in paesi come gli Stati Uniti e in quelli che ho appena citato. Il che spiega perché là non è avvenuta nessuna rivoluzione sociale.
Da questo punto di vista, la Russia possedeva un vantaggio rispetto a paesi più industrializzati e «civilizzati». È vero che era meno avanzata sul piano industriale rispetto ai suoi vicini occidentali, ma la coscienza delle masse russe, ispirata e intensificata dalla rivoluzione di febbraio, ha progredito così rapidamente che in pochi mesi la gente era pronta ad accettare slogan ultra-rivoluzionari come «Tutto il potere ai soviet» e «La terra ai contadini, le fabbriche agli operai».
Non bisogna sottovalutare il significato di queste parole d’ordine. Hanno espresso in larga misura il desiderio istintivo e semi-cosciente del popolo, la necessità di una completa riorganizzazione sociale, economica ed industriale della Russia. Quale paese, in Europa o in America, è pronto a mettere in pratica queste parole d’ordine rivoluzionarie? Eppure in Russia, durante i mesi di giugno e luglio 1917, queste parole d’ordine sono diventate popolari; sono state riprese attivamente con entusiasmo, sotto forma di azione diretta, dalla maggior parte dei contadini ed operai di un paese di oltre 150 milioni di abitanti. Ciò dimostra a sufficienza la «maturità» del popolo russo per la rivoluzione sociale.
Per quanto riguarda la «preparazione» economica, nel senso marxiano del termine, non dobbiamo dimenticare che la Russia è principalmente un paese agricolo. Il ragionamento di Marx presuppone la trasformazione della popolazione contadina in una società industriale altamente sviluppata, un passo verso le condizioni sociali necessarie ad una rivoluzione.
Ma gli eventi in Russia nel 1917 hanno dimostrato che la rivoluzione non aspetta questo processo di industrializzazione e — fatto ancora più importante — che non si può far attendere la rivoluzione. I contadini russi hanno cominciato ad espropriare i proprietari terrieri e gli operai si sono impadroniti delle fabbriche senza prendere conoscenza dei teoremi marxisti. Questa azione popolare, in virtù della sua propria logica, ha introdotto la rivoluzione sociale in Russia, sconvolgendo tutti i calcoli marxiani. La psicologia dello slavo si è dimostrata più solida delle teorie social-democratiche. Questa consapevolezza si basava su un desiderio appassionato di libertà, alimentato da un secolo di agitazione rivoluzionaria fra tutte le classi sociali. Per fortuna, il popolo russo è rimasto abbastanza sano sul piano politico: non è stato infettato dalla corruzione e dalla confusione creata nel proletariato di altri paesi dall’ideologia delle libertà «democratiche» e dell’auto-governo. In questo senso i russi sono rimasti un popolo semplice e naturale, estraneo alle sottigliezze della politica, degli accordi parlamentari e dei cavilli giudiziari. D’altra parte, il suo primitivo senso di giustizia e di bene era robusto e vitale, privo della disgregante finezza della pseudo-civiltà. Il popolo russo sapeva quello che voleva e non ha atteso che le «circostanze storiche inevitabili» glielo portassero su un piatto: ha fatto ricorso all’azione diretta. Per esso la rivoluzione era un fatto di vita, non una semplice teoria da discutere.
È così che la rivoluzione sociale è scoppiata in Russia nonostante l’arretratezza industriale del paese. Ma fare la rivoluzione non era sufficiente. Occorreva che progredisse e si allargasse, che sfociasse in una ricostruzione economica e sociale. Questa fase della rivoluzione comportava che le iniziative personali e gli sforzi collettivi potessero esercitarsi liberamente. Lo sviluppo e il successo della rivoluzione dipendevano dal più ampio esercizio del genio creativo del popolo, dalla collaborazione tra proletariato intellettuale e manuale. L’interesse comune è il filo conduttore di tutti gli sforzi rivoluzionari, specialmente nel loro lato costruttivo.
Questo spirito di obiettivo e di solidarietà reciproci hanno trascinato la Russia in una possente onda durante i primi giorni della rivoluzione russa, nell’ottobre-novembre 1917. Queste forze entusiaste avrebbero potuto spostare le montagne, se guidate con intelligenza dall’esclusiva preoccupazione di raggiungere il benessere dell’intera popolazione. Il modo efficace per fare ciò era a disposizione: le organizzazioni operaie e le cooperative che coprivano la Russia con una rete di contatti che univa le città con le campagne; i soviet che si moltiplicavano per soddisfare le esigenze del popolo russo; e, infine, l’intellighenzia le cui tradizioni per un secolo avevano servito eroicamente la causa dell’emancipazione della Russia.
Ma una simile evoluzione non faceva assolutamente parte del programma dei bolscevichi. Per molti mesi dopo l’ottobre, essi hanno tollerato la manifestazione di forze popolari, hanno lasciato che il popolo sviluppasse la rivoluzione in contesti sempre più ampi. Ma appena il Partito Comunista si è sentito sufficientemente saldo al governo, ha cominciato a limitare l’ambito delle attività popolari. Tutti gli atti dei bolscevichi che seguirono — la loro politica, i loro cambiamenti di linea, i loro compromessi e battute d’arresto, i loro metodi di repressione e di persecuzione, il loro terrorismo e sterminio di tutte le altre idee politiche — tutto ciò rappresentava solo dei mezzi al servizio di un fine: la concentrazione del potere statale nelle mani del Partito. In effetti i bolscevichi stessi, in Russia, non ne hanno fatto mistero. Il Partito Comunista, affermavano, incarna l’avanguardia del proletariato, e la dittatura deve rimanere nelle sue mani.
Sfortunatamente per loro, i bolscevichi non avevano tenuto conto del loro ospite, i contadini, che né la razvyortska (Ceka), né le fucilazioni di massa riuscirono a persuadere a sostenere il regime bolscevico. I contadini diventarono lo scoglio contro cui tutti i piani e i progetti ideati da Lenin sono andati a sbattere. Ma Lenin, abile acrobata, era abile a muoversi nonostante uno stretto margine. La NEP (Nuova Politica Economica) venne introdotta appena in tempo per respingere il disastro che stava, lentamente ma inesorabilmente, spazzando via l’intero edificio comunista.
2. La NEP ha sorpreso e scioccato la maggior parte dei comunisti. Hanno visto in questa manovra il contrario di tutto quanto il loro partito aveva proclamato — il rifiuto del comunismo stesso. In segno di protesta, alcuni dei più vecchi membri del Partito, uomini che avevano affrontato il pericolo e la persecuzione sotto il vecchio regime mentre Lenin e Trotsky vivevano al sicuro all’estero, lasciarono il Partito Comunista amareggiati e delusi. I leader allora decisero una specie di serrata. Ordinando che il Partito venisse ripulito da tutti gli elementi «sospetti». Chiunque venisse sospettato di avere un atteggiamento indipendente e tutti quelli che non accettavano la nuova politica economica come fosse l’ultima parola della saggezza rivoluzionaria furono espulsi. Tra di essi c’erano comunisti che per anni avevano fedelmente servito la causa. Alcuni di loro, feriti sul vivo da questa procedura brutale e ingiusta, e sconvolti dal crollo di ciò che adoravano, ricorsero perfino al suicidio. Ma era necessario che il nuovo Vangelo di Lenin potesse diffondersi senza problemi, questo Vangelo che ormai predica la santità della proprietà privata e la libertà della concorrenza spietata in mezzo alle rovine causate da quattro anni di rivoluzione.
Tuttavia, l’indignazione comunista contro la NEP esprimeva solo la confusione mentale degli oppositori di Lenin. Come spiegare altrimenti l’approvazione dei numerosi salti e acrobazie politiche di Lenin, e poi l’indignazione davanti al suo ultimo salto mortale che costituiva la loro conclusione logica? Il problema dei comunisti devoti è che si aggrapparono al dogma dell’Immacolata Concezione dello Stato socialista, Stato che si presume dovrebbe salvare il mondo con l’aiuto della rivoluzione. Ma la maggior parte dei leader comunisti non hanno mai coltivato tale illusione. Lenin meno di tutti.
Fin dal mio primo incontro con lui, ho avuto l’impressione che fosse un politico subdolo che sapeva esattamente quello che voleva e che non si sarebbe fermato davanti a niente pur di raggiungere i suoi scopi. Dopo averlo sentito parlare in diverse occasioni ed aver letto i suoi libri, mi sono convinta che Lenin non abbia molto interesse per la rivoluzione e che per lui il comunismo sia un qualcosa di molto remoto. La divinità di Lenin era lo Stato politico centralizzato, a cui bisognava sacrificare tutto. Qualcuno ha detto che Lenin avrebbe sacrificato la rivoluzione per salvare la Russia. La sua politica, tuttavia, ha dimostrato che era pronto a sacrificare sia la rivoluzione che il paese, o almeno una parte di esso, allo scopo di attuare il suo progetto politico in quello che rimaneva della Russia.
Lenin era il politico più flessibile della storia. Poteva essere al tempo stesso un super-rivoluzionario, un uomo di compromessi e un conservatore. Quando il grido di «Tutto il potere ai Soviet» si diffuse come un’onda potente in tutta la Russia, Lenin seguì la corrente. Quando i contadini si impadronirono delle terre e gli operai delle fabbriche, non solo Lenin approvò questi metodi di azione diretta, ma andò oltre. Lanciò il famoso slogan: «Espropriate gli espropriatori», slogan che seminò la confusione nelle teste e causò danni irreparabili all’ideale rivoluzionario. Mai prima di lui un rivoluzionario aveva interpretato l’espropriazione sociale come il trasferimento della ricchezze da un gruppo di persone ad un altro. Tuttavia, è esattamente questo che significa lo slogan di Lenin. I raid ciechi ed irresponsabili, l’accumulo delle ricchezze della vecchia borghesia nelle mani della nuova burocrazia sovietica, gli imbrogli permanenti contro coloro la cui unica colpa era la loro precedente condizione sociale, tutto ciò fu il risultato della «espropriazione degli espropriatori». Tutta la successiva storia della Rivoluzione è un caleidoscopio dei compromessi di Lenin e del tradimento dei suoi stessi slogan.
Le azioni e i metodi dei bolscevichi a partire dalla rivoluzione d’Ottobre possono sembrare in contraddizione con la NEP. Ma in realtà fanno parte degli anelli della catena che stava forgiando l’onnipotente governo centrale, di cui il capitalismo di Stato era l’espressione economica. Lenin aveva una visione molto chiara ed una volontà di ferro. Sapeva come far credere ai suoi compagni, dentro e fuori la Russia, che il suo progetto era il vero socialismo e che i suoi metodi erano la rivoluzione. Non meraviglia che Lenin disprezzasse così tanto i suoi sostenitori da non esitare a urlare loro in faccia. «Solo degli imbecilli possono credere che il comunismo sia possibile ora in Russia», rispondeva agli oppositori della nuova politica economica.
Di fatto, Lenin aveva ragione. Il vero comunismo non è mai stato tentato in Russia, a meno di pensare che trentatré livelli di salari, un sistema differenziato di razioni alimentari, dei privilegi assicurati per alcuni e l’indifferenza per la grande massa siano il comunismo.
All’inizio della rivoluzione fu relativamente facile per il Partito Comunista impadronirsi del potere. Tutti gli elementi rivoluzionari, spinti dalle promesse ultra-rivoluzionarie dei bolscevichi, li aiutarono a prendere il potere. Una volta in possesso dello Stato, i comunisti iniziarono il loro processo di eliminazione. Tutti i partiti e i gruppi politici che rifiutarono di sottomettersi alla loro nuova dittatura dovettero andarsene. Prima gli anarchici e i socialisti-rivoluzionari di sinistra, poi i menscevichi e altri oppositori della destra, e infine tutti quelli che osavano avere un parere personale. Lo stesso accadde a tutte le organizzazioni indipendenti. O si subordinavano alle esigenze del nuovo Stato, oppure venivano distrutte, come fu il caso dei Soviet, dei sindacati e delle cooperative — i tre pilastri delle speranze rivoluzionarie.
I soviet sono apparsi per la prima volta durante la rivoluzione del 1905. Hanno svolto un ruolo importante durante quel breve ma significativo periodo. Anche se la rivoluzione venne schiacciata, l’idea dei soviet rimase radicata nella testa e nel cuore delle masse russe. Alla prima alba che illuminò la Russia nel febbraio 1917, i soviet riapparvero di nuovo e fiorirono rapidamente. Per il popolo, i soviet non erano assolutamente contro lo spirito della rivoluzione. Anzi, nei soviet la rivoluzione avrebbe trovato la sua espressione pratica più elevata e più libera. Questo è il motivo per cui i soviet si diffusero spontaneamente e rapidamente in tutta la Russia. I bolscevichi compresero dove andavano le simpatie del popolo e si unirono al movimento. Ma una volta alla guida del governo, i comunisti si resero conto che i soviet costituivano una minaccia per la supremazia dello Stato. Allo stesso tempo non potevano distruggerli arbitrariamente senza compromettere il proprio prestigio, sia in patria che all’estero, in quanto promotori del sistema sovietico. Iniziarono a privare gradualmente i soviet dei loro poteri per subordinarli infine alle proprie esigenze.
I sindacati russi erano molto più facili da indebolire. Sul piano numerico e dal punto di vista della fibra rivoluzionaria, erano ancora nella loro infanzia. Dichiarando obbligatoria l’appartenenza sindacale, i sindacati russi acquisirono una certa forza numerica, ma il loro spirito rimase quello di un neonato. Lo Stato comunista divenne allora la bambinaia dei sindacati. A loro volta, queste organizzazioni facevano da servitori allo Stato. «Una scuola di comunismo», dichiarò Lenin nella famosa controversia sul ruolo dei sindacati. Aveva ragione. Ma una scuola antiquata in cui lo spirito del bambino viene legato e schiacciato. In nessun paese del mondo i sindacati sono sottomessi alla volontà e agli ordini dello Stato come nella Russia bolscevica.
Il destino delle cooperative è troppo noto per dilungarsi in proposito. Le cooperative costituivano il più importante legame tra la città e la campagna. Il loro apporto alla Rivoluzione in quanto mezzo popolare ed efficace di scambio e di distribuzione, nonché di ricostruzione della Russia, era di incalcolabile valore. I bolscevichi le hanno trasformate in ingranaggi della macchina governativa e quindi distrutto la loro utilità e la loro efficacia.
3. Ormai è chiaro il motivo per cui la rivoluzione russa, guidata dal Partito Comunista, è fallita. Il potere politico del Partito, organizzato e centralizzato nello Stato, voleva mantenersi con tutti i mezzi a sua disposizione. Le autorità centrali cercarono di incanalare con la forza le attività del popolo in forme corrispondenti agli obiettivi del Partito. L’unico obiettivo dei bolscevichi era di rafforzare lo Stato e monopolizzare tutte le attività economiche, politiche, sociali — perfino le manifestazioni culturali. La rivoluzione aveva uno scopo completamente diverso, per sua natura incarnava la negazione dell’autorità e della centralizzazione. Si è sforzata di aprire campi sempre più ampi per l’espressione del proletariato e di moltiplicare le possibilità di iniziative individuali e collettive. Gli obiettivi e le tendenze della rivoluzione erano diametralmente opposte a quelle del partito politico dominante.
Anche i metodi della rivoluzione e dello Stato sono diametralmente opposti. I metodi della rivoluzione si ispirano allo spirito della rivoluzione stessa, l’emancipazione da tutte le forze che opprimono e limitano, si tratta quindi di principi libertari. I metodi dello Stato, al contrario — dello Stato bolscevico o di qualsiasi governo — si basano sulla coercizione, che a poco a poco si trasforma necessariamente in violenza, oppressione e terrorismo. C’erano quindi due tendenze in lotta fra loro: lo Stato bolscevico contro la rivoluzione. È stata una lotta fino alla morte. Avendo obiettivi e metodi contrastanti, queste due tendenze non potevano operare in armonia; il trionfo dello Stato significava la sconfitta della rivoluzione.
Sarebbe un errore pensare che la rivoluzione sia fallita solo a causa della personalità dei bolscevichi. Fondamentalmente, la rivoluzione è fallita a causa dei principi e dei metodi del bolscevismo. La mentalità e i principi autoritari dello Stato hanno soffocato le aspirazioni libertarie e liberatrici. Se un altro partito avesse governato la Russia, il risultato sarebbe stato essenzialmente lo stesso. Non sono stati tanto i bolscevichi ad aver ucciso la rivoluzione russa quanto l’idea bolscevica. Si trattava di una forma modificata di marxismo; insomma, un fanatico statalismo. Solo una tale comprensione delle forze sottostanti che hanno schiacciato la rivoluzione può dare la vera lezione di questo evento che ha scosso il mondo. La rivoluzione russa riflette su piccola scala la lotta secolare tra il principio libertario e il principio autoritario. Infatti, che cos’è il progresso se non l’accettazione più generale dei principi di libertà contro quelli di coercizione? La rivoluzione russa è stata una fase libertaria sconfitta dallo Stato bolscevico, dalla vittoria temporanea dell’idea reazionaria, dall’idea statalista.
Questa vittoria è dovuta a diverse cause. Ho affrontato la maggior parte di esse nei precedenti capitoli di questo libro. Ma la causa principale non fu l’arretratezza industriale della Russia, come hanno scritto molti autori. Questa causa fu di ordine culturale, e se offriva al popolo russo alcuni vantaggi rispetto ai suoi vicini più sofisticati, essa ha avuto anche inconvenienti fatali. La Russia era «culturalmente arretrata» nel senso che non era intaccata dalla corruzione politica e parlamentare. D’altra parte, le mancava l’esperienza nei confronti dei giochi politici ed ha ingenuamente creduto nel potere miracoloso del partito che parlava più forte e faceva più promesse. Questa fede nel potere dello Stato è stata utilizzata per rendere il popolo russo schiavo del Partito comunista, prima che le grandi masse si accorgessero del giogo che era stato messo attorno al loro collo.
Il principio libertario era potente nei primi giorni della rivoluzione, il bisogno di libertà d’espressione si rivelò inarrestabile. Ma quando la prima ondata d’entusiasmo fece un passo indietro per lasciare spazio alle difficoltà prosaiche della vita quotidiana, occorrevano salde convinzioni per mantenere viva la fiamma della libertà. Solo una manciata di uomini e donne, sul vasto territorio della Russia, hanno mantenuto viva questa fiamma: gli anarchici, il cui numero era ridotto e i cui sforzi, ferocemente repressi sotto lo zar, non ebbero il tempo di dare i loro frutti. Il popolo russo, che in certa misura è anarchico per istinto, non conosceva abbastanza i veri principi e metodi anarchici per poterli mettere in pratica con efficacia nella vita.
Sfortunatamente la maggior parte degli stessi anarchici russi era ancora impegolata in piccoli gruppi e in battaglie individuali, piuttosto che in un grande movimento sociale e collettivo. Uno storico imparziale un giorno certamente ammetterà che gli anarchici hanno svolto un ruolo molto importante nella rivoluzione russa — un ruolo assai più significativo e fecondo di quanto il loro numero relativamente basso poteva lasciar credere. Eppure, l’onestà e la sincerità mi costringono a riconoscere che la loro opera avrebbe avuto un valore pratico infinitamente maggiore se fossero stati meglio organizzati e attrezzati per guidare le ribollenti energie popolari al fine di riorganizzare la vita sociale secondo i fondamenti libertari.
Ma il fallimento degli anarchici durante la rivoluzione russa, nel senso che ho indicato, non significa affatto la sconfitta dell’idea libertaria. Al contrario, la rivoluzione russa ha chiaramente dimostrato che lo statalismo, il socialismo di Stato, in tutte le sue manifestazioni (economiche, politiche, sociali ed educative), è completamente e definitivamente votato alla sconfitta. Mai nella storia, l’autorità, il governo, lo Stato, hanno mostrato come siano di fatto statici, reazionari e anche contro-rivoluzionari. Essi incarnano l’antitesi stessa della rivoluzione.
Come dimostra ogni progresso, solo lo spirito e il metodo libertario possono far avanzare l’uomo nella sua eterna lotta per una vita migliore, più piacevole e più libera. Applicata ai grandi sconvolgimenti sociali noti come rivoluzioni, questa tendenza è potente quanto nell’ordinario processo di evoluzione. Il metodo autoritario è fallito durante tutta la storia dell’umanità ed ora è fallito ancora una volta durante la rivoluzione russa. Finora l’intelligenza umana ha scoperto solo il principio libertario, perché l’uomo ha compreso una grande saggezza quando ha capito che la libertà è la madre dell’ordine, non sua figlia.
Nonostante le pretese di tutte le teorie e di tutti i partiti politici, nessuna rivoluzione può avere davvero successo in modo permanente se non si oppone ferocemente alla tirannia e alla centralizzazione, e se non lotta con determinazione per rendere la rivoluzione una rivalutazione di tutti i valori economici, sociali e culturali. Non la sostituzione di un partito con un altro affinché controlli il governo, non il camuffamento di un regime autocratico sotto slogan proletari, non la dittatura di una nuova classe su una classe più vecchia, non le manovre nei corridoi del teatro politico, no, solo il completo rovesciamento di tutti i principi autoritari servirà la rivoluzione.
In campo economico, questa trasformazione deve essere nelle mani delle masse industriali: hanno la possibilità di scegliere tra uno Stato industriale e l’anarco-sindacalismo. Nel primo caso, lo sviluppo costruttivo della nuova struttura sociale sarà minacciata tanto quanto dallo Stato politico. Sarà un peso morto che graverà sulla crescita di nuove forme di vita. Ecco perché il solo sindacalismo (o industrialismo) non è sufficiente, come ben sanno i suoi sostenitori. Solo quando lo spirito libertario impregnerà le organizzazioni economiche dei lavoratori, le molteplici energie creative delle persone potranno manifestarsi liberamente, e la rivoluzione potrà essere preservata e difesa. Solo la libertà di iniziativa e la partecipazione popolare nelle faccende della rivoluzione può prevenire i terribili errori commessi in Russia. Ad esempio, dato che pozzi di petrolio sorgevano a un centinaio di chilometri soltanto da Pietrogrado, questa città non avrebbe sofferto il freddo se le organizzazioni economiche dei lavoratori di Pietrogrado avessero potuto esercitare la loro iniziativa in favore del bene comune. I contadini dell’Ucraina non avrebbero avuto difficoltà a coltivare la loro terra se avessero avuto accesso ai macchinari agricoli immagazzinati nei depositi di Kharkov e in altri centri industriali, che aspettavano gli ordini di Mosca per distribuirli. Questi pochi esempi dello statalismo e della centralizzazione bolscevichi devono mettere in guardia i lavoratori d’Europa e d’America contro gli effetti distruttivi dello statalismo.
Solo la potenza industriale delle masse, che si esprime attraverso le loro associazioni libertarie, attraverso l’anarco-sindacalismo, può organizzare in modo efficace la vita economica e portare avanti la produzione. D’altra parte, le cooperative, lavorando in armonia con il settore industriale, servono da mezzi di distribuzione e di scambio tra le città e la campagna, e allo stesso tempo costituiscono un legame fraterno tra gli operai e i contadini. Si crea così un legame comune di appoggio e di servizi reciproci, e questo legame è il più solido baluardo della rivoluzione — molto più efficiente del lavoro forzato, dell’Armata Rossa o del terrore. Solo in questo modo la rivoluzione può fare da leva che accelera l’avvento di nuove forme di vita sociale e incoraggia le masse a realizzare cose più grandi.
Ma le organizzazioni operaie libertarie e le cooperative non sono l’unico mezzo di interazione tra le complesse fasi della vita sociale. Esistono anche le forze culturali che, sebbene siano strettamente legate alle attività economiche, svolgono un proprio ruolo. In Russia, lo Stato comunista è diventato l’unico arbitro di tutte le esigenze della società. Ciò ha provocato un ristagno culturale completo e la paralisi di tutti gli sforzi creativi. Se vogliamo evitare una tale débacle in futuro, le forze culturali, pur rimanendo radicate nell’economia, devono beneficiare di un ambito di attività indipendente e di una totale libertà d’espressione.
Non è la loro adesione al partito politico dominante, ma la loro devozione alla rivoluzione, le loro conoscenze, il loro talento e soprattutto i loro impulsi creativi che permetteranno di determinare la loro attitudine al lavoro culturale. In Russia questo è stato reso impossibile, quasi fin dall’inizio della rivoluzione d’ottobre, perché si è violentemente separato le masse dagli intellettuali. È vero che all’inizio la colpa fu degli intellettuali, soprattutto dell’intellighenzia tecnica, che in Russia si è aggrappata con tenacia alle sottane della borghesia — come fa in altri paesi. Incapace di comprendere il significato degli eventi rivoluzionari, si è sforzata di arginare la marea rivoluzionaria praticando il sabotaggio. Ma in Russia esisteva un’altra frazione della intellighenzia — che aveva un passato rivoluzionario glorioso da un secolo. Questa frazione aveva conservato la sua fiducia nel popolo, anche se non accettò senza riserve la nuova dittatura. L’errore fatale dei bolscevichi fu di non fare alcuna distinzione tra le due categorie.
Combatterono il sabotaggio instaurando un terrore sistematico e indiscriminato contro l’intera classe degli intellettuali e lanciarono una campagna di odio ancora più intensa della persecuzione della borghesia stessa — metodo che creò un abisso tra intellighenzia e proletariato ed impedì qualsiasi lavoro costruttivo.
Lenin fu il primo a rendersi conto di questo errore criminale. Sottolineò che si trattava di un grave errore far credere agli operai che potevano costruire industrie e impegnarsi in un lavoro culturale senza l’aiuto e la collaborazione degli intellettuali. Il proletariato non possedeva né le conoscenze né la formazione per svolgere questi compiti e occorreva restituire alla intellighenzia la direzione della vita industriale. Ma il fatto di aver riconosciuto un errore non impedì a Lenin e al suo Partito di commetterne immediatamente un altro. L’intellighenzia tecnica venne chiamata alla riscossa, ma in un modo da rafforzare al tempo stesso la disgregazione sociale e l’ostilità contro il regime.
Mentre gli operai continuavano ad aver fame, gli ingegneri, i periti industriali ed i tecnici ricevevano alti stipendi, privilegi speciali e razioni migliori. Diventarono i beniamini dello Stato e i nuovi sorveglianti delle masse ridotte in schiavitù. Educate per anni nell’idea errata che per il successo della rivoluzione contano solo i muscoli e che solo il lavoro manuale sia produttivo, e da campagne di odio che denunciavano tutti gli intellettuali come contro-rivoluzionari e speculatori, le masse non poterono ovviamente fare la pace con chi avevano imparato a disprezzare e sospettare.
Purtroppo la Russia non è l’unico paese in cui predomina questo atteggiamento ostile del proletariato nei confronti dell’intellighenzia. Ovunque, politici demagoghi giocano sull’ignoranza delle masse, insegnano loro che l’istruzione e la cultura sono pregiudizi borghesi, che gli operai possono farne a meno e sono in grado di ricostruire da soli la società. La rivoluzione russa ha tuttavia dimostrato molto chiaramente che cervello e muscoli sono indispensabili per rigenerare la società. Il lavoro intellettuale e il lavoro manuale cooperano strettamente nel corpo sociale, come il cervello e la mano nel corpo umano. L’uno non può funzionare senza l’altra.
È vero che la maggior parte degli intellettuali si considerano come una classe a parte, superiore ai lavoratori, ma ovunque le condizioni sociali minano rapidamente il piedistallo della intellighenzia. Gli intellettuali sono costretti ad ammettere che anche loro sono proletari, e che sono dipendenti dai padroni dell’economia ancor più dei lavoratori manuali.
A differenza del proletario manuale che lavora con la sua forza fisica, che può raccogliere i suoi strumenti e viaggiare per il mondo al fine di migliorare la sua situazione umiliante, i proletari intellettuali sono radicati assai di più al loro ambiente sociale specifico e non possono facilmente cambiare mestiere o modo di vivere. Questo è il motivo per cui è essenziale spiegare agli operai che gli intellettuali si stanno rapidamente proletarizzando — cosa che crea un legame tra di loro. Se l’occidente vuole trarre insegnamento dalle lezioni della Russia, deve farla finita con le lusinghe demagogiche alle masse, come alla cieca ostilità verso l’intellighenzia.
Ciò non significa, tuttavia, che i lavoratori devono mettere il loro destino nelle mani degli intellettuali. Al contrario, le masse devono iniziare immediatamente a prepararsi, ad attrezzarsi per il grande compito che la rivoluzione richiederà loro. Dovranno acquisire le conoscenze e le abilità tecniche necessarie per gestire e dirigere i complessi meccanismi delle strutture industriali e sociali dei loro rispettivi paesi. Ma anche se impiegano tutte le loro capacità, gli operai avranno bisogno della collaborazione degli specialisti e degli intellettuali.
Da parte loro, questi ultimi devono anche capire che i loro veri interessi sono identici a quelli delle masse. Una volta che le due forze sociali impareranno a fondersi in un tutto armonico, gli aspetti tragici della rivoluzione russa saranno in gran parte eliminati. Nessuno verrà fucilato perché «ha fatto degli studi». Lo scienziato, l’ingegnere, lo specialista, il ricercatore, l’insegnante e l’artista creativo, così come il falegname, il macchinista e tutti gli altri lavoratori sono parte integrante della forza collettiva che permetterà alla rivoluzione di costruire il nuovo edificio sociale.
Non userà l’odio, ma l’unità; non l’ostilità, ma il cameratismo; non il plotone di esecuzione, ma la simpatia — queste sono le lezioni da trarre dal grande fallimento russo, per gli intellettuali come per gli operai. Tutti devono imparare il valore del mutuo appoggio e della cooperazione libertaria. Tuttavia, ciascuno deve essere in grado di rimanere indipendente nella propria sfera particolare e in armonia con il meglio di quanto può apportare alla società. Solo in questo modo il lavoro produttivo e gli sforzi educativi e culturali si esprimeranno in forme sempre più nuove e ricche. Questa è per me la lezione essenziale, universale, che ho imparato dalla rivoluzione russa.
4. Ho cercato di spiegare il motivo per cui i principi, i metodi e le tattiche dei bolscevichi hanno fallito, e perché questi stessi principi e metodi falliranno domani in qualsiasi altro paese, anche il più industrializzato. Ho anche dimostrato che non è solo il bolscevismo ad aver fallito, ma lo stesso marxismo. L’esperienza della rivoluzione russa ha dimostrato il fallimento dello statalismo, del principio autoritario. Se dovessi riassumere il mio pensiero in una frase, direi: per natura, lo Stato tende a concentrarsi, a ridurre e controllare tutte le attività sociali; al contrario, la rivoluzione tende ad accrescere, ad espandersi e diffondersi in cerchi sempre più ampi.
In altre parole, lo Stato è istituzionale e statico, mentre la rivoluzione è fluida e dinamica. Queste due tendenze sono incompatibili e destinate a distruggersi reciprocamente. Lo statalismo ha ucciso la rivoluzione russa e svolgerà lo stesso ruolo nelle prossime rivoluzioni, a meno che non prevalga l’idea libertaria. Ma devo andare oltre. Non sono solo il bolscevismo, il marxismo e lo statalismo ad essere fatali alla rivoluzione e al progresso dell’umanità. La causa principale della sconfitta della rivoluzione russa è molto più profonda. Essa risiede nella concezione socialista della rivoluzione stessa.
La concezione dominante, la più diffusa, della rivoluzione — in particolare tra i socialisti — è che la rivoluzione provoca un violento cambiamento delle condizioni sociali nel corso del quale una classe sociale, la classe operaia, diventa dominante e trionfa su un’altra classe, quella capitalista. Questa concezione si basa su un cambiamento puramente materiale, e quindi comporta soprattutto manovre politiche dietro le quinte e rattoppi istituzionali. La dittatura della borghesia è sostituita dalla «dittatura del proletariato» – o da quella della sua «avanguardia», il Partito comunista. Lenin prende il posto dei Romanov, il gabinetto imperiale viene ribattezzato Consiglio dei commissari del popolo, Trotsky viene nominato ministro della Guerra e un operaio diventa governatore militare generale di Mosca. Ecco a cosa si riduce sostanzialmente la concezione bolscevica della rivoluzione, almeno quando viene messa in pratica. E, tranne un paio di dettagli, questa è anche l’idea di rivoluzione condivisa da altri partiti socialisti.
Questa concezione è intrinsecamente sbagliata e destinata al fallimento. La rivoluzione è certamente un processo violento. Ma se porta solo a una nuova dittatura, a un semplice cambiamento di nomi e di personalità al potere, allora è inutile. Un risultato così limitato non giustifica tutte le lotte, i sacrifici, le perdite di vite umane e le violazioni dei valori culturali provocati da tutte le rivoluzioni. Se una tale rivoluzione portasse un grande benessere sociale (il che non è stato il caso in Russia), ciò non varrebbe di più il terribile prezzo da pagare; si può migliorare la società senza fare ricorso a una rivoluzione cruenta. Lo scopo della rivoluzione non è di mettere in atto alcuni palliativi o qualche riforma.
L’esperienza della rivoluzione russa ha notevolmente rafforzato la mia convinzione che la grande missione della rivoluzione, della rivoluzione sociale, è un cambiamento fondamentale dei valori sociali e umani. I valori umani sono ancora più importanti perché fondano tutti i valori sociali. Le nostre istituzioni e le condizioni sociali si basano su idee profondamente radicate. Se si cambiano queste condizioni senza toccare le idee e i valori sottostanti, si tratterà allora solo di una trasformazione superficiale, che non può essere duratura né portare a un reale miglioramento. Si tratta solo di un cambiamento di forma, non di sostanza, come ha tragicamente dimostrato la Russia.
È al tempo stesso il grande fallimento e la grande tragedia della rivoluzione russa: essa ha cercato (sotto la direzione del partito politico dominante) di modificare solo le istituzioni e le condizioni materiali, ignorando totalmente i valori umani e sociali che una rivoluzione comporta. Peggio ancora, nella sua folle passione per il potere, lo Stato comunista ha pure rafforzato e sviluppato le stesse idee e concetti che la rivoluzione era giunta a distruggere. Lo Stato ha sostenuto e incoraggiato i peggiori comportamenti anti-sociali ed ha sistematicamente soffocato lo sviluppo di nuovi valori rivoluzionari. Il senso di giustizia e di uguaglianza, l’amore per la libertà e la fratellanza umana — questi pilastri di una autentica rigenerazione della società — lo Stato comunista li ha combattuti allo scopo di annientarli. L’istintivo senso di equità è stato deriso come manifestazione di sentimentalismo e di debolezza; la libertà e la dignità umana sono diventate superstizioni borghesi; la sacralità della vita, che è la base stessa della ricostruzione sociale, è stata condannata come non-rivoluzionaria, quasi contro-rivoluzionaria.
Questa terribile perversione dei valori fondamentali portava in sé il germe della distruzione. Se si aggiunge l’idea secondo cui la rivoluzione era solo un mezzo per impadronirsi del potere politico, era inevitabile che tutti i valori rivoluzionari venissero subordinati alle esigenze dello Stato socialista; peggio ancora, che fossero sfruttati per aumentare la sicurezza del nuovo potere governativo.
«La ragione di Stato» camuffata sotto la maschera degli «interessi della Rivoluzione e del popolo», è diventata l’unico criterio di azione, e anche dei sentimenti. La violenza, la tragica fatalità di sconvolgimenti rivoluzionari, è diventata una consuetudine consolidata, un’abitudine, ed è stata vantata come una istituzione «ideale». Zinoviev non ha canonizzato Dzerzinskij, il capo della sanguinaria Ceka, presentandolo come il «santo della Rivoluzione»? Lo Stato non ha tributato i più grandi onori a Uritskij, fondatore e sadico capo della Ceka di Pietrogrado?
Questa perversione dei valori etici si è rapidamente cristallizzata nello slogan onnipresente del Partito comunista: il fine giustifica tutti i mezzi. Già in passato l’Inquisizione e i gesuiti adottarono questo motto subordinandogli ogni moralità. Questa massima si vendicò dei gesuiti come si è vendicata della rivoluzione russa. Questo precetto non ha fatto che incoraggiare la menzogna, l’inganno, l’ipocrisia, il tradimento e l’omicidio, pubblico e segreto.
Coloro che si interessano di psicologia sociale dovrebbero domandarsi il motivo per cui due movimenti, così separati nel tempo e dalle idee così differenti come gesuitismo e bolscevismo, hanno portato esattamente agli stessi risultati applicando questo principio. Il parallelo storico, passato quasi inosservato finora, contiene una lezione fondamentale per tutte le rivoluzioni future e per l’avvenire dell’umanità.
Nulla è più falso del credere che gli obiettivi e gli scopi siano una cosa, i metodi e le tattiche un’altra. Questa concezione minaccia seriamente la rigenerazione sociale. Tutta l’esperienza dell’umanità ci insegna che i metodi ed i mezzi non possono essere separati dal fine ultimo. I mezzi impiegati diventano, attraverso le abitudini individuali e le pratiche sociali, parte integrante dell’obiettivo finale; lo influenzano, lo modificano, poi fini e mezzi finiscono col diventare identici. L’ho sentito fin dal primo giorno del mio ritorno in Russia, prima vagamente, poi sempre più chiaramente e consapevolmente. I grandi obiettivi che ispiravano la Rivoluzione sono stati talmente oscurati dai metodi usati dal potere politico dominante che è diventato difficile distinguere tra i mezzi temporanei e l’obiettivo finale. Sul piano psicologico e sociale, i mezzi influenzano necessariamente gli obiettivi e li modificano. Tutta la storia dell’umanità dimostra che appena ci priviamo dei metodi ispirati a concetti etici, si sprofonda nella demoralizzazione più acuta. Questa è la vera tragedia della filosofia bolscevica applicata alla rivoluzione russa. Speriamo che si saprà imparare la lezione.
Nessuna rivoluzione diventerà mai un fattore di liberazione se i mezzi utilizzati per approfondirla non sono in armonia, nel loro spirito e nella loro tendenza, con gli obiettivi da realizzare. La rivoluzione costituisce la negazione dell’esistente, una protesta violenta contro la disumanità dell’uomo verso l’uomo e le migliaia di schiavitù che comporta. La rivoluzione distrugge i valori dominanti su cui è stato costruito un complesso sistema di ingiustizia e di oppressione, basato sull’ignoranza e sulla brutalità. La rivoluzione è l’araldo di nuovi valori, perché porta alla trasformazione dei rapporti fondamentali tra gli uomini, così come tra gli uomini e la società. La rivoluzione non si limita a curare alcuni disturbi, a porre qualche balsamo, a cambiare forme ed istituzioni, a ridistribuire il benessere sociale. Certo, ha fatto tutto ciò, ma è di più, molto di più. È innanzitutto e soprattutto il vettore di un cambiamento radicale, portatore di nuovi valori. Insegna una nuova etica che ispira l’uomo inculcandogli una nuova visione della vita e dei rapporti sociali. La rivoluzione innesca una rigenerazione mentale e spirituale.
Il suo primo precetto etico è l’identità tra mezzi utilizzati ed obiettivi ricercati. L’obiettivo finale di ogni cambiamento sociale rivoluzionario è di stabilire la sacralità della vita umana, la dignità dell’uomo, il diritto di ogni essere umano alla libertà e al benessere. Se questo non è l’obiettivo principale della rivoluzione, allora i cambiamenti sociali violenti non hanno alcuna giustificazione. Perché sconvolgimenti sociali esterni possono essere, e sono stati, compiuti nel quadro del normale processo evolutivo.
La rivoluzione, al contrario, non significa solo un cambiamento esterno, ma un cambiamento interno, fondamentale, essenziale. Questo cambiamento interno di concetti e di idee si diffonde in strati sociali sempre più ampi, per culminare infine in un sollevamento violento chiamato rivoluzione. Un simile apice è in grado di invertire il cambiamento radicale dei valori, rivoltarsi contro di esso, tradirlo? Questo è quanto successo in Russia. La rivoluzione deve accelerare e approfondire il processo di cui essa è l’espressione cumulativa; la sua missione principale è quella di ispirarlo, di portarlo verso maggiori altezze, di dargli il massimo spazio per la sua libera espressione. Solo in questo modo la rivoluzione è fedele a se stessa.
In pratica, ciò significa che il presunto «periodo di transizione» deve introdurre nuove condizioni sociali. Esso rappresenta la soglia di una nuova vita, della nuova casa dell’uomo e dell’umanità. Deve essere animato dallo spirito della nuova vita, in armonia con la costruzione del nuovo edificio. L’oggi genera il domani. Il presente proietta la sua ombra lontano nel futuro. Questa è la legge della vita, sia del singolo che della società. La rivoluzione che si sbarazza dei suoi valori etici pone i primi semi dell’ingiustizia, dell’inganno e dell’oppressione nella società futura.
I mezzi utilizzati per preparare il futuro diventano la sua pietra miliare. Basta osservare l’attuale tragica condizione della Russia. I metodi della centralizzazione statale hanno paralizzato l’iniziativa e lo sforzo individuali; la tirannia della dittatura ha spaventato la gente, l’ha immersa in una sottomissione servile ed ha completamente spento la fiamma della libertà; il terrore organizzato ha corrotto e brutalizzato le masse, soffocando tutte le aspirazioni ideali; l’omicidio istituzionalizzato ha svalutato il valore della vita umana; tutte le nozioni di dignità umana, di valore della vita, sono state eliminate; la coercizione ha reso ogni sforzo più duro, trasformando il lavoro in una punizione; la vita sociale è ridotta ora ad una serie di inganni reciproci, gli istinti più bassi e più brutali dell’uomo sono stati di nuovo risvegliati. Triste eredità per cominciare una nuova vita basata sulla libertà e sulla fratellanza.
Non si sottolineerà mai abbastanza che la rivoluzione è inutile se non è ispirata dal suo ideale finale. I metodi rivoluzionari devono essere in armonia con gli obiettivi rivoluzionari. I mezzi utilizzati per approfondire la rivoluzione devono corrispondere ai suoi obiettivi. In altre parole, i valori etici che la rivoluzione saprà infondere nella nuova società devono essere disseminati dalle attività rivoluzionarie del «periodo di transizione». Quest’ultimo può facilitare il passaggio verso una vita migliore, ma solo a condizione che sia costruito con gli stessi materiali della vita nuova che vogliamo costruire. La rivoluzione è lo specchio dei giorni che seguiranno; è il bambino che annuncia l’uomo di domani.

Repubblica Ceca: Processo Fenix – Tutti assolti (09/2017)

ithttps: //anarhija.info/library/repubblica-ceca-processo-fenix-tutti-prosciolti-09-2017-it

3 anni di mancanza di prova – 3 anni che hanno rovinato le nostre vite

Il clamoroso caso  Fenix , che consiste in numerosi accuse di molti crimini, dalla cosidetta “istigazione al terrorismo” alla preparazione di attacchi terroristici. Queste erano le più discusse all’ultima udienza presso il Tribunale Municipale di Praga. Durante il verdetto la giudice ha assolto tutti i cinque incriminati del caso Fenix ​​1. È questa una vittoria? Perché questa decisione non è definitiva? Il seguente articolo è una traduzione della sintesi di udienze e alcune analisi sulla nostra situazione e esperienze scritte un mese fa, originariamente in lingua ceca.

Questo lungo processo riguardava cinque anarchici, tre dei loro accusati di aver congiurato un attacco terroristico contro un treno che trasportava attrezzatura militare. Due di loro erano accusati di essere stati a conoscenza di questi piani e di non aver fermato i presunti autori. Due di queste cinque persone furono anche accusate di aver preparato un attacco con molotov contro veicoli di polizia durante la sgombero dello spazio occupato Cibulka. In sostanza, secondo gli agenti di polizia dispiegati, si trattava in totale di cinque persone coinvolte e di tre crimini differenti. (E tutto questo solo per Fenix ​​1, dato che alcune di queste persone si trovano davanti a ulteriori accuse nel contesto di Fenix ​​2).

Nel gruppo in cui erano coinvolti i cinque accusati, c’erano due poliziotti infiltrati. Questi due individui attivamente preparavano entrambi gli attacchi, e li hanno anche parzialmente avviato. Tuttavia, la giudice non ha identificato le loro azioni come una provocazione solo perché i documenti che avrebbero rilevato questa provocazione non erano disponibili.

La giudice, Hana Hrncirova, ha sottolineato che ha assolto tutti gli imputati proprio per mancanza di prove sufficienti. Ha ribadito la mancata trasparenza nel lavoro di polizia: “Il motivo per cui la corte ha emesso una tale decisione sta nel fatto che durante la valutazione delle prove il giudice ha espresso forti dubbi sulla trasparenza dei metodi di polizia, sia prima dell’inizio del procedimento penale, che dopo quando viene ottenuta l’autorizzazione legale per impiegare gli agenti nel caso”.

La giudice ha affermato che la polizia ha agito per mesi senza avere un mandato, e quando l’avvocato di difesa aveva chiesto la documentazione sulla loro attività, la polizia non l’aveva: “La corte non possiede alcuna traccia di tale documentazione”, ha detto la giudice. Poi ha aggiunto: “L’avvocato di difesa ha cercato di ottenere questi documenti perché si può presumere, in base a questi permessi individuali, che ci deve essere qualche documentazione da qualche parte. Questa documentazione non è mai stata inclusa nel fascicolo.”

Secondo le parole di polizia, la documentazione del primo mese di infiltrazione “non esiste o non può essere utilizzata”. Quindi, esiste un’altra pila di fascicoli, fascicoli con la trascrizione di intercettazioni telefoniche, che in realtà possono essere usati. Soprattutto per dimostrare che gli agenti infiltrati, l’infiltrazione stessa e la costruzione del caso non sono una questione del passato, come spesso abbiamo sentito. Il momento comico era quando la giudice ha alzato la pila sopra la sua testa (un volume di circa 400 pagine A4), dicendo che da tutte queste trascrizioni neanche una cosa ha valore di prova.

Il verdetto non è definitivo, perché il P.M. Pazourk sente che non ha ancora distrutto abbastanza le vite di queste persone e perciò ha fatto appello in loco. Come ex agente di polizia, il P.M. è convinto che la polizia ha agito correttamente e spera che la Corte d’Appello confermi la sua posizione. Senza dubbio farà del suo meglio per trovare qualcosa che “deve esserci e può essere utilizzato”. Noi quindi possiamo solo sperare che questa caccia agli anarchici (era lui che aveva proposto minimo 12 anni di carcere per gli accusati in Fenix) come anche i ruoli recitati in Fenix 2 presenteranno elementi che non avranno nessun valore come prove pure al prossimo processo.

A differenza di Pazourek, il ministro degli interni, amante di armi, socialdemocratico, Josef Chovanec, non ha tempo per aspettare il tribunale superiore. Le elezioni parlamentari si stanno avvicinando e deve dare priorità alla lustrazione della propria immagine, presentandosi come un padre giusto e corretto. E quindi, dopo tre anni ha improvvisamente notato che nel caso Fenix c’è qualcosa “che non quadra”. Sul suo profilo “Twitter” ha lasciato alcuni commenti facendo riferimento a fatti appartenenti alla storia ceca: “Qualora risultasse che si trattava solo di provocazione poliziesca, chiederò un’indagine approfondita e punizione dei colpevoli. La polizia di un simile stato democratico […] non può arbitrariamente distruggere le vite delle persone, indifferentemente dalle loro idee politiche… Spero che il “Processo Omladina”[1] appartenga al nostro passato e non al nostro presente”. Peccato che non era presente a dire tali parole quando, nel periodo della detenzione di Marting Ignacak, l’investigatrice principale, guardando il fascicolo, dichiarò: “possiamo fare tutto!”.

Non sappiamo se lo stesso Chovanec è direttamente o parzialmente responsabile del processo contro il movimento anarchico, e ci vorrà molto tempo prima che lo scopriamo. Per certo sappiamo se la corte deciderà di mandare dietro le sbarre queste cinque persone lui, possiamo scommettere, darà pacche sulle spalle a questa gente “per il buon lavoro che avete svolto”. Però, se succede il contrario, lui può incolpare per gli errori e abuso di potere solo un paio di individui al di fuori della polizia e apparato punitivo, che altrimenti è “senza macchia” e “di grande aiuto per tutta la comunità”.

VINCE LA MANCANZA DI PROVE

Per molti di noi il verdetto della corte rappresenta un sollievo. Per un momento possiamo respirare, incontrarsi per cena e vedere i nostri amici in uno stato mentale più rilassato, fuori dalle mura del carcere. Questi momenti sono importanti nella vita ed è positivo che possiamo goderceli. Il carcere è un’istituzione inutile, divide le relazioni, isola le persone e distrugge le vite. Per questo motivo il verdetto, non importa quanto più piacevole di “colpevole” sia, non rappresenta per noi una vittoria totale. Non dimentichiamo cosa hanno significato i tre anni di infiltrazione e poi le indagini. Ales, Martin e Peter sono tutti stati incarcerati per 27 mesi in totale, Lukas 7 mesi, e prima di questo era per un anno latitante. Tutti loro in attesa di processo (appello di Fenix 1 e per alcuni di loro e altri due compagni Fenix 2). Alcuni di loro con possibile ergastolo ancora nell’aria. Non dimentichiamoci Igor che, oggi proclamato innocente e per tre mesi in più dura custodia cautelare, ancora affronta severe misure di restrizione e deve presentarsi al servizio per la libertà vigilata per quasi un anno e mezzo. E oltre a tutto ciò, ancora rischia la deportazione dalla Repubblica Ceca a causa della custodia cautelare.

I famigliari, gli amici e i cari degli imputati e dei detenuti, come anche quelli direttamente colpiti dal caso Fenix, si trovano di fronte ad una notevole pressione emotiva e separazione. La polizia aveva fatto irruzione in numerosi appartamenti, portando sempre più persone via per interrogarle. La polizia utilizza metodi in loro potere come portare le persone in foresta, minacciare i partner e i parenti dei sospetti. Una lista di tutto ciò che è successo durante le varie azioni repressive (e stiamo parlando solo di ultimi tre anni sulla scena anti-autoritaria in csd. Repubblica Ceca) sarebbe probabilmente lunga e inquietante.

In breve, è chiaro che non c’è nulla da festeggiare. Il bisogno di distruggere il sistema repressivo è ancora in gioco, solo che è necessario pensare una strategia migliore e trovare nuovi modi di lotta. In casi come Fenix è necessario capire di cosa veramente si tratta. Sin dall’inizio abbiamo detto che la polizia non sta cercando lunghe detenzione di singoli anarchici. Le unità repressive non hanno paura di noi, non li intimoriscono Martin, Peter, Sasha, Ales, Katarina, Radka, Igor, Lukas, Ales e molte altri imputati. Quello che li spaventa è che ci saranno sempre nuove persone che si identificheranno con le nostre idee, specialmente se inizieranno ad utilizzare una più ampia varietà di tattiche. I protettori dello status quo investono molta energia, forze e risorse per mantenere le persone convinte che questo è la libertà sognata.

Le persone anti-autoritarie e anarchiche convinte che la propria vita può essere vissuta in modo più autentico da quello offerto dal neoliberismo, e che non c’è bisogno di Stato e di Politica, possono offrire un’alternativa che potrebbe interferire con questo stile di vita consumista. La repressione viene allora vista come lo strumento ideale per sopprimere le idee. E così l’apparato statale ci vuole discreditare attraverso i media sensazionalisti, etichettandoci come terroristi, per intimidirci, utilizzando il carcere e per dividere il movimento tra “radicali” e “i non-violenti”, e metterci gli uni contro gli altri. Paralizzarci con la paranoia.

La domanda è dove questo tentativo di repressione è efficace e su quali punti possiamo lavorare su noi stessi. Come non cadere nelle trappole a prima vista invisibili, e come demolire i muri nelle nostre menti. I muri dentro di noi, e tra noi e altre persone. Come rompere questi muri e costruire ponti fuori da essi. Come vincere la paura, ottenere ciò per cui combattiamo e rispettarci a vicenda. E ultimo, ma non meno importante, come non cadere nell’urgenza di vincere nel gioco che non è il nostro, e che solamente ci distrae da cose e attività importanti.

Il caso Fenix è diventato un punto cruciale per molti di noi. Possiamo imparare tanto da questo. Prenderlo come punto di riferimento per capire meglio come funzionano le strutture di potere e comprenderci a vicenda, come anche analizzare criticamente i nostri sbagli. Non vogliamo pretendere di possedere risposte a tutte le domande. Ma abbiamo imparato una cosa. Se vogliamo che le nostre azioni e il nostro organizzarsi siano veramente efficaci e pericolosi per le strutture di repressione che ci tengono sotto controllo, questo deve provenire da discussioni comuni e dibattiti che superano le linee definite dallo Stato. Abbiamo imparato che non ha senso nascondersi dalla repressione, che è meglio essere pronti ad affrontarla e creare condizioni che renderanno tali operazioni inerti. Finché le persone vengono prima messe in carcere e poi, dopo la detenzione, viene discusso se questo è la misura giusta da applicare o meno, esiste un motivo per continuare a lottare. Questo non vuol dire se il procedimento legale si svolge in ordine inverso allora la questione è risolta, ma che dobbiamo immaginare un mondo completamente differente. Un mondo senza prigioni, frontiere e polizia, dove veramente dobbiamo risolvere da soli i problemi, invece di nasconderli dietro i muri.

Fenix non è un’operazione mirante ad alcuni anarchici ingenui, essa è un attacco al futuro della sovversione in totale. È anche una dimostrazione del potere della polizia e del lavoro degli agenti segreti di Stato nella democrazia, che così spesso sentiamo essere sinonimo di libertà.

Non fatevi prendere!

In Solidarietà, Croce Nera Anarchica, Praga, Equinozio d’Autunno 2017.

“I miei pilastri di valori sono: Vita, Giustizia, Libertà ed Eguaglianza. Le persone che costruiscono casi e vogliono imprigionare altre persone difficilmente comprendono questi valori. Sono pronto per ogni verdetto, e lo affronterò a testa alta. Un verdetto che influirà sulla mia vita e sulla vita degli altri.” – Il finale del discorso di Martin Ignacak

[1]  Nel 1894 il Processo Omladina [ gioventù, ndt ], celebrato Nella Capitale regionale austro-ungarica, Praga, palesemente Porto nel tribunale l’Anarchismo e l’anarco-sindacalismo Ceco, e Nello SPECIFICO condannò 68 nazionalisti Cechi per Attività Radicali.

La Tana- Barbarie

Interessante spunto di riflessione e dibattito da “Barbarie”, e se il superamento dei limiti e la distruzione degli idoli non avesse creato il nuovo che molti auspicavano, ma solo un germe di paura in costante crescita sotto molteplici forme paralizzanti?

La tana

 

La tana

Della paura come identità ultima dell’umano, del suo superamento

I. L’ATTO CREATORE DELLA PAURA

Alone, with too much generosity
A theatre mask of hostility attracts
Assaults occur, infrequently
And those who come, to conquer?
(Colin Newman – Alone)

Devastato il giardino, profanati i calici e gli altari, la condizione umana a seguito del gotterdammerung, il crepuscolo degli dei, non ha saputo creare che il deserto, garantendosi l’invivibilità della propria condizione piuttosto che il balzo in avanti proprio di ogni ente naturale.
In altre parole, la perdita della speranza in una qualsiasi alterità e il conseguente crollo della metafisica non ha dato seguito all’alba della consapevolezza di classe materialista né all’aristocrazia degli Oltreuomini, ma ha creato un processo di assottigliamento di qualsiasi benché minima idea, rendendo l’uomo in costante compartecipazione ontologica con la propria alienazione.
Ecco il bloom, il transumano, insensibile a null’altro che sia l’idea di sé, completamente trasfigurato nelle azioni che compie (e nel valore che ne ricava) e con sogni a basso costo.
Questa condizione esigeva ed esige la nascita di una nuova forma di piacere, un godere proprio del Tempo che domina, un processo desiderante che non generasse desiderio, e così nasce la paura come atto creatore.
Da sempre questo sentimento nato come normale istinto di autoconservazione è stato utilizzato per guidare gli istinti delle masse, dalle prime mitopoiesi escatologiche al terribile occhio di Dio, tutto ciò per giustificare sempre sfruttamento e massacri, eppure mai come oggi la paura assume i connotati di eruzione (nel senso di erupto, eruttare spinta vitale), divenendo la libido di poter ritrovare quel sogno che l’uomo ha perso tanto tempo fa: l’identità.
Immaginiamo un ente secolarmente educato ad obbedire alla trinità Dio-Patria-Famiglia, o meglio a temere il primo, soddisfare la seconda e sentirsi protetto dalla terza in una vita di continua schiavitù consapevole; immaginiamo poi che la Storia (e il suo processo di scrittura e decodificazione) dimostri che queste tre entità non sono altro che fantasmi, e che l’uomo si ritrovi nel corso di due secoli completamente sradicato da qualsiasi appartenenza.
La prima reazione di quest’orfano è stata quella di produrre e consumare con bulimica ferocia, e per più di cinquant’anni la società occidentale ha assunto l’aspetto del parassita, finché non è rimasta più carne sul cadavere del presente e a quel punto, orfano una volta di più anche della società che gli aveva promesso il benessere, sia diventato finalmente nomade, non più padrone del tempo e con la possibilità di imporre la propria volontà solo sul proprio divenire.
Immaginiamo che non abbia neanche scorto questa possibilità e si sia trovato sperduto nel deserto, con un passato che è solo menzogna e presente e futuro che son la ripetizione di giorni uguali, con la morte e la miseria come unica variabile.
L’uomo è una macchina desiderante, e a questo punto si poteva scegliere di “stringersi l’un l’altro con più forza e amore (…) comprendendo di essere rimasti soli l’uno per l’altro” oppure di desiderare la creazione di identità virtuali, un atto di necrofilia della volontà: necrofili, scelsero la seconda, e decisero che l’ente di produzione di identità fosse proprio quel sentimento a un tempo naturale e servile che è la paura.

II. LA PORNOGRAFIA DELLA PAURA

You love me because you’re frightened
I can easily believe my eyes
Your fear is my finest hour
My fear is your disguise
(Magazine – Because you’re frightened)

Oltre la fine del piacere vi è solo la pornografia, il piacere del piacere, e ad oggi la paura è il sentimento morboso che riesce ad eccitare il noumeno del Bloom.
La crisi, il terrorismo, la povertà, l’immigrazione, la disoccupazione e poi la morte: l’uomo gode nell’averne paura, perché si sente parte di qualcosa, ritrova un Dio una patria e una famiglia semplicemente applicando una dialettica negativa nei confronti di situazioni.
È esplicativa di ciò tutta l’opera di Kafka, e in particolare un ritratto di questa, per dirla con Blanchot, “sovranità del neutro”, il racconto “Davanti alla legge”.
In esso un contadino si trova di fronte alla porta che lo separa dalla Legge sorvegliata da un guardiano che gli dice “Per ora non puoi entrare e, comunque, davanti a me troveresti altre porte e altri guardiani”.
Passano gli anni, il contadino cerca di convincere ripetutamente e inutilmente il guardiano a farlo passare, finché stremato dalla vecchiaia non si trova in procinto di morire; il guardiano allora gli confessa che quella porta era destinata solo a lui, e ora che è moribondo va a chiuderla.
“Dove si credeva vi fossero leggi c’era desiderio, e desiderio soltanto” è scritto in “Kafka per una letteratura minore” ed effettivamente il contadino non scorge una linea di fuga, un superamento della sua condizione attuale (l’attesa) ma semplicemente il divieto, creandosi così l’identità dell’uomo che attende.
Così la paura, tanto comoda alle strutture di potere in quanto stasi dell’individuo, tanto comoda per quest’ultimo in quanto ultima possibilità di piacere.
Pensiamo agli ultimi massacri di Daesh: si annusavano sotto i pantaloni e le gonne del Bloom quelle sensazioni bagnate dei coiti notturni.
A Parigi un commando entrava in un noto locale per giovani e apriva il fuoco, a Bruxelles morivano bruciate ingenti quantità di persone (la morte come processo industriale, lezioni ben imparate dalle guerre occidentali) in aeroporto e in metro, a Nizza un camion falciava simpatici turisti vogliosi di prendere il sole e festeggiare la repubblica francese…
Tutta l’umanità, ergo il mondo capitalista, si stringe in un tremante abbraccio: finalmente qualcuno da odiare, finalmente potersi dire occidentali, finalmente la paura, finalmente noi.
La paura nella società dello spettacolo è il collante per anime altrimenti sradicate, ed è al contempo l’unica spinta vitale dell’umanità.

III. LA DIALETTICA DELLA PAURA

I love tube disasters
I wanna marry a tube disaster
I want another one like the last one
cause I live for tube disasters yeah
(Flux Of Pink Indians – Tube Disasters)

La paura come paradigma.
La paura disciplina e regge lo stato di cose presenti, poiché un individuo senza le speranze di benessere di ieri e senza il terrore dell’oggi è una grande possibilità insurrezionale: quando hai paura di perdere il poco che ti è rimasto, che poi sono gli spiccioli per bere e drogarti e un/una partner con cui condividere la tua solitudine, non potrai neanche immaginare un superamento.
Disarticolare ogni paura è il primo compito per contrastarla: la morte violenta c’è sempre stata, non sono i fascisti dello Stato islamico ad averla creata, il lavoro salariato è un’invenzione dei padroni, perderlo vorrebbe dire tornare allo stadio primigenio dell’esistenza, con tutta la sua moltitudine di possibilità evolutive, e così anche per la mancanza di ricchezze e proprietà.
Ogni terrore è intuizione dialettica, sono tutte parole, niente è vero. Se così è, non si può temere più nulla, perché tutto è lecito.

La paura come linguaggio.
Uomini e donne sono sottoposti/e a un bombardamento di paure costante, così da non scordarsi mai di essere soggettività paurose (quindi identità fisse).
Telegiornali, siti web, giornali, tutto concorre a sviluppare un linguaggio della paura: troppe bombe in giro per così pochi morti.
A costo di assumere posizioni Necaeviste -per non dire Machiavelliche- la guerra sociale ha bisogno di sfruttare il linguaggio della paura facendosene carico.
I militanti jihadisti, pur nella loro delirante visione del mondo, hanno indovinato la strategia: divenendo volutamente oggetto della paura, attirando su di loro le paure di tutti/e con azioni gratuitamente sanguinarie, sono diventati oggetto di desiderio da parte di coloro che la paura non volevano più subirla.
Dimostrando una grande intelligenza tattica, ISIS si spinge oltre all’organizzare la jihad contro il mondo occidentale. Tutto ciò che attacca quel mondo producendo paura da una parte e desiderio di elargirla da un’altra, è automaticamente ISIS. Non importano le intenzioni, le relazioni e le storie di chi agisce, in un conflitto la posta in gioco non è la coerenza ma l’offensività: la messa in serie di atti che facciano progredire il conflitto stesso. L’accumulo di potenza e lo sviluppo di rapporti di forza favorevoli: il mezzo.
Ciò non significa che la militanza rivoluzionaria debba utilizzare gli stessi metodi -tanto più constatando quanto i rapporti di forza ci vedano minoritari- né che debba tornare a utilizzare una metodologia definita “terrorista”.
Che peraltro non fa più paura a nessuno.
Prova ne è l’ultimo teorema datato 6 settembre della magistratura italiana contro gli/le anarchiche/i che, malgrado il polverone montato dagli scribacchini, non ha innescato il benché minimo processo timoroso-desiderante nei confronti dei cittadini.
Piuttosto utilizzare questo linguaggio contro ciò che si vuole intimorire.
Una sommossa, un riot, distrugge anche se per poche ore il quotidiano delle masse, dando l’assalto al loro spazio-la città devastata.
Come si è potuto non capire che il polverone mediatico all’indomani di ogni grande scontro di piazza era la prova che le azioni di quella giornata avevano lasciato un segno interiore nel pubblico molto più grosso delle due vetrine spaccate?
Come non capire che ci si era confrontati con lo spettacolo finalmente sullo stesso piano e non più in posizione difensiva?
Incutere paura al quotidiano, oltre la distruzione dello spazio, vuol dire frenare i meccanismi di produzione, ergo stoppare il tempo.
Il piccolo sabotaggio nei pressi della stazione di Bologna del 23 dicembre 2014rallentò per ore il transito di passeggeri, blocco il traffico di merci umane, incutendo molto più terrore di qualsiasi grido barricadero. Il terrore del cittadino di non potere, anche per quel giorno, trascinare avanti normalmente la propria miserabile esistenza aggrappata agli scampoli di un benessere in rapido esaurimento.
Allo stesso modo ogni blocco dei camion operato dalle/dai compagni/e ai magazzini della logistica suscitano il terrore –un terrore omicida– nei padroni e nei loro affiliati: è un incubo che qualcuno alzi la testa rallentando sia il processo di ristrutturazione dei cosiddetti “diritti dei lavoratori” che la distribuzione delle merci in un paese quasi completamente post-industriale.
Il modo migliore per un rivoluzionario per incutere paura oggi è ridefinire spazio e tempo, che sia quindi lo spazio che creiamo (anche distruggendo) e il tempo che viviamo.

IV. OLTRE LA PAURA, VERSO IL DESIDERIO.

So if you ever think that life is just not worth living
If you doubt that you have anything left at all, worthy of truly giving
When life’s not making any sense and you’re filled with anger and resent
Remember love can conquer all, it is the start of state hates final fall
(Conflict – A Message To Who)

La macchina desiderante “uomo” non ha smesso di desiderare con la merce, lo ha semplicemente diretto nella ricerca dell’identità sradicata dallo spettacolo: sentirsi parte di qualcosa, di una nazione, di un genere, di una famiglia.
La paura è l’unico mezzo rimasto per raggiungere ciò, essendo venute a mancare tutte quelle condizioni filosofiche e sociali che avevano eretto le sovrastrutture autoritarie: avendo appurato che l’inconoscibile era irraggiungibile, ci si è messi a temerlo.
Una vita differente, culture lontane, soggettività indisciplinate, tutto è una minaccia.
La crisi del capitalismo finanziario poteva essere una eccezionale occasione per smarcarsi dal giogo del lavoro salariato e dal “migliore dei mondi possibili”, invece grazie a un’intelligente propaganda politica e massmediatica si è infuso terrore di morte e miseria nel cittadino che si è attaccato con le unghie e con i denti all’idea di “lavoro” (dove?) e “futuro”(quale?).
Questo terrore, lo ripetiamo ancora una volta, è una voglia. Sarebbe quantomeno ingenuo credere che la stragrande maggioranza di individualità occidentali siano a tal punto ottenebrate dalla propaganda massmediatica da credere sul serio a fantasmi ormai quasi trasparenti, il punto di base è che la paura tiene in costante veglia la personalità, fa sì che non si ponga domande, soddisfa quella pulsione repressa di generare desideri.
Alla crisi del piacere, che non trova più spazi se non nel piacere della paura, la risposta è un nuovo investimento libidinale nella creazione di relazioni non mercificate.
Se l’immaginario degli ultimi anni è completamente fondato sulla paura, bisogna opporre ad esso un nuovo immaginario fatto di corpi intrecciati, in continuo divenire, che soddisfano ogni necessità qui ed ora, senza deleghe né mezzi che non sia la volontà.
Anche qui la comune ritorna, il tentativo di tornare ad appagarsi di desiderio con la prospettiva di allacciare relazioni di condivisione sempre più ampie.
L’amplesso è più soddisfacente se inscritto in una prospettiva rivoluzionaria.
La paura è la pornografia che il capitale ci vende al modico prezzo della morte della voglia, l’insurrezione è la ricostruzione di un piacere senza limiti né freni.